Costi e casta

Il nostro sistema democratico ha bisogno di trasparenza e di ricentramento sul bene comune.
Manifestazioni

Sì, certo, conosciamo il rischio di qualunquismo, di demagogia e addirittura di antipolitica, che si corre se si affronta il tema dei costi della politica. Sappiamo che la democrazia ha un prezzo e ci guardiamo bene dall’impallinarla con campagne-boomerang: è verissimo, infatti, che anche dalla retribuzione dei politici eletti e persino dal sostegno finanziario pubblico dei partiti passa la differenza tra un sistema politico dichiaratamente oligarchico, riservato cioè ai pochi cittadini che possono permettersi di fare politica, e un sistema davvero democratico, nel quale chiunque, almeno in linea di principio, può aspirare a rappresentare la cittadinanza e lavorare per il bene comune senza morire di fame.

 

Pertanto, non sarà da queste colonne che partirà la caccia alle streghe e agli stregoni parlamentari, assessori, presidenti, consiglieri e annessi. Ma non si può neppure fare a meno di affrontare il tema che, nella sua espressione verbale peggiore, è definito della “casta” dei politici. Tema che ormai da qualche anno ha conquistato l’opinione pubblica, grazie anche a libri di successo che si sono preoccupati di fare un po’ di conti su quanto denaro sonante succhiano annualmente tutte le istituzioni, quanto di questo denaro sia destinato a sacrosante esigenze di funzionamento e quanto invece serva, ad esempio, a provvedere il ristorante parlamentare di pesce fresco a tre euro a porzione.

 

Attenzione all’emotività

 

Non è facile entrare nell’argomento senza farsi dominare dall’emotività: quella aggressiva del cittadino che magari fa fatica ad arrivare alla fine del mese e quella difensiva del politico che si sente ingiustamente vilipeso. Occorre distinguere. Saper salvaguardare i costi necessari, quelli che ci permettono di sostenere il sistema democratico, dal pesce fresco. E proprio per distinguere, forse vale la pena non soffermarsi neppure sulla questione relativa agli introiti mensili di tanti nostri rappresentanti (tra i meglio pagati, i consiglieri regionali e i parlamentari; il loro budget mensile può arrivare a 20 mila euro, appena appena intaccato dal “contributo di solidarietà” varato con l’ultima manovra, in vigore dall’ottobre di quest’anno al dicembre 2013). Si tratta di un argomento-tabù che ben pochi di loro hanno accettato di trattare con vera trasparenza, mostrando il cedolino e dando conto dell’utilizzo. E spesso, quando l’hanno fatto, si sono attardati in ingenue giustificazioni che sono esse stesse il sintomo del vero problema: lo scollamento del mondo dei politici dalla realtà quotidiana del resto dei cittadini.

 

Infatti, se c’è un elemento che giustifica l’uso spregiativo del termine “casta” è la chiusura corporativa che, tutti assieme appassionatamente, i nostri rappresentanti hanno mostrato in più occasioni.

 

Tagli promessi e tagli realizzati

 

Facciamo qualche esempio. Tempo di manovre, tempo di sacrifici diffusi. Bisogna dare atto al ministro Tremonti di aver avviato una serie di interventi destinati a risparmiare un po’ anche sul costo della vita delle pubbliche istituzioni: contenimento delle auto e aerei blu, sforbiciata ai privilegi che sopravvivono dopo la cessazione di cariche elettive, ridimensionamento dei rimborsi elettorali e norme di trasparenza per le società a capitale a partecipazione pubblica. Ma quanto sia difficile affrontare questi temi lo dice palesemente la differenza che corre tra la bozza predisposta dal ministro e resa pubblica dal Corriere della Sera e il testo pubblicato nella Gazzetta ufficiale dopo i lavori parlamentari. Clamoroso l’ammorbidimento del «livellamento remunerativo dei parlamentari italiani a quello dei Paesi dell’area euro», divenuto «livellamento a quello dei principali Paesi dell’area euro», con in più la “ponderazione” relativa ai rispettivi Pil. Risultato pratico, pressoché impercettibile.

 

Così nella manovra di agosto, si affrontava la tanto dibattuta questione dell’abolizione delle province. Il decreto prevedeva l’accorpamento per quelle più piccole: una misura tutto sommato ragionevole, che non spazzava via tutto ma almeno tendeva al contenimento degli sprechi. Immediati però sono arrivati i distinguo; alcune province destinate all’accorpamento si sono dimostrate intoccabili ed è partita dunque la campagna di salvataggio, chiusasi secondo il miglior stile propagandistico: conferenza stampa dopo un consiglio dei ministri che ne annuncia la soppressione totale. E per far questo: modifica della Costituzione, giacché le province lì sono previste; quindi, varo del relativo disegno di legge e… fine della storia.

 

A meno che non ci sia qualcuno che ragionevolmente può sostenere che è possibile ancora approvare un tale disegno di legge costituzionale. Lo stato in cui versa il Parlamento non rende ottimisti neppure sul fronte del varo dell’altro provvedimento costituzionale, sul quale pure quasi tutti si dicono d’accordo: la riduzione del numero dei parlamentari.

 

Nelle amministrazioni locali

 

Nella manovra di agosto comunque qualcosa in più è stato fatto: dovranno infatti partire dalle prossime tornate elettorali amministrative il dimezzamento dei consiglieri e assessori provinciali e la riduzione dei costi relativi alla rappresentanza politica nei comuni. Il decreto-legge prevede in verità anche le riduzioni del numero dei consiglieri e assessori regionali e relative indennità, ma questa disposizione deve essere attuata da ogni singola regione e quindi bisognerà tenerle d’occhio.

Cominciare a intaccare il numero delle cariche pubbliche, elettive o a disposizione di sindaci, presidenti di province e regione, può essere davvero un buon approccio, perché entra un po’ più in profondità nel vero problema: l’uso delle cariche pubbliche per foraggiare il consenso elettorale, malattia pervasiva che affligge, nessuno escluso, tutti i partiti, anche i più piccoli, che si trovano a gestire il potere.

 

È una malattia che minaccia, anch’essa, dal di dentro, il sistema democratico perché falsa i termini del sano rapporto tra eletti ed elettori, inoculando il germe dell’interesse nella scelta di una parte politica o dell’altra, di un candidato o dell’altro. Sappiamo bene quanto male si fa all’amministrazione della cosa pubblica preponendo ai posti di responsabilità (ridotti a “poltrone”) non i competenti e i meritevoli, ma i “porta-voti” o i vecchi politici rimasti senza incarichi, che magari nella vita hanno fatto tutt’altro.

 

Pertanto, ridurre le disponibilità di assessorati, posti nei consigli di amministrazione, dirigenze pubbliche ad personam, se mai le riduzioni diventeranno effettive, è un primo passo verso una maggiore moralizzazione delle istituzioni e di tutta la pubblica amministrazione.

 

La vera sfida da raccogliere, infatti, è quella di risanare il tessuto democratico, partendo dalla formazione di tutte le singole coscienze, di chi vota e di chi si candida. I primi, perché non pensino al loro individuale tornaconto, ma siano capaci di valutazioni più generali e che certo comprendano anche il giusto interesse personale; i secondi, perché non vedano solo la carica corredata di onori e prebende, ma il servizio che essa comporta.

 

Dalla selezione di una classe dirigente più idonea e disinteressata, il Paese trarrebbe i motivi per riacquistare fiducia nella politica e nei politici e anche il tema della “casta” avrebbe meno ragioni di essere.

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