Evitare una guerra tra poveri

Ci si interroga sulla fondatezza del nuovo piano che sostituisce “Fabbrica Italia”. Cosa chiedono i 19 lavoratori che rientreranno in azienda con la sentenza del giudice?
pomigliano d'arco fiat

Forse non partirà un’ennesima guerra tra poveri a Pomigliano d'Arco. La direzione della Fiat aveva preannunciato, con uno stringato comunicato, l’intenzione di procedere con il licenziamento di un numero di operai equivalente a quello da reintegrare in forza di una sentenza che ha accertato, fino al grado di appello, «il comportamento antisindacale e discriminatorio» da parte dell’azienda nei confronti degli iscritti alla Fiom Cgil. Ora davanti ad un primo manipolo di lavoratori (19 su 145) che si accingono, il 25 novembre, a varcare la soglia della Fip (Fabbrica Italia Pomigliano), è già partita la procedura di mobilità che serve ad individuare i nominativi dei dipendenti da sacrificare. La mossa ha trovato per la prima volta il disaccordo esplicito da parte di ministri di primo piano del governo Monti. Si sono espressi in senso critico quelli del Lavoro e dello Sviluppo economico, Fornero e Passera, gli stessi che parteciparono all’inaugurazione del nuovissimo stabilimento partenopeo nel 2011.

Ormai non esiste più quel progetto di investimenti, chiamato “Fabbrica Italia”, che doveva far raddoppiare la produzione di auto sul territorio nazionale. In forza di questa prospettiva, gran parte dei sindacati, tranne Fiom e ovviamente i Cobas, avevano accettato nuove regole e condizioni di lavoro peggiorative per i lavoratori che, comunque, chiamati davanti all’urna del referendum interno hanno votato in maggioranza a favore della nuova normativa interna su turni, riposi, straordinari, assenze malattie e diritto di sciopero.

L’alternativa era del tutto evidente, tanto è vero che nello stabilimento ex Bertone di Grugliasco i rappresentanti Fiom, dove erano in maggioranza, si sono dimessi lasciando libertà di voto. Il giuslavorista Pietro Ichino ha sempre indicato la triste alternativa dei sottoscala mal pagati in nero come altra ipotesi di occupazione possibile a Napoli. Ma non occorre risiedere nel Sud per sentire sulla propria pelle questa estrema fragilità. Superata una certa età, senza essere vecchi, fuori dall’occupazione attuale si trova spesso il baratro. Ne sanno qualcosa schiere di lavoratori qualificati, in bilico tra la dotazione dell’ultimo iPhone e il nulla. La macchina del sistema non sta funzionando. È accesa una spia rossa del motore e si riferisce alla sicurezza e qualità del lavoro, come afferma Luigino Bruni nell’editoriale di Avvenire del 4 novembre.
 
Quale piano industriale? 
Ma la vera questione in gioco è capire se questo dibattito rischia di offuscare l’attenzione sul nuovo progetto di sviluppo presentato agli investitori il 30 ottobre da parte di Fiat Auto. Diversamente da Ford e Psa (Peugeot e Citroen), che annunciano migliaia di licenziamenti in Europa, non si prevedono altre chiusure come quella già avvenuta a Termini Imerese, in Sicilia, ma un forte ricorso alla cassa integrazione. Il nuovo piano prevede la concentrazione della produzione sulle auto di piccola cilindrata (come la Panda di Pomigliano) e su quelle di classe superiore (marchio Alfa Romeo e Maserati) dove esistono maggiori margini di guadagno. Il sostanziale abbandono della fascia della media cilindrata comporta un forte orientamento verso l’esportazione extra europea entrando in forte competizione con chi, come la Volkswagen, già presidia i mercati dei nuovi ricchi. Cinesi, russi e indiani comprano tedesco e la competizione per strappare il primato Fiat in Brasile è molto forte. Qualche dubbio da parte degli investitori esiste, se come ha notato Andrea Malan su Il Sole 24 ore, tra il 2004 e il 2012 la Fiat ha cambiato otto piani in otto anni senza conseguire quasi mai gli obiettivi produttivi e commerciali dichiarati, ma condizionando, come sempre, le (non) scelte di politica industriale nazionale. Come osserva sempre Malan, «il piano del 2010 prevedeva 100 mila esportazioni verso gli Usa di cui 85 mila Alfa Romeo e 20 mila Fiat. Le prime Fiat stanno per partire… dalla Serbia».
I lavoratori non possono fuggire come fanno i capitali e il timore forte è quello di avere in Italia una serie di «fabbriche cacciavite» con il centro strategico altrove (negli Usa). Chi vive in prima linea la mancanza cronica di commesse e lavori (lo stabilimento di Mirafiori ha lavorato 41 giorni nel 2011) non può che essere preoccupato.
 
Estremista? 
Ascoltando Antonio Di Luca, uno dei 19 lavoratori di Pomigliano già intervistato da cittanuova.it, si percepisce l’attaccamento ad una professionalità che inizia dallo stabilimento dell’Alfasud dove entrò giovanissimo. Si chiede perché la stessa azienda cambia l’insegna (Da Fiat a Fip) e chiama assunzione quello che è un richiamo dalla cassa integrazione. Di Luca apprezza la qualità della nuova Panda e si dichiara disposto al sacrificio tanto da proporre l’avvio di contratti di solidarietà e la rotazione della cassa integrazione per tutti, «in modo che nessuno veda reciso il cordone ombelicale che li lega all’azienda» in attesa della ripresa. Condivide il dramma degli oltre duemila lavoratori non trasferiti nella nuova azienda e che rischiano di rimanere senza il sussidio della cassa integrazione straordinaria che terminerà nel luglio 2013. L’operaio chiede allo stesso tempo di poter discutere del piano industriale. Del perché non si investe sull’ibrido. Ritiene che «la dialettica serve a rivedere le posizioni e risanare errori per il bene comune dell’azienda», ma fa presente che è difficile il dialogo «davanti all’autoritarismo delle relazioni industriali». Non sono parole eversive, ma solo l’esigenza di non perdere l’esercizio della cittadinanza dentro i luoghi di lavoro.
Per questo la vertenza della Fiat resta emblematica. Riesce ancora a dare voce a soggetti altrimenti scomparsi da ogni visibilità.
 

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