Esercizi di… scrittura

Come si fa a rendere un testo lucente? Con esattezza, concretezza, cura. Settima puntata

Salgo le scale dell’Università di Varsavia, in fretta, sovrappensiero. (Oltre a un sentimento di profonda solidarietà per l’Ucraina si prova – da queste parti – un atavico timore per quello che la Russia è capace di fare, a cui si sommano scadenze lavorative ansiogene, piccole paure private: quei pensieri che ti svegliano alle 5:00 di mattina.)

Per poco non inciampo in una donna china sugli scalini. Mi scuso. Come ho fatto a non notarla? Continuo a salire, come se mi fossi risvegliato da un brutto sogno. Rallento il passo, schiarisco i pensieri. Dopo aver raggiunto il piano superiore, osservo, dall’alto, la donna accovacciata.

C’è qualcosa che attira la mia attenzione, non capisco subito. Riconosco, invece, una sensazione già provata: di stare per capire una cosa importante (che magari poi si rivela modesta, una piccola luce, ma pur sempre tale).

Deve avere a che fare con il lavoro che questa donna sta facendo: pulisce le scale. Non so voi come puliate le scale di casa, se abbiate osservato qualcuno farlo. Per quello che ne so io, prima si spazza, poi si passa lo straccio bagnato sui gradini. Quando sono asciutti, si possono lucidare con un prodotto adatto al materiale.

Poi si pulisce il corrimano, che è la parte con cui entriamo in contatto diretto (non quello dei piedi con i gradini, protetto dalle scarpe). Sul corrimano poggiamo la mano: deve essere pulito. Se non è pulito, ce ne accorgiamo. Si toglie la polvere dal corrimano, lo si può lucidare. Bene, questo è pulire le scale, renderle lucide, secondo me.

Era, prima di mettermi a osservare la donna accovacciata. Ha spazzato, passato lo straccio bagnato sui gradini, lucidato il marmo, spolverato e lucidato il corrimano. Ora, in ginocchio, toglie la polvere dagli interstizi degli ornamenti della ringhiera. Quello è un posto dove lo sguardo materialmente non arriva.

A che serve fare un lavoro simile? (tra l’altro, per un salario modestissimo). A parte l’evidente virtù di chi compie un gesto umile (un lavoro segreto, che nessuno noterà) con dedizione (già questa è una luce sufficiente a diradare le ansie mattutine), mi pare che in quel gesto ci sia una lezione di scrittura: quel gesto è l’esercizio richiesto a chi scrive.

Il risultato del lavoro fine, del gesto umile e pulito della donna che con il panno raggiunge la polvere negli interstizi degli ornamenti della ringhiera, e la rimuove, è la lucentezza. La lucentezza è il contrario dell’opacità; è una proprietà globale del corpo che la manifesta. Lucentezza e opacità sono proprietà fisiche: hanno a che fare con la luce, che viene assorbita, se il corpo è opaco, oppure, al contrario, riflessa, se il corpo è lucido.

Noi non vediamo se gli interstizi della ringhiera sono spolverati o lucidi, per notarlo dovremmo chinarci, come fa quella donna. Ma quello che vediamo, anche senza chinarci, è l’effetto della luce che su quella scala lucente si riflette e ci raggiunge. Quelle scale sono il testo letterario.

La lucentezza di un testo, la sua capacità di riflettere luce (piuttosto che assorbirla per opacità) è uno degli obiettivi a cui lo scrittore ambisce. Come si raggiunge? Con un lavoro fine, virtuoso, invisibile a testo concluso, ma essenziale, lungo, faticoso.

Chi riceve il testo, chi lo legge, coglie la sua lucentezza, così come la sua trasparenza (in realtà è questo il contrario dell’opacità). Vedrà passare luce. Passa la luce, perché il testo è pulito, spolverato in ogni suo interstizio.

Perché qualcuno (chi l’ha scritto) si è chinato su di esso, sul singolo dettaglio: parola, segno d’interpunzione, suono, spazio tipografico, e ha rimosso ogni granello di polvere.

Con umile cura, direbbe Pontiggia, che stimava il valore dei sostantivi e degli aggettivi, anche più comuni, e di essi si fidava più che di pretenziosi avverbi: «Era una mattina gelida, è potente, mentre In una mattina estremamente gelida secondo me fa già un po’ meno freddo, perché l’attenzione si sposta sul logoro estremamente».

Con esattezza, per dirla con Calvino, che auspicava «un linguaggio il più preciso possibile come lessico e come resa delle sfumature del pensiero e dell’immaginazione».

Con concretezza, secondo Carver, che credeva «nell’efficacia della parola concreta, sia essa un sostantivo o un verbo, in contrapposizione alla parola – o espressione, o frase – astratta, arbitraria, sfuggente»; «le parole possono essere precise anche al punto di apparire piatte, l’importante è che siano cariche di significato: se usate bene, possono toccare tutte le note».

Una parola precisa è una parola spolverata: fa passare o riflette la luce, non l’assorbe. Anche se di opacità dovessimo scrivere, le parole dovrebbero essere lucide.

Vale quanto scriveva Calvino su Leopardi, capace di rendere il vago attraverso l’esattezza: «Il poeta del vago può essere solo il poeta della precisione, che sa cogliere la sensazione più sottile con occhio, orecchio, mano pronti e sicuri».

Accovacciati sul testo, a lavorare di fino, acuendo lo sguardo, con un panno per la polvere (magari elettrostatico), per un salario modestissimo (o inesistente), a leggere, rileggere, pulire, finché la schiena non fa male, gli occhi iniziano a lacrimare: così si scrive.

Ultimo scalino, la classe è al quarto piano. A saperlo, non avrei preparato la lezione. Oggi parlo di polvere, opacità, luce, cura, mal di schiena: di scrittura. Di scale letterarie.

 

P.S. Queste pagine, ad esempio, le ho spolverate molte volte e adesso metto un punto, solo perché non ho più tempo. Eppure, ho l’impressione che ci sia ancora qualcosa da lucidare.

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