Esercizi di… immedesimazione

Vedere il mondo dal punto di vista dell’altro, sapere quello che lui sa, conoscere le sue convinzioni, il suo credo: assumerne l’interiorità. Possiamo provare. Con l'occasione del Natale, possiamo imparare da un Dio che vede il mondo con i nostri occhi.
Migranti

Ero indeciso se proporre un nuovo esercizio o continuare con l’ascolto. Non so a voi: a me pare di non aver ascoltato abbastanza, di non aver fatto sufficiente spazio, silenzio, luce (se non rare volte) affinché chi mi parlava si sentisse accolto.

Poi, la settimana scorsa, ho preso parte a un convegno letterario molto bello sulla “fragilità” e ho pensato che avrei dovuto optare per questa parola (esercizio), così meravigliosamente in controtendenza, rispetto alla ricorrente e abusata “resilienza”. Alla fine sono tornato all’idea avuta prima dell’indecisione: “immedesimazione”.

Anche perché nel frattempo è arrivato Natale e questa parola potrebbe offrirsi come una medit-azione (pensiero ed esercizio) laica.

Ci sono due modi di costruire relazioni profonde: accogliere l’altro in sé (con l’ascolto, il silenzio, l’attenzione come la intende Simone Weil), oppure trasferirsi in lui: mettersi al suo posto. Questo secondo esercizio lo chiamiamo: “immedesimazione”.

È una parola che ha applicazioni e significati diversi in vari campi, dal teatro alla psicologia, alla letteratura. Mi fermo su quest’ultima, da cui continuo a imparare molto sulla cura: delle parole, delle persone, del sé; e di ciò che cura non è.

Un grande scrittore polacco, Ryszard Kapuściński, maestro di reportage letterario, scriveva: «L’immedesimazione, ecco la condizione fondamentale del mio lavoro. Devo vivere tra le persone, mangiare con loro, fare la fame con loro. Voglio diventare parte del mondo che descrivo, immergermi in esso e dimenticare ogni altra realtà. […] Bisogna capire la dignità degli altri, accettare e condividere le loro difficoltà. Rischiare la vita non basta. L’essenziale è il rispetto per le persone di cui si scrive».

Kapuściński poneva al centro dei suoi reportage – scritti principalmente da paesi non europei, in particolare del terzo mondo – l’altro (il non europeo); voleva raccontare la sua storia, dal suo mondo, spesso un mondo povero. Una lezione di vita, prima che di scrittura.

Per scrivere di qualcuno con rispetto (più importante del rischio, del coraggio) devi metterti lì, dove lui si trova: assumere il suo punto di vista. Cosa vuol dire?

Lo spiega molto bene la narratologia (la scienza delle narrazioni). Il punto di vista è uno sguardo, una conoscenza, una convinzione. Ha a che fare dunque col vedere, col sapere, col credere.

Per questo si parla di punto di vista percettivo: quello che vedo, ascolto, sento, percepisco da una certa posizione. Cognitivo: quello che so, le mie conoscenze pregresse, attraverso le quali implemento la conoscenza. Epistemico: quello che credo, le mie convinzioni, il mio sistema di valori.

Queste sono le componenti del punto di vista, i tre assi in cui lo possiamo scomporre. I primi due riguardano percezioni ed emozioni, quello che si sente, esperisce, conosce. Il terzo riguarda le convinzioni sul mondo, basate spesso sui primi due punti di vista, ovvero su quanto abbiamo visto, sentito, imparato, sappiamo o pensiamo di sapere.

Assumere un punto di vista vuol dire assumere tutto questo: lo spazio (almeno) tridimensionale dell’esperienza, della percezione, delle convinzioni dell’altro.

Assumere il punto di vista di chi è di fronte a noi non vuol dire solo “mettersi nei sui panni” (assumerne l’esteriorità), ma girarsi e vedere il mondo dal suo punto di vista, sapere quello che lui sa, conoscere le sue convinzioni, il suo credo: assumerne l’interiorità.    In una parola: immedesimarsi.

Ad esempio, se ci recassimo alla frontiera tra Polonia e Bielorussa, come hanno fatto i volontari polacchi (come avrebbe fatto Kapuściński che in Bielorussia era nato) manifestanti il loro dissenso, la loro indignazione per le politiche disumane e la loro solidarietà per i migranti intrappolati in una fascia di terra militarizzata, cosa vedremmo, sentiremmo, penseremmo? Un muro di filo spinato, un esercito schierato. Fame, freddo, disperazione. «Sono venuto fin qui a morire, su questo lembo di terra che era la mia e ora non mi vuole».

Ho scelto un esempio drammatico, che la storia ci mette sotto gli occhi, ma che potrebbe non toccarci, se non facciamo lo sforzo di immedesimarci, di assumere un punto di vista di frontiera.

Ho scritto che l’approssimarsi del Natale mi ha ulteriormente convinto della necessità di esercitare questa parola. Sì, perché il Natale è (anche) un grande esercizio di immedesimazione: l’esercizio di un Dio che si immedesima con l’uomo, ne assume il punto di vista percettivo, cognitivo, epistemico, oltre ad assumerne il corpo, la carne (come siamo abituati a meditare).

Dio vede il mondo con i nostri occhi, ne apprende le leggi, la storia, la cultura, la violenza, la fragilità, la speranza. E si convince che, nonostante tutto, merita di essere amato, di salvarsi.

È iniziato come un esercizio è diventato un augurio natalizio.

Buona immedesimazione.

 

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