Esercizi di… fragilità

Normalmente si esercita la forza, non la debolezza: ci si allena per non essere fragili. Forse si tratta di abitarla, di riconoscere in essa la nostra casa comune. Fragilità e sensibilità, non sono sinonimo di debolezza, ma di umanità. La quinta puntata di esercizi

Lo confesso: ho un debole per i supereroi. Quando ero piccolo mio padre mi comprava i fumetti di Spiderman e dei Fantastici Quattro. Me li comprava quando ero malato; restavo a casa, a letto, e li leggevo. (Se stavo bene, non li ricevevo né sentivo il bisogno di leggerli.) A distanza di decenni provo ancora simpatia per i supereroi, forse perché mi riportano indietro nel tempo, perché era mio padre (supereroe domestico) a comprarmi i fumetti, perché li leggevo invece di andare a scuola.

C’è un altro motivo (adesso mi è chiaro), per il quale quelle storie mi attraevano: i supereroi si prendevano cura dei deboli, degli indifesi, li proteggevano dalle ingiustizie e dalle insidie di ogni genere. Usavano i superpoteri per aiutare le persone comuni: fragili. Non erano i superpoteri a interessarmi, erano le persone fragili. Questo l’ho capito crescendo.

La fragilità mi attrae, mi chiama in causa, in particolare quando prende il volto di un malato, di un sofferente, di un anziano solo, di un folle (ammesso che la follia sia una fragilità e non una forza). Non sono San Francesco e non è il fuoco paolino della carità a muovermi (non solo quello), ma una sorta di naturale immedesimazione che ogni volta scatta. I miei neuroni specchio prediligono i fragili. Ci sarebbe da psicanalizzarsi o compiacersi (due derive narcisistiche da evitare). Le letture, le esperienze di questi ultimi anni mi hanno aiutato a capire.

La fragilità mi attrae perché è uno specchio (non deformante) della mia vera natura. Io sono così: come quel malato (anche se ora sono sano), come quel sofferente (anche se ora gioisco), come quel vecchio (anche se ora sono relativamente giovane), come quel folle (anche se non ho ricevuto una diagnosi psichiatrica, eppure frequento i folli da anni). Non si tratta della probabilità di ammalarsi, delle ferite che non saprò evitare, del naturale decorso biologico della vita, del destino, del futuro. Si tratta del presente: un presente storico che è al contempo passato e futuro.

Io sono così ontologicamente. Sono fragile come lo è ogni essere umano. E mi riconosco in ogni fragile: solidale perché simile. (I miei neuroni specchio non si attivano difronte alle dimostrazioni di potenza; il cervello, piuttosto, lancia segnali di allerta). C’è una straordinaria autenticità in ogni manifestazione di fragilità che (paradossalmente) mi rassicura. Alle promesse di potenza, progresso, slittamento di ogni limite (della salute, della lunghezza e qualità della vita, della quantità di beni), la fragilità della vita risponde con una sapienza a volte tenera, a volte spietata.

Tutt’altro che antiche le immagini di fragilità della Sacra Scrittura fatte di materiali arcaici: “una casa di fango” (Giobbe 4,19), “una tenda di argilla” (Qoelet 9,15), “un tesoro in vasi di creta” (Paolo 2Cor 4,7). E drammaticamente attuali (in tempi di Covid) quelle aeree: “un soffio… un’ombra che passa” (Salmi 144,4), “come vapore che appare per un istante e poi scompare” (Giacomo 4, 14).

Non serve convincere della fragilità, né trovare parole nuove per farlo; ce ne sono già di meravigliose, come quelle di Simone Weil: «La nostra carne è fragile: qualsiasi pezzo di materia in movimento può trafiggerla, lacerarla, schiacciarla, oppure inceppare per sempre uno dei suoi congegni interni. La nostra anima è vulnerabile, soggetta a depressioni immotivate, penosamente in balia di ogni genere di cose, e di esseri altrettanto fragili e capricciosi. La nostra persona sociale, da cui dipende quasi il sentimento dell’esistenza, è costantemente e interamente esposta al caso».

Serve, piuttosto, farci qualcosa con la fragilità: esercitarsi, esercitarla, come si eserciterebbe una forza, una abilità. “Esercizi di fragilità” suona come un ossimoro. Normalmente si esercita la forza, non la debolezza: ci si allena per non essere fragili. Allora, di cosa si tratta?

Forse si tratta di abitarla, di riconoscere in essa la nostra casa comune, il legame labile ma autentico che dovrebbe farci sentire non solo prossimi, ma simili. Di più: fratelli. Ha scritto cose meravigliose sulla fragilità Eugenio Borgna nel saggio Elogio della depressione (che non è un elogio della malattia, ma di quello che, se l’ascoltassimo, ci direbbe).

La depressione è una metafora della fragilità, che, a sua volta, è una metafora della sensibilità, e queste, fragilità e sensibilità, non sono sinonimo di debolezza, ma di umanità: «La sensibilità, e la fragilità, sono anche la premessa a ogni conoscenza intuitiva degli altri da noi, alla comprensione delle emozioni, della tristezza e della inquietudine del cuore, della gioia e delle attese, delle angosce e delle speranze, che si animano nella interiorità, nella soggettività, degli altri: di quelli, in particolare, che chiedono il nostro aiuto: talora nel silenzio e nella solitudine».

Fragile e arrischiato ogni moto empatico verso il prossimo, eppure così saggio. Saggio perché è un moto di andata e ritorno, che ci riporta dentro di noi, a contatto con la nostra vera natura: fragile e umana. La fragilità ci restituisce a noi stessi, consegnandoci a chi ha bisogno di noi, consegnandoci a quelli di cui noi abbiamo bisogno.

Se fossi un fumettista, disegnerei dei nuovi supereroi: I fragili. Il loro superpotere sarebbe la fragilità: accolta, abitata, condivisa. Sarebbero degli strani supereroi: esisterebbero solo al plurale.

Se la eserciti da solo, la fragilità non è un superpotere, è fragilità. Solo se si trasforma in legame, diventa un superpotere.

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Le puntate precedenti di Esercizi:

Esercizi di… squilibrio?

Esercizi di… ascolto

Esercizi di… immedesimazione

Esercizi di… demitizzazione (della vecchiaia)

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