Felicemente dispari

La rivolta in famiglia era diventata ormai incontrollabile anche se rimaneva, per me, incomprensibile. I figli (delle mogli non conviene mai fare parola) avevano toccato ormai tutti i tasti possibili e immaginabili per convincermi. Rimanevo – e rimango – del mio parere: se proprio uno si trova del tempo libero, gli conviene ammirare, attraverso l’oblò, l’arte involontaria con cui la lavatrice combina i capi colorati, piuttosto che mettersi davanti alla televisione: c’è molto più varietà nel primo caso che nel secondo. A mio parere, inoltre, la nostra televisione funzionava benissimo, se appena ci si fosse accontentati dell’audio, e non ero per nulla infastidito dal colore verdolino che prendevano tutti i personaggi, anche durante i telegiornali e perfino quando non trasmettevano film di marziani. Le mie difese però cominciavano ad esaurire gli argomenti: se i politici italiani comparivano tutti verdi, si poteva anche credere a problemi di fegato generalizzati (epidemia in parlamento?); ma che fossero verdi anche i medici afro-americani nel pronto soccorso di I.R, non sapevo più come spiegarlo. Fu così che accettai di farmi trascinare al centro commerciale per sostituire il nostro televisore dopo dieci anni di onorato servizio. Il mio estremo tentativo di dirigermi verso il negozio di acquari fu prontamente sventato, e mi trovai ben presto immerso tra i seguaci di un nuovo culto: quello del dio digitale. L’enorme ambiente – imitazione post-moderna della basilica – rigurgitava di coppie, molte con bambini piccoli. I nuclei famigliari di devoti si aggiravano estatici lungo i corridoi che esponevano i nuovi modelli di televisori extra-piatti. Il prezzo di qualcuno era forse paragonabile ai più alti delle vecchie televisioni che conoscevo anch’io; ma per la maggior parte si trattava di cifre esorbitanti, giustificabili solo con l’idolatria. E vedevo la preoccupazione nei volti, il tormento serio nel calcolo delle rate e di quanto sarebbe rimasto per sopravvivere. E la gente comprava, e si impadroniva di quei cosi con l’aria di conquistare un riscatto, di raggiungere un’emancipazione. Uscivano insieme, le famigliole, tutte unite: più che appagate, direi, salvate. In un angolo del locale svendevano per quattro soldi i vecchi televisori a tubo catodico, profonde e pesanti. Io, che non sono disposto a vendere un rene per ammirare Emilio Fede a grandezza naturale, mi diressi proprio verso questi ultimi. Uscimmo, mia moglie ed io, tra la generale disapprovazione, reggendo in due l’enorme scatolone. È chiaro, o almeno a me sembra, che quelle famiglie stavano facendo qualche cosa di più rispetto al mero comperare un elettrodomestico: molte si mettevano in difficoltà economiche per non sentirsi escluse o in inferiorità rispetto ai simboli del consumo, per non perdere la parità con gli altri. Questa parità, in effetti, non ha nulla a che fare con l’autentica uguaglianza: è, invece, una somiglianza superficiale di tipo imitativo, riguardante i consumi diffusi e gli status symbol, per cui molti indossano gli stessi vestiti e usano gli stessi elettrodomestici, ma differiscono profondamente nelle opportunità di scelta più importanti: la possibilità di studiare, l’abitazione, l’assistenza sanitaria. La parità evidente nel superfluo nasconde la disuguaglianza nel necessario. Sono passati i tempi in cui l’uguaglianza faceva pensare, prima di tutto, a qualche cosa di sostanziale e di sociale, da vivere anche in maniera pubblica e non certo solo nella penombra televisiva di un salotto. Un cambiamento è intervenuto riguardo ai grandi principi universali, che sono stati modificati, modulati diversamente, quasi a voler cambiare, con essi, la prospettiva della cultura personale, sociale e politica senza però darne un esplicito avviso. La società contemporanea, infatti, ha una grande capacità di trasformazione che coinvolge profondamente l’ordine del pensiero: intendo dire che sa produrre nuovi trittici, qual era, ad esempio, quello che proclamava libertà, uguaglianza e fraternità nel corso della Rivoluzione francese. Al posto di quelle classiche sintesi dei valori universali, oggi si formano inedite combinazioni di principi dell’agire che, anche quando non si presentano attraverso un pensiero ufficiale e non sviluppano un’ideologia esplicita, diventano in realtà formidabili principi pratici, che orientano le scelte delle persone nella vita quotidiana: nelle nostre società le trasformazioni avvengono senza che nessuno ci avvisi, senza che compaiano cartelli e istruzioni per l’uso. Ci si trova immersi in un ambiente diverso da quello nel quale si è nati, e diverso da quello nel quale si sono compiute le scelte più importanti; i significati delle cose cambiano e la società prende un diverso orientamento, come una grande nave che vira dolcemente sull’acqua mentre tutti si occupano d’altro. Proprio di questi slittamenti dei significati si è occupato il sociologo Zygmunt Bauman. Recentemente, proprio analizzando il trittico del 1789, ha sottolineato che esso contiene la dichiarazione essenziale di una filosofia di vita (…). La felicità è un diritto umano e la ricerca della felicità è una propensione umana universale (…). E per raggiungere la felicità gli esseri umani dovevano essere liberi, uguali e fraterni. Per Bauman il trittico esprimeva la convinzione che la felicità, pur riguardando essenzialmente la vita personale, aveva un forte legame con la costruzione delle condizioni sociali più favorevoli al suo perseguimento da parte dei singoli; la felicità era dunque intesa come frutto della ricerca personale, ma questa riguardava anche lo spazio pubblico: si intende che non è possibile essere felici individualmente all’interno di una società infelice. Il trittico rivoluzionario, secondo Bauman, è oggi stato sostituito da un altro: lo scopo che ci si propone sia singolarmente che socialmente è sempre lo stesso (la ricerca della felicità); ma la formula che attualmente si impone si potrebbe esprimere con i termini di sicurezza (al posto della libertà), parità (al posto dell’uguaglianza), rete (al posto della fraternità). La parità come sostituto dell’uguaglianza, già la si è vista. Per quanto riguarda il primo principio, un numero sempre crescente di persone che vivono nei Paesi più sviluppati chiede oggi maggiore sicurezza (di ordine pubblico, di lavoro, di futuro) ed è disposto, in cambio, a rinunciare a una parte di libertà. La rete, di per sé, è qualcosa di positivo, perché indica un legame, una comunicazione. Ma la si potrebbe intendere anche sotto un significato negativo, se essa è vissuta come la possibilità che oggi la tecnologia conferisce ad ogni individuo di costruire (per esempio attraverso Internet) un insieme di collegamenti, di rapporti virtuali, che stanno totalmente nella disponibilità del soggetto che li sceglie: non c’è rapporto con una realtà che resiste e si oppone, non c’è vero rapporto con l’altro – non c’è reale alterità -, perché se l’individuo si infastidisce, spegne: la rete, intesa in questo senso, è, in effetti, una espansione dell’io, sostitutiva del rapporto umano reale. Tra i molti aspetti che tale sostituzione offre all’analisi, ne sottolineerei soltanto uno: il passaggio da un trittico all’altro, corrisponde al passaggio da una concezione della vita e della persona, ad un’altra; si passa dalla valorizzazione della dimensione pubblica ad una concezione nella quale ciò che è personale – distorcendo così anche il concetto di persona – si riduce alla mera dimensione privata. Rivolgersi al trittico tradizionale ha allora il significato di distogliersi dalla falsa parità, di guardare altrove, di domandarsi se non è il caso di partire, fraterni e dispari, alla riconquista dello spazio pubblico.

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