Da Damasco a Damasco

Dieci giorni in bici nel Vicino Oriente, prima delle “rivoluzioni arabe”.
Le rovine di Palmira in Siria

Abbiamo pedalato per quasi ottocento chilometri, noi del gruppo “Grandi Raid Roma”, fra Siria e Libano, da Damasco a Damasco.

Dall’alto del seicentesco castello che domina le rosee meraviglie di arenaria della favolosa Palmira, città della bellissima regina Zenobia, contempliamo lontananze sfumate al limite del miraggio. Più tardi, seguendo le aride estensioni del deserto, ecco la valle dell’Oronte, ecco Hama e Homs, con due gioielli: il Krak dei Cavalieri, fortezza dell’XI sec., e le metafisiche rovine di Apamea, fondata nel III secolo a.C. dai soldati di Alessandro Magno, conquistata dai romani e più tardi dai musulmani.

 

Palmira “la rosa” e Apamea “la bianca”, due sorelle che si contendono la palma della rarefazione emotiva e dell’intensità estetica, e da sole, insieme alla città vecchia di Damasco con le trascendenti geometrie della moschea omayyade, valgono il viaggio.

Da Homs, sulle salite e rampe mozzafiato della catena del Libano, siamo messi in seria difficoltà da una bufera di fulmini e cateratte d’acqua. Anche stavolta, però, tutto finisce bene e tocchiamo Tartus, dove il mare è grigio, inquinato da petroliere.

 

Dalla Siria superiamo, con non pochi impacci burocratici, il confine libanese. Eccoci a Tripoli e poi a Beirut, dove la tensione è a fior di pelle, tra colonne di blindati, carri armati, posti di blocco. Le strade sono un incubo, i Paesi parzialmente distrutti da recenti o più antiche battaglie, imperando trascuratezza e sporcizia. Solo il ricostruito centro di Beirut appare sfrontatamente ultramoderno e straricco.

A un passo da quel demente sfavillio, la disperazione di migliaia di esclusi, fertile brodo di coltura per ogni feroce fondamentalismo terroristico.

 

Da Beirut, infine, sempre pedalando, attraversiamo la Valle della Bekaa, roccaforte di hezbollah e antichissimo crocevia di culture e civiltà, oggi ridotto a guarnitissimo fortino di frontiera. Qui una popolazione ospitale e pacifica è purtroppo ostaggio – a volte consenziente – di minoranze dispotiche, sorde a ogni dialogo.

 

Raggiunto un valico a circa 1400 metri di altezza, sulla vasta piana ci appare Damasco, dove con veloce discesa rientriamo, dopo una decina di giorni. Ripartiamo per l’Italia messi alla prova dal confronto con i drammi di uomini e donne divisi per lingua, religione e cultura, e tuttavia desiderosi di riconciliazione. Così, almeno, ci piace sperare.

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