Correre il rischio della democrazia

Il meccanismo del Rosatellum, messo alla prova, si dimostra uno strumento di cooptazione e non di scelta libera dei candidati. Qualche consiglio per andare oltre la crisi e andare a votare con responsabilità
ANSA/FRANCO LANNINO

Immediatamente dopo la notizia dei nomi scelti per le candidature nei collegi elettorali, i quotidiani trasudano commenti accigliati, paroloni, bacchettate sulle dita dei capi-partito a causa dello spettacolo da loro offerto nella compilazione delle liste: davvero devastante. Per noi cittadini, dico.

Ad oggi 30 gennaio 2018, certo, leggeremo qualche altro commento indignato. Dopodomani, giusto quello dei ritardatari che troveranno ancora un posticino nell’impaginazione. Il quarto giorno sarà tutto passato e torneremo alle tranquillo tran-tran zuffe quotidiane, amplificate dalla campagna elettorale. E il tema delle liste e delle candidature finirà sotto il tappeto.

I nostri politici contano molto su questo effetto memoria a corta gittata, tipico di noi italiani. Ma non dovremmo dargliela vinta perché le candidature, col “rosatellum”, anticipano il tema della composizione del Parlamento.

Nomine e non candidature

Silvio Berlusconi, Matteo Salvini, Giorgia Meloni, Lorenzo Cesa, Matteo Renzi, Emma Bonino, Luigi Di Maio e Pietro Grasso: vale la pena nominarli perché sono davvero pochi – non arrivano a 10, 1 ogni 6 milioni di abitanti, all’incirca – quelli che in questi giorni e in queste notti concitati hanno scritto la composizione di metà del Parlamento. È per lo più sbagliato, infatti, parlare di candidature; in tanti casi si tratta di nomine. Per capirci: qualche centinaio di italiani domenica sera si è addormentato semplice cittadino e il lunedì si è svegliato parlamentare: deputato o senatore.

Ma come? Ma le candidature non devono passare al vaglio delle urne? Non spetta a noi cittadini conferire la rappresentanza? Oh, sì certo; e infatti il 4 marzo il rito dell’urna si celebrerà, e ci mancherebbe! Ma la nostra possibilità di scelta, bisogna dirlo a chiare lettere, sarà limitata, sotto più profili. Innanzitutto, per individuare i nomi che ci troveremo scritti sulle schede (il nominativo unico per il collegio maggioritario e la lista corta per il proporzionale) noi cittadini non abbiamo avuto voce in capitolo.

Nessun partito ha avviato procedure di selezione democratica, tipo primarie. Solo Il Movimento 5 Stelle ha ripetuto le sue “parlamentarie”, riservate agli iscritti che accedono al “sistema Rousseau”, ma con poca. Dalle polemiche sorte, si è però capito che la ferrea legge pentastellata dell’uno-vale-uno è evoluta in uno-vale-uno-con-verifica. Infatti, nel concreto, la selezione è stata effettuata da Luigi Di Maio, che ha scelto anche i candidati esterni, innovazione tesa a irrobustire i volti rassicuranti, dal curriculum affidabile e meglio se conosciuti. In ogni caso, selezionati via cooptazione.

Pertanto, la prima constatazione da fare è che nella individuazione dei candidati (sia candidati/nominati che candidati semplici), la procedura democratica o almeno collegiale tra le espressioni territoriali dei partiti (vedi i “paracadutati”), è stata praticamente assente.

Il potere della cooptazione

Poi: sappiamo che il sistema elettorale è misto, un po’ maggioritario e un po’ proporzionale e che la legge consente più candidature: una al maggioritario e ben altre cinque al proporzionale. Che vuol dire concretamente? Innanzitutto che i nomi più graditi serviranno a trainare il consenso in più parti d’Italia, ma poi il pluricandidato dovrà sceglierne uno, quello in cui ha preso più voti, così gli altri che l’hanno votato si ritroveranno in Parlamento il candidato che gli stava dietro, magari non così gradito. E non basta. Immaginando che tanti andranno in cabina decisi a non accettare un certo candidato nell’uninominale, riuscendo a far vincere il collegio a un suo contendente, ciò non basterà per tener fuori dal parlamento quel candidato sgradito, perché avrà avuto una rete di salvataggio in uno o più listini bloccati del proporzionale. Insomma, non potremo non volere qualcuno in parlamento.

Ancora: non solo i candidati sono significativi, ma anche l’ordine in cui compaiono nell’elenco che affianca ogni lista; se si ottiene un collegio, lo prenderà chi si trova al primo posto e via via. A noi magari sarebbe piaciuto quello scritto alla fine, ma non abbiamo modo di esprimerlo, perché la preferenza  non c’è, né ci è stato chiesto dai partiti di dire la nostra sull’ordine delle candidature.

L’abbiamo detto più volte: il potere di cooptazione è una immensa responsabilità, che dovrebbe far tremare le vene e i polsi se fosse realmente compreso. Al contrario, si resta attoniti dinanzi alla leggerezza incosciente con cui viene esercitato.

Il Capo dello Stato ha appena esercitato il suo potere di nomina di un senatore a vita, previsto dalla Costituzione, scegliendo Liliana Segre, sopravvissuta al campo di sterminio di Aushwitz, ottantottenne con una carica prodigiosamente forte e alle spalle una vita normale e straordinaria al contempo. Il decreto motiva la scelta così: “per aver illustrato la Patria con altissimi meriti nel campo sociale”, riprendendo una delle motivazioni che la Costituzione prevede per far accedere un cittadino al prestigio del Senato.

I nostri 7-8 politici che hanno scelto chi dovrà entrare in Parlamento hanno almeno avuto il senso dell’alta funzione che si troveranno a svolgere i parlamentari? E qui, se è ingiusto rispondere un secco no, come si fa a giustificare nepotismo (la figlia di Cardinale come il nipote di Vespa o la fidanzata di Cancelleri e la moglie di Mastella, ad esempio), trasformismo (vogliamo parlare di un candidato pd che è anche il primo dei non eletti del centrodestra nella sua regione, col rischio di diventare consigliere? ) e arrivismo (pur di entrare, si accetta qualunque condizione e qualunque candidatura. Ne girano talmente tante sui candidati (e tutte vere) che quasi quasi è necessario contrastare la nausea.

Democrazia a rischio

Bisogna invece restare distaccati e cercare di capire cosa sta succedendo nel profondo. Stiamo capendo un po’ di più il sistema elettorale e ci accorgiamo che coloro che lo hanno approvato si sono presi una gran bella responsabilità. Intanto, esso merita una considerazione di fondo, giacché appare ispirato, nel suo impianto, a promuovere una conventio ad excludendum nei confronti di quello che viene ritenuto il pericolo di questi tempi: il M5S. I partiti tradizionali hanno ravvisato un preciso dovere nello sbarrare la strada elettorale a quella formazione politica, tanto più che viene data costantemente al primo posto nei sondaggi.

L’enfasi sul pericolo populista e antieuropeo è stato tale che vi è stato chi ha evocato il parallelo con le elezioni del 1948, subito ripreso da Matteo Renzi. Onestà intellettuale vorrebbe che si restasse nei limiti della decenza, ma se proprio vogliamo fare un parallelo, va fatto sullo stile scelto: la sfida del comunismo fu affrontata da quella classe politica a viso aperto, con sistema proporzionale e preferenze, correndo fino in fondo il rischio della democrazia. Stile che, ovviamente, vale anche per il partito comunista, che aveva contribuito ad approvare il sistema elettorale. La nostra odierna classe politica, ha invece ritenuto di presentarsi davanti alla Storia (si, quella con la maiuscola), con la rinuncia a correre il rischio della democrazia. Una forma di paternalismo politico che se non avesse del tragico sarebbe grottesco.

Ma c’è un’altra e meno nobile ragione per cui il “rosatellum” abdica al rischio della democrazia: esso deve garantire l’autoconservazione del ceto politico che lo ha  approvato, obiettivo colto soprattutto attraverso il potere di selezione dei parlamentari. Dipendere, nel proprio destino politico, da una persona anziché dagli elettori, per quanto onesti e competenti si sia, mette nelle mani di quella persona (neppure del partito). È già accaduto tante volte che, nonostante un dialogo avviato con i cittadini, al momento del voto il coraggio sia venuto meno perché l’indicazione del partito-padrone era di segno contrario.

Una legge elettorale ha il compito di far figliare dal seno del popolo i suoi rappresentanti; quando una legge elettorale al contrario infiacchisce il legame col popolo, diventa uno strumento per alimentare nei cittadini rabbia e sfiducia; nei politici, accrescere l’incapacità di cogliere i bisogni, le speranze, il futuro di quel popolo, per governarlo con amore. C’è il pericolo che la nostra ristrettissima oligarchia politica, chiusa nella sua bolla di potere, non si renda neppure conto di stare scherzando col fuoco: se si fugge davanti al rischio della democrazia, la si nega; non vi è altra lettura. E anche questo può essere un modo di passare alla Storia. Non in senso positivo.  Ma è questo che vogliamo: erodere la nostra democrazia lasciandone sopravvivere l’apparenza?

Proposte per andare oltre la crisi

Siccome ho fiducia che la risposta sia negativa (per quanto anche questo cominci a non essere più tanto scontato!), cerchiamo noi cittadini di sostenerla in tre modi: 1)  andando a votare; 2) votando con libertà. I candidati scelti dal nostro partito non ci piacciono? Per una volta, cerchiamo la soluzione B, studiando bene tutte le altre offerte elettorali. Rimescolare le carte contribuirebbe a combattere il concetto di “collegio sicuro”, che si traduce nell’uso strumentale del nostro voto; 3)diffondendo il patto eletto-elettori che il Movimento politico per l’unità propone proprio come antidoto all’evaporazione della partecipazione democratica.Qui il patto proposto nel 2013.

Se i politici hanno paura della democrazia, noi rispondiamo col coraggio del suo esercizio.

 

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