«Creano un deserto e lo chiamano pace»

Il nostro corrispondente da Beirut commenta la doppia strage di cristiani avvenuta nella Domenica delle palme. Il jihadismo non ce l’ha solo coi cristiani, ma con molti altri suoi nemici, compresi gli sciiti…
AP Photo/Samer Abdallah

I due attentati islamisti dei giorni scorsi a Tanta e Alessandria hanno scatenato una comprensibile e, per certi versi, condivisibile indignazione, anche se mi sembra necessario rilevare che la realtà è più complessa di come la presenta un certo mondo mediatico occidentale quando riduce tutto al semplicistico schema “cattivi contro buoni”, o peggio musulmani contro cristiani.

Vivendo in Medio Oriente avverto il bisogno di un approccio più ampio, anche per evitare di cadere nel corto circuito di chi prende a pretesto questi fatti dolorosi per sostenere: «Non li vogliamo qui, cacciamoli tutti», mescolando nello stesso calderone vittime e carnefici. Su questa strada, secondo me, non si va da nessuna parte.

Papa Francesco, all’Angelus di domenica, introduce un elemento in più quando dice: «Al mio fratello papa Tawadros II e a tutta la nazione egiziana esprimo il mio profondo cordoglio, sono vicino ai familiari e alla comunità, il Signore converta i cuori delle persone che seminano terrore, violenza e morte, e anche il cuore di quelli che fanno e trafficano le armi». Viene da pensare che secondo il papa i trafficanti di armi abbiano a che fare a pieno titolo con le stragi provocate da due poveri fanatici vittima della povertà e dell’indottrinamento. Effettivamente, penso che senza l’arroganza dei signori della guerra (leggi: produttori e venditori di armi, per lo più occidentali, con il loro marketing), anche i sostenitori e reclutatori delle parti in conflitto (occidentali e mediorientali) sarebbero probabilmente molto ridimensionati. Come dire: il baco è nella mela, ma ci è entrato da fuori.

Senza alcuna pretesa di completezza, aggiungerei un ulteriore dato di lettura relativo alla grave situazione egiziana.

L’Egitto moderato e anti-islamista, pur con tutti i distinguo del mondo, è ancora il principale ostacolo al dilagare ulteriore del conflitto mediorientale.

L’Europa viene a conoscenza solo di alcuni degli attentati che avvengono in Egitto, sostanzialmente quelli che riguardano i turisti e i cristiani. Ma gli attentati degli ultimi anni sono molti di più. Secondo l’Arabic Network for Human Rightssolo nel 2015 ci sarebbero stati in Egitto almeno 400 attentati con circa mille morti, soprattutto tra le forze dell’ordine presenti nel Sinai.

 In pratica, siamo di fronte ad una guerra senza quartiere in cui gli obiettivi da colpire individuati dai jihadisti sono i militari, il turismo, l’economia, oltre che i cristiani e gli sciiti.

Sì anche gli sciiti, ma sono pochi in Egitto, altrimenti occorrerebbe aggiungerli alla lista. Non come accade nello Yemen dove sono pesantemente colpiti (e loro si difendono, ovviamente). Lo scopo non è tanto quello di eliminare gli “infedeli”, ma quello di distruggere il Paese (l’Egitto, ma anche lo Yemen, il Kurdistan, l’Iraq, ecc.) per poi destabilizzare ulteriormente l’intera regione.

Secondo una certa dottrina jihadista ci vuole il terrore per giungere alla pace, quella che verrà solo con il Califfato. A me ricorda molto l’ironica frase attribuita allo storico romano Tacito, che parafrasando suona più o meno così: «Creano un deserto e lo chiamano pace».

Per quanto riguarda il turismo e l’economia, l’Egitto è già completamente a terra: il turismo è ridotto al lumicino (nel 2008 ci furono quasi 13 milioni di turisti, con un indotto lavorativo che coinvolgeva il 12% della forza lavoro disponibile nel Paese) e in economia, per vari motivi, si è arrivati ad una inflazione che sfiora il 30% su base annua.

La guerra quindi non è solo e in primo luogo contro i cristiani, ma molto più ampia: è contro l’intero Paese e comprende molte categorie di persone, anche personalità musulmane non allineate con l’ideologia jihadista, come i vertici dell’università islamica di Al Azhar.

A questo riguardo, un ulteriore pessimo servizio che un certo mondo mediatico ci procura, scientemente o meno, è decidere che “certe notizie” non sono importanti (o non fanno audience) e quindi le ignora. Faccio un esempio: «Nei giorni scorsi (…) le strade di Dacca, capitale del Bangladesh, si sono riempite di imam, predicatori e religiosi musulmani che hanno manifestato contro il terrorismo di marca religiosa e musulmana» (come scrive Roberto Catalano su cittanuova.it).

Questa notizia, stiamo parlando di 100 mila islamici qualificati che prendono posizione contro il terrorismo jihadista, è stata del tutto ignorata dai media che contano.

Ma questo è anche peggio delle fake news, perché in pratica sostiene i populismi e modifica la visione dei fatti inducendo l’opinione pubblica a condannare i jihadisti e il governo egiziano che non sarebbe all’altezza, però ignorando completamente, e quindi assolvendo, le agenzie che fomentano la guerra per motivi economici ancor prima che ideologici. Se non è miopia è connivenza, o entrambe le cose.

Credo che sia doveroso prima di tutto partecipare al lutto per i 47 morti, considerare le sofferenze dei 126 feriti ed essere solidali con le oltre 100 famiglie duramente colpite da questa mattanza. Ma non basta.

 

 

 

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