Esercizi di… demitizzazione (della vecchiaia)

Ma è proprio vero che il tempo di un anziano è inutile, perché inestetico, improduttivo, interrogativo? «Io qui sto».
(AP Photo/Emilio Morenatti)

Prendersi cura di sé vuol dire anche prendersi cura delle proprie idee. Le idee – come il corpo e gli affetti – si possono ammalare. A volte sono proprio “idee malate” (così le chiama James Hillman) a farci ammalare, a compromettere il rapporto con noi stessi e con gli altri.

Quando un’idea si ammala? Quando diventa ossessiva (ad esempio). Se abbiamo il sospetto che stia accadendo, possiamo verificare con che frequenza quell’idea ricorra durante della giornata, quali sentimenti produca, quali azioni induca e, soprattutto, se il nostro rapporto con essa sia attivo e passivo: siamo noi a pensarla o è lei a pensare noi?

Se il rapporto è passivo, quell’idea, molto probabilmente, è malata, perché ci possiede. C’è un tipo particolare di idee che ci pensano e posseggono senza essere ossessive: i miti. I miti hanno un potere enorme. A differenza delle idee ossessive che ricorrono, in certo modo, dal basso, i miti scendono dall’alto: ci sovrastano, se non addirittura contengono. Non ci pensiamo spesso, ma quando lo facciamo, più che pensarli, li assumiamo come un dettato.

Come si riconosce un idea-mito? In genere da tre caratteristiche: 1) è popolare e promossa su larga scala, 2) è condivisa acriticamente, come una verità scientifica non falsificabile, 3) non è complessa, al contrario, è piuttosto semplice e rassicurante.

E veniamo al nuovo esercizio: esercizio di demitizzazione. Possiamo dividerlo in quattro azioni. La prima: riconoscere l’idea-mito (secondo i tre criteri suggeriti o altri, magari migliori). La seconda: guardarla da vicino, come se la stessimo vedendo (pensando) per la prima volta. La terza: studiare (leggere), per poterla sottoporre a un giudizio critico. La quarta: ri-pensarla, ovvero formulare una nostra idea, magari imperfetta, parziale, ma frutto di una riflessione, una messa in discussione, un confronto tra pensiero e vita.

Per quanto riguarda la terza azione, può essere di aiuto il libro di Umberto Galimberti intitolato I miti del nostro tempo, in cui si passano in rassegna miti individuali (l’identità sessuale, la felicità, la giovinezza, l’intelligenza…) e collettivi (la tecnica, il mercato, la globalizzazione, la guerra, la razza…). È un libro che si può consultare come un dizionario; i miti sono trattati nella loro ampiezza più che nella loro profondità, e mi sembra una buona scelta, perché la profondità deve mettercela il lettore: a lui la scelta dell’idea-mito con cui sente di doversi confrontare.

Io ho scelto il mito della giovinezza, perché mi interessa la vecchiaia. Spesso la vecchiaia è associata alla malattia, ma non si pensa che ad essere malata è forse una certa idea di vecchiaia, intesa come tempo inutile, perché inestetico, improduttivo, interrogativo (sul senso stesso della vita e della morte).

Non possiamo negare l’evidenza dei processi degenerativi propri dell’anzianità, nondimeno dovremmo chiederci se non sia un’idea degenerata di essa ad amplificarli e accelerarli. Pensiamo al volto dell’anziano, alle sue rughe, al suo sguardo, alle espressioni che assume.

«La faccia del vecchio è un bene per il gruppo», scrive Hillman nel saggio La forza del carattere, e ancora: «invecchiando, io rivelo il mio carattere, non la mia morte».

Già queste due frasi rimettono in discussione l’idea di vecchiaia come anticamera della morte, o meglio, svelamento della fine, onde il bisogno ossessivo di trasformare, mascherare il volto del vecchio attraverso il lifting, invece di guardarlo senza veli, onorarlo, come esorta il Levitico (“Onora la faccia del vecchio”), in quanto ritratto autentico di una vita.

Condivido la provocazione di Hillman: «bisognerebbe, forse, proibire la chirurgia estetica e considerare il lifting un crimine contro l’umanità», nonché il commento di Galimberti: «il lifting facciamolo non alla nostra faccia, ma alle nostre idee».

Facciamo allora un esercizio di demitizzazione. Prendiamo due luoghi comuni sulla vecchiaia: 1) i vecchi sono come bambini, 2) i vecchi intestardiscono. È raro che chi formula queste sentenze lo faccia con un’accezione positiva. Se però le ripensiamo alla luce di un’idea di anzianità come tempo in cui si rivela il proprio carattere (Hillman), il loro significato cambia.

L’affettività di un vecchio non degenera né regredisce: rivendica esigenze magari troppo a lungo sacrificate in nome dei doveri, dei ruoli, delle divise (delle maschere) indossate durante la vita ed ora finalmente dismesse: esigenze tenere, spiazzanti, non confacenti all’età (secondo il pensare comune), ma autentiche, umanissime.

Così il carattere: intestardirsi potrebbe essere un modo di mostrare il proprio carattere; non il carattere di un testardo, ma di chi non vuole più fingere, apparire, dire e fare quello che fanno e dicono tutti, e si ostina a voler rivelare (innanzitutto a se stesso) le proprie idee, esigenze.

A me gli anziani piacciono per questo. Magari ci perdo la pazienza, ma li apprezzo. Li trovo autentici. Mi fido. Li frequento. Quanto sono frequentati gli anziani? Sembra che la massima espressione di pietas della nostra società civile consista nell’assicurare all’anziano le giuste cure, e la massima espressione di interesse (della nostra società tecnologica) nell’offrirgli l’intrattenimento illimitato di piattaforme digitali.

Accudito, intrattenuto, ma non ascoltato, non guardato in faccia, l’anziano invecchia male. E noi con lui: di un’anzianità ammalata dell’idea che ci siamo fatti di lei.

Andare a trovare un anziano non è un’opera di misericordia: è un’opera di saggezza. Saggio andare a trovare l’anziano (saggio andare a trovare il malato).

Il loro volto (senza lifting) ci ricorda chi siamo veramente: esseri fragili e comunitari. Negli ultimi tempi mio padre ha iniziato a usare una specie di intercalare: «Io qui sto». Quando mi deve far vedere una cosa o ha bisogno del mio aiuto, ma non è urgente e io magari differisco l’invito, perché ho cose urgenti da fare, lui dice: «Io qui sto».

Sono tre chiodi questi monosillabi. Ogni volta resto trafitto.

Io qui sto: vieni a vedere il mio volto.

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