Dalla rianimazione all’accanimento/2

La storia della rianimazione, così come l’abbiamo ripercorsa sul numero scorso, ci ha mostrato l’efficacia di una terapia in grado di salvare numerose vite umane. Ma, al contempo, abbiamo intravisto la possibilità di una deriva di quest’applicazione quando essa viene utilizzata per prolungare il fisiologico processo del morire. E’ evidente la forza trasformatrice delle tecnologie applicate alla medicina, senza parlare delle pur importanti tecnologie diagnostiche. Un fenomeno che si presta a due ordini di considerazioni. Da un lato le tecnologie, paradossalmente, hanno determinato, da circa 30 anni, un declino per quanto riguarda nuove importanti scoperte. Da questo periodo abbiamo una medicina che cura, ma non guarisce, perché la ricerca di base è in piena crisi; senza il binomio tecnologia e ricerca non si giunge a risultati importanti. Dall’altro le tecnologie, sia diagnostiche, sia terapeutiche tendono a prevalere sull’impegno sempre necessario del medico, ingenerando errori ed accanimento terapeutico. La medicina da sempre si confronta con i problemi fondamentali della vita: la nascita, la malattia, la morte. I medici, nell’attività quotidiana, debbono applicare le loro conoscenze scientifiche ed insieme valutare le implicazioni morali delle loro azioni, in una società, come quell’attuale, caratterizzata dalla frammentazione etica cui manca un nuovo giuramento d’Ippocrate. Per alcuni la soluzione migliore sembra essere il rispetto dei diritti del paziente da parte di un medico neutrale, così come deve essere della conoscenza scientifica; noi invece riteniamo che sia necessario un dialogo tra medicina, scienza, filosofia, etica, politica e religione perché la medicina stessa non è una scienza, ma una professione che si serve di tutte queste discipline per metterle al servizio dell’uomo malato. Pertanto solo da questo dialogo potrà nascere una procedura diagnostica e terapeutica rispettosa della persona e della comunità familiare e sociale Di fronte ad un evento così importante come quello della malattia e della morte, nel quale intervengono fattori psicologici, economici, politici, culturali, il medico deve innanzi tutto rispondere del suo operato alla propria coscienza, senza tuttavia ignorare la situazione socio-familiare nella quale è chiamato a decidere se sottoporre un paziente a procedure così impegnative per il malato, i suoi familiari, la società. Ne deriva pertanto la necessità che al più presto si giunga alla stesura di linee guida condivise sull’opportunità o meno di accogliere un paziente critico in un reparto di rianimazione, per evitare dolori, sofferenze inutili, oltre che costi non sopportabili per la comunità. Ciò nell’attesa che il parlamento giunga a conclusioni accettabili per le varie categorie interessate (malati, familiari, medici) sul progetto di legge che va sotto il nome di Testamento biologico in corso d’elaborazione da parte della commissione Sanità del Senato. In proposito ricordiamo quanto la Chiesa ha elaborato sul tema da qualche tempo (vedi box), tenendo anche presente che Pio XII considerò lecito l’uso d’analgesici per sopprimere dolori insopportabili, anche se capaci di abbreviare la vita del paziente in fase terminale. UN’ETICA PENSATA E VISSUTA Da essa (dall’eutanasia, n.d.r.) va distinta la decisione di rinunciare al cosiddetto accanimento terapeutico, ossia a certi interventi medici non più adeguati alla reale situazione del malato, perché ormai sproporzionati ai risultati che si potrebbero sperare o anche perché troppo gravosi per lui e per la sua famiglia. In queste situazioni, quando la morte si preannuncia imminente e inevitabile, si può in coscienza rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all’ammalato in simili casi. Si dà certamente l’obbligo morale di curarsi e di farsi curare, ma tale obbligo deve misurarsi con le situazioni concrete; occorre cioè valutare se i mezzi terapeutici a disposizione siano oggettivamente proporzionati rispetto alle prospettive di miglioramento. La rinuncia a mezzi straordinari o sproporzionati non equivale al suicidio o all’eutanasia; esprime piuttosto l’accettazione della condizione umana di fronte alla morte. Dall’Evangelium vitae di Giovanni Paolo II (1993)

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