Democrazia diretta e partecipazione, dopo il referendum

Dialogo a tutto campo con Lucia Fronza Crepaz, impegnata nel campo della formazione politica dopo l'esperienza parlamentare, sulle questioni aperte dal risultato del referendum costituzionale e le istanze di nuove forme di democrazia diretta
Democrazia e partecipazione Foto Marco Alpozzi/LaPresse

Il taglio netto di 315 parlamentari, confermata con il voto referendario di settembre, non è solo una questione di numeri e riduzioni di spese. Questa riforma è destinata ad incidere sulla nostra democrazia. Il superamento del modello parlamentare a favore di forme di democrazia diretta è stato evocato, dopo il risultato del referendum, da Beppe Grillo in un dibattito pubblico con il presidente del Parlamento europeo, David Sassoli.

Ne abbiamo parlato con Lucia Fronza Crepaz a partire dalla sua esperienza politica di parlamentare e di persona attiva nel campo sociale. Editorialista di Città Nuova, medico pediatra, attualmente è impegnata nella formazione politica dei giovani nella sua città di Trento, dove si è riconfermata di recente una giunta a guida Pd. Dal 1986 al 1994 è stata deputata della Dc e poi del Partito popolare nel periodo finale della cosiddetta prima Repubblica per poi dedicarsi alla presidenza del Movimento politico per l’unità fino al 2008.

Cosa rappresenta la vittoria del Si al referendum?
Personalmente ero per il No, ma non ho fatto una dichiarazione pubblica in tal senso. Dentro il sì di tante persone ho colto un desiderio che montava nel Paese, facendo la tara di chi aveva altri disegni. Mi è parso di capire che noi, difensori della Costituzione e delle scelte che essa contiene, dovevamo essere pronti, con umiltà, ad ascoltare le ragioni di tutti, per non rimanere espressione di una società che non c’è più.

E ora che ha vinto il Sì?
L’Italia ha parlato. Dobbiamo ricominciare da qui e cercare di capire come una società così cambiata si meriti una organizzazione parlamentare diversa. La democrazia rappresentativa resta un presidio indispensabile. Il suffragio universale è una ricchezza che non va dispersa. L’espressione della società in tutte le sue componenti, dove tutti hanno spazio, è importante a livello nazionale.  È importante mantenere dentro le istituzioni le voci di protesta per metterle al sicuro da derive pericolose… Però è chiaro che non basta.

Come si garantisce il rapporto tra eletto ed elettore davanti all’eclissi della forma partito?
Partiamo da un dato di fatto. Ogni idea politica che nasce e pian piano prende consistenza e aggrega consensi ad un certo punto ha bisogno di un’organizzazione, se vuole essere efficace e lasciare il segno. Lo hanno sperimentato il popolo viola, le sardine, i gilet gialli della Francia, i Podemos della Spagna. Lo stesso movimento 5 stelle si è trasformato, chiedendo a sé stesso un organizzazione: da movimento a partito.

Un’idea politica deve trovare i propri portavoce, deve fare maturare la propria cultura, avere una strategia, aggregare consenso e competere per entrare nelle istituzioni e governarle. Tutto questo richiede una organizzazione stabile.

Ma non è la “forma organizzativa stabile” ad essere in crisi di democrazia interna?
Il problema della sfiducia verso i partiti, a mio parere, non è solo la questione (inevitabile!) della trasparenza dei bilanci e non è neanche solo una questione di classe dirigente blindata e sempre più ristretta. La crisi dei partiti è una questione strutturale: oggi i partiti devono ritrovare un modo diverso di essere dentro la società così come oggi si presenta.

L’idea portante dell’istituto partito, quello che mi sembra debba rimanere in piedi, attorno cui lavorare per ricostruire è la necessità che tra la “stanza dei bottoni” e la società ci vuole una camera di compensazione.

Come è stata l’esperienza dentro un grande partito dalle tante anime come la Dc?
Pur tra luci e ombre, per me la vita di partito è stata trovare un luogo dove si aggrega un consenso, si ricercano le priorità, si studiano soluzioni, si fa crescere una classe dirigente, si fa sperimentare ai giovani cosa vuol dire prendersi cura della propria gente.

Pur in un gruppo di partito, c’era anche spazio per la coscienza personale: ricordo dei voti in cui sul commercio delle armi, sulla guerra, ho detto la mia e sono stata lasciata libera.

E oggi cosa sono o rischiano di diventare i partiti?
Non più una fucina di idee e mediazione di interessi, ma comitati elettorali, che funzionano a pieno ritmo in campagna elettorale per i propri leader per poi rinsecchirsi e ricominciare alla prossima campagna.

Credo, tuttavia, che siano indispensabili fra la società ed il governo questi famosi corpi intermedi, ma occorre cambiare completamente prospettiva per far crescere una struttura che va a cercare i cittadini là dove vivono, dove i loro bisogni si formano. Un partito che percorre i territori e dà voce a chi non ce l’ha. Un luogo che mette insieme polarizzazioni che è difficile far incontrare creando le condizioni, poi, di un possibile buon governo.

Si può sostituire la democrazia rappresentativa come l’abbiamo sperimentata finora con la democrazia diretta evocata da Grillo?
I 5 Stelle hanno avuto il merito di aver posto al centro del dibattito politico il rapporto cittadini istituzioni e di aver fatto cadere (finalmente!) il tabu dell’indiscutibile unicità della democrazia rappresentativa come legittima espressione democratica. Chi chiede pratiche partecipative accanto alla rappresentanza degli eletti non è antidemocratico tout court, anzi, risponde ad una evidente frattura ed inefficienza di trasmissione nell’organizzazione politico istituzionale. Ma non sono d’accordo sia nel merito, ma soprattutto nel metodo, con la proposta di Grillo.

Cominciamo dal merito …
La democrazia diretta, la cui espressione più eclatante, ma non l’unica, è il referendum non può esaurire il rapporto tra cittadini e istituzioni. È assolutamente impossibile ridurre ad un “sì” e ad un “no” la maggior parte delle questioni che occorre affrontare con la partecipazione dei cittadini. Nella maggior parte dei casi è impossibile trovare la domanda giusta e ridurre tutto ad un solo conteggio delle mani alzate. Onestamente non vedo una classe dirigente all’altezza di individuare così nettamente le priorità da sottoporre al ‘popolo’: è meglio tenersi ampi spazi di dialogo!!!

Certo, è vero, ci sono occasioni, come quella appena vissuta, in cui il referendum è davvero un eccellente metodo per capire la strada da percorrere. Per farlo bene dobbiamo prendere esempio dai campioni di questo istituto: gli svizzeri.

Cosa fanno in Svizzera?
Faccio un esempio. Il livello istituzionale coinvolto nel referendum, al fine di assicurare una base informativa approfondita e paritaria, prepara e manda a casa ad ogni votante un libretto di istruzioni con le ragioni del sì e quelle del no, con la simulazione se vincessero i sì e quella se vincessero i no, per non parlare del quorum Zero.

E a proposito del metodo avviato in Italia cosa è che non va?
Non è così che superiamo la distanza tra cittadini e istituzioni, non semplificando la voce dei cittadini rendendo il voto una merce senza differenze qualitative, a basso costo e quindi senza più alcun valore. Quello che serve, in una società complessa, di fronte a tanti diversi saperi che i cittadini oggi sono in grado di offrire, non è sostituire un metodo con un altro, ma allargare il ventaglio delle possibilità.

In che modo?
Con la pandemia in corso, i cittadini, anche i più lontani da una sensibilità politica, hanno realizzato che da soli non ci si salva, hanno sperimentato che i ‘tecnici’, pur necessari, non sanno governare, hanno scoperto l’insostituibilità delle istituzioni. È il momento di chiedere di investire nella politica! Sono anni che i presidii culturali, le associazioni, la Chiesa, i cittadini non investono più su questa realtà.

Si è investito nel business, anche nel sociale, trovando interessantissime innovazioni organizzative, sperimentando soluzioni partecipative, ma si è girato alla larga dalla democrazia e dai suoi istituti.

Come mettere assieme, allora, partecipazione reale e istituzioni?
Se sappiamo ascoltare davvero e siamo disposti a cambiare e a mettere “potere” sul tavolo delle trattative ci sono moltissime e moltissimi cittadini con competenze, le più disparate, che sono disposti, anche a costo zero, ad aiutare questa indispensabile fase costituente dentro le istituzioni. Dove si è cominciato a fare si sono raggiunti risultati tangibili.

I più letti della settimana

Mediterraneo di fraternità

La forte fede degli atei

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons