Cosa succede in Sardegna?

Intervista a Roberto Sedda del gruppo Giorgio La Pira di Cagliari sulle prospettive politiche ed economiche dell’isola dopo la vittoria del centrodestra alle elezioni regionali

Tra due mesi anche la città di Cagliari andrà al voto, dopo che l’attuale sindaco Massimo Zedda ha optato per il seggio in consiglio regionale. L’isola è stata ultimamente al centro dell’attenzione per la protesta dei pastori che ha coinciso con la conquista del governo della Regione da parte del sardista leghista Christian Solinas.

Cerchiamo di leggere quanto avviene su questo territorio assieme a Roberto Sedda, del gruppo Giorgio La Pira e noto esponente di Banca etica. In tale veste è parte attiva del comitato riconversione Rwm che affronta proprio la questione economico e sociale come chiave di volta di una reale cultura di pace.

Quanto ha pesato sulla vittoria di Salvini la protesta dei produttori di latte ovino?

Non saprei dirlo. Certo la risonanza mediatica della protesta ha impedito che per quindici giorni si parlasse di altro: nei circoli del centro-sinistra negli ultimi giorni di campagna elettorale serpeggiava il timore che questo potesse frenare la rimonta di Zedda; ma il distacco finale delle due coalizioni mette molto in dubbio questo tipo di ricostruzione. Certo una buona parte del movimento dei pastori avrà, alla fine, votato Salvini e magari anche fra gli organizzatori qualcuno ci ha marciato, ma non affiderei alla protesta la spiegazione del risultato elettorale.

Dove sta il problema del prezzo del latte?

Il problema che sta alla base della protesta è, per certi aspetti, un problema da Sud del mondo: una risorsa alimentare – il pecorino romano – prodotto con logiche da monocultura e troppo dipendente dal peso dei grandi buyer del mercato internazionale. Quando periodicamente si creano crisi di sovrapproduzione, il prezzo precipita e il peso della crisi viene scaricato sui piccoli produttori, che gli industriali usano come massa di manovra per ottenere che lo Stato si faccia carico del problema accollandosi la sovrapproduzione (e finanziando così gli industriali, non i produttori). Dopo qualche anno, il problema si ripresenta.

Cosa ostacola la ricerca di soluzioni possibili?

Sulla carta occorrerebbe mettere a sistema tutta la filiera lattiero-casearia, diversificando i prodotti per affiancare al pecorino romano più prodotti ad alto valore aggiunto, organizzando e diversificando i produttori, integrando la filiera con quella turistica, avere un ruolo più incisivo svolto da una regia politica e dalle agenzie regionali di sostegno, lavorare di più sulla tutela dei marchi e sulla riconoscibilità. Se queste cose, che tutti sanno e dicono, non vengono fatte, vuol dire che ci sono resistenze strutturali, fra tutti gli attori. Politica, industriali, tecnici, leader locali e singoli produttori ottengono dividendi di vario tipo dalla situazione e questo porta alla paralisi e al ripetersi ciclicamente del problema.

Una grande isola praticamente disabitata e in calo demografico, con i giovani che emigrano e la prevalenza di capitali stranieri che investono nel settore turistico per ceti abbienti. È questa la fotografia della Sardegna o c’è altro?

Una delle cose che manca è che i capitali privati non investono solo nello sfruttamento delle coste. Nella sanità, per esempio, abbiamo una forte presenza di investimenti milionari da parte di attori nazionali e internazionali: un caso esemplare è il nuovo grande ospedale Mater Olbia, nato da una joint venture fra il Gemelli e capitali del Qatar la cui presenza ha molto influenzato il nuovo piano sanitario regionale. Una riforma invisa a tutti e sulla quale certamente il centro-sinistra ha perso le elezioni. E similmente spesso la Sardegna appare terra di conquista, sia per chi vuole fare acquisti a buon mercato sia per chi vuole scaricare sull’isola pesi che altrove non sono graditi: pensiamo alla presenza di basi e servitù militari o all’ipotesi di fare in Sardegna il deposito nazionale delle scorie nucleari.

Alcuni parlano di colonialismo …

In genere non ho molta simpatia per quegli intellettuali e politici che descrivono il rapporto fra Sardegna e resto d’Italia in termini di “neo-colonialismo”. Ma non si può negare che l’isola sia stata oggetto di meccaniche di sfruttamento che negli ultimi anni si sono di nuovo accentuate per una combinazione di fattori: l’architettura di autonomie locali alla quale la Lega lavora ormai da decenni svuota di senso l’autonomia speciale e penalizza le aree deboli a favore dell’egoismo delle Regioni più forti. La combinazione di questo con la debolezza e la mancanza di visione della politica sarda (in questo, bisogna dire, Soru è stato un’eccezione, almeno per un periodo) finisce per essere particolarmente negativo.

L’economia dell’isola può vivere prevalentemente di turismo, pastorizia e agricoltura? Oppure è possibile affiancare misure di politiche industriali?

La risposta è facile: non si può vivere solo di turismo, pastorizia e agricoltura.  Il punto, però, non è se avere un sistema industriale, ma quale. Di fatto la Sardegna non ha un piano industriale (peraltro non ce l’ha neanche l’Italia) ed è ostaggio di ciò che rimane della politica fallimentare di industrializzazione degli anni ’70: senza entrare nella discussione molto controversa sulla giustezza o meno di quelle scelte e sulle responsabilità, è chiaro che quel sistema non solo è fallito, ma oggi oltre al costo dei disoccupati presenta oltretutto il conto del peso ambientale che ha comportato.

E quindi cosa si può fare?

Nessuno ha in tasca la ricetta sul tipo di industria sostenibile e utile al sistema territoriale. La soluzione non può calare dall’alto. Occorrono imprenditori, ma qui è un cane che si morde la coda: i tassi di abbandono scolastico della Sardegna sono spaventosi, la disoccupazione giovanile enorme, risorse e infrastrutture per l’imprenditorialità di base non ce ne sono e la maggior parte delle produzioni industriali dovrebbe orientarsi su settori non penalizzati eccessivamente dai trasporti. Non aiuta che quella specie di compulsione alla mitologia che agita la Sardegna porti continuamente alla ricerca del “colpaccio”: la start up che sarà il nuovo Zuckerberg (fondatore di Facebook, ndr), il prodotto locale che vince un premio chissà dove e sembra che abbia sfondato il mercato, la nuova monocultura che ci permetterà di affermarci ovunque, eccetera. Servirebbe una regia politico-amministrativa a favore dell’imprenditorialità estremamente rigorosa, dotata di risorse ingenti e con un orizzonte operativo di diversi anni, ma qui apriamo il libro dei sogni. Il punto di attacco di tutti i problemi della Sardegna, comunque, è culturale.

Quali centri di ricerca e studio potrebbero essere coinvolti in questa prospettiva?

La crisi della Sardegna è anche crisi delle sue élite, e con loro anche delle elaborazioni che queste, da sinistra come da destra, hanno prodotto. Serve un ripensamento più ampio e probabilmente un ricambio degli attori. Del resto la disastrosa giunta regionale uscente di centro-sinistra esibiva come figure di punta due intellettuali molto rispettati, provenienti dal migliore dei centri di ricerca e di elaborazione socioeconomica al momento esistente: qualche domanda sulla qualità di quelle elaborazioni bisogna sapersela porre. Diciamo che è tutto da costruire.

 

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