«Tutto dipende dal nostro fuoco»

Che cosa vuol dire “svolta missionaria”, nel contesto delle Chiese di antica nascita, e specialmente per una realtà ecclesiale come quella della Germania, che dispone di molte risorse ed è fortemente sviluppata a livello istituzionale? E quale il dinamismo di una simile svolta? L’autore di questo contributo è responsabile dell’ufficio per la pastorale nella diocesi di Hildesheim, dove sono numerosi i laici come operatori pastorali a tempo pieno. Allo stesso tempo è noto nei Paesi di lingua tedesca per le sue riflessioni e iniziative a favore di una rigenerazione della Chiesa nel contesto locale, argomento sul quale ha all’attivo diverse pubblicazioni che hanno trovato ampia attenzione nei quadri ecclesiali. Facendo da eco al contributo di Susana Nuin (cf. pp. 61-66 di questo numero), offre una serie di spunti di riflessione con particolare riferimento all’ambiente in cui opera.
Germania

 Svolta missionaria
come un «extra»? 

Nella situazione culturale al Nord delle Alpi, la Chiesa cattolica e le Chiese evangeliche già alla fine degli anni ’90 hanno avvertito l’urgenza di una svolta missionaria che superasse la tentazione dell’autoreferenzialità. L’effetto tuttavia, in un primo momento, non è stato tanto quello che il popolo di Dio come tale prendesse coscienza e vivesse maggiormente la sua missione, ma piuttosto che le nostre Chiese, ricche di forza istituzionale e di risorse anche economiche, accorgendosi della crescente mancanza di cristiani veramente formati, hanno dato vita a tante iniziative specifiche. Sono nati così molti esperimenti interessanti, ma in fondo la svolta missionaria non ha portato un capovolgimento della mentalità del popolo, si è invece configurata come un’“extra” da mettere in atto, che ha significato individuare vie nuove, mobilitare le necessarie risorse e trovare persone capaci di passare all’azione. In questa prima fase, quindi, nei nostri Paesi è avvenuta solo una “mezza rivoluzione”, un cambiamento a metà sia perché si è seguita la logica del “noi lavoriamo per altri” sia perché non si è coinvolto il popolo di Dio nel suo insieme ma solo alcuni esponenti, persone che già lavorano per la Chiesa.

Cecità missionaria

Noi soffriamo, credo, non di rado di “cecità missionaria”. Molto, infatti, dipende da come consideriamo le situazioni in cui ci veniamo a trovare. In realtà, nello svolgimento ordinario della vita ecclesiale si vengono a creare numerose opportunità per proclamare la buona novella e per testimoniare la fede; opportunità che rischiano di essere viste tante volte solo come “attività” da svolgere o come servizi da prestare: una Messa o un matrimonio, un funerale da celebrare, la festa delle prime comunioni o delle cresime, e così via. In fondo, sono occasioni d’oro per testimoniare Gesù Cristo vivo. Facilmente però vengono guardate con “altri occhi” e con un certo pregiudizio: come servizi richiesti da gente che non crede più ma alla quale non si può dire di no. E allora non vengono colte con slancio e con energia, ma piuttosto viene data importanza ai deficit degli altri.

In più: spesso non ci rendiamo neppure conto di come istituzioni cattoliche come scuole, asili nido, la Caritas, ospedali e ospizi, se opportunamente impostate, possano rappresentare di fatto, per lo stile e la cultura cristiana del lavoro, un annuncio del Vangelo a tanti uomini e donne che non raggiungiamo in altro modo.

Se è fuor di dubbio che non siamo più in un contesto di cristianità, tanti nostri contemporanei sono però molto aperti, seguono con attenzione quello che avviene e sono sensibili ai testimoni. A contatto con loro, anziché registrare i deficit e giudicarli, dovremmo scorgere le possibilità di crescita e quindi porci a fianco a loro in un cammino insieme, facendo di volta in volta quel passo successivo che è alla loro portata. È questo, del resto, che Papa Francesco propone nell’Amoris laetitia e che aveva indicato già nell’Evangelii gaudium quando parla della Chiesa come “ospedale da campo” e dell’“accompagnamento”.

Ciò che fa la differenza:
non iniziative
ma persone «infuocate»

C’è però un elemento chiave che viene giustamente sottolineato nel contributo di Susana Nuin con il termine “discepolo missionario”. A mio avviso, uno dei maggiori problemi della Chiesa nei nostri Paesi rimane il fatto che si è visto e si vede il cristiano piuttosto in chiave statica: è battezzato, va in chiesa e quindi è praticante. Il discepolato invece è un processo di crescita. Il “discepolo missionario”, allora, è una persona costantemente in divenire: diviene sempre più discepolo. Non di rado è la stessa gente a manifestare questa esigenza quando ci dice: «Abbiamo bisogno di nutrimento per crescere nella fede, per crescere nella nostra visione delle cose e per crescere nel nostro vivere come comunità».

Per questo sono convinto che il fulcro di una svolta missionaria non siano le istituzioni e le iniziative, ma le persone “infuocate”, che attraverso quello che fanno nelle varie esperienze che oggi germogliano, fanno trasparire e testimoniano la presenza viva del Risorto. Possiamo essere tentati a volte di dire: «ma sono solo pochi», «è una cosa piccola», ma quel che conta, in realtà, non sono i numeri o le dimensioni ma la forza della testimonianza che esce da queste persone.

 «Noi siamo missione»

È da rilevare un altro fatto. Questa nuova missionarietà che propone Papa Francesco, è già in atto in molte persone che spesso però non sono collaboratori pastorali e non hanno neppure un particolare legame con la Chiesa nella sua dimensione istituzionale. Direi che in Europa, in questi ultimi decenni e anni, è in atto un risveglio carismatico, anche se forse non è così appariscente come in altri continenti.

Quando le persone vengono “infuocate” dall’esperienza di Gesù e hanno preso coscienza di chi è Gesù vivo, diviene spontanea in loro la coscienza: «io sono in missione, noi siamo in missione» e nascono spontaneamente esperienze inedite di Chiesa. Ho potuto constatare questo in tanti posti, e in particolare anche nella Chiesa anglicana, in Inghilterra, dove la società è molto secolarizzata. Condivido l’affermazione di Susana Nuin dove parla di un kairòs, vale a dire: di un momento propizio, un momento di Dio. Vedo che nell’incontro di persone piene di Spirito, che si mettono insieme ad altre e donano il Vangelo là dove vivono, con persone che vivono nelle più varie necessità, come ad esempio i rifugiati, nascono esperienze nuove e fresche di cristianesimo dove la fede è vissuta come comunione.

Possiamo parlare di una vera kairologia dell’incontro, dove la missione parte dalla situazione e dai bisogni degli altri e si fa carne, multiforme e attraente. Nella misura in cui guardiamo così le cose, sono tante le possibilità che si aprono, dovunque incontriamo le persone. Ma tutto dipende dal mio “fuoco” e dal “fuoco” di noi come comunità. In questo i laici hanno un ruolo di primo piano.

 Apertura a nuove forme

Vorrei mettere in luce un ultimo fatto. Se la nostra gente fa l’esperienza di Gesù vivo e cerca di condividere questa realtà insieme ad altri, là dove quelle persone vivono – siano essi studenti o professionisti o poveri –, facilmente nascono nuove forme dell’essere Chiesa. Sono convinto che c’è un legame fra la missionarietà e la nascita di modi diversi di essere Chiesa, come del resto afferma lo stesso Papa Francesco quando nell’Evangelii gaudium osserva che oggi «una cultura inedita palpita e si progetta nella città» e che occorre pertanto «immaginare spazi di preghiera e di comunione con caratteristiche innovative, più attraenti e significative per le popolazioni urbane». E prosegue: «Si rende necessaria un’evangelizzazione che illumini i nuovi modi di relazionarsi con Dio, con gli altri e con l’ambiente, e che susciti i valori fondamentali. È necessario arrivare là dove si formano i nuovi racconti e paradigmi, raggiungere con la Parola di Gesù i nuclei più profondi dell’anima delle città» (EG 73-74).

Ciò rappresenta senza dubbio una notevole sfida, anche perché vuol dire che non funziona più la classica formula: «Io faccio missione nella comunità, e così vengono le persone…». Occorre pertanto saper articolare bene tra loro la parrocchia nella sua dimensione istituzionale, necessaria per i vari sacramenti, con una molteplicità di forme di comunità che nascono da persone infuocate dallo Spirito. Si tratta, in pratica, di aprirci anche da noi, come in America Latina, a una visione della parrocchia come comunità di comunità; comunità le più diverse a seconda del loro kairòs fondativo, delle persone che le compongono e le animano e delle situazioni in cui crescono.

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