Colpa e confessione

Tribunali, politica, spettacolo, vita quotidiana: si tende a negare le proprie responsabilità. Ma perché tenersi il peso e intristire dentro?
Chiesa

Una scena indimenticabile. In una stanza misera, illuminata tenuemente dalla scialba luce d’un mozzicone di candela, lui Rodion, l’assassino, e lei Sonja, la prostituta, sono febbrilmente uniti nella lettura del libro eterno. È la scena madre di Delitto e castigo, forse uno dei pochi libri indispensabili che ha prodotto la letteratura mondiale.

Stanno leggendo quel brano del Vangelo di Giovanni che narra della resurrezione di Lazzaro. Ad un certo punto, come rintocchi possenti di campane che risvegliano una città nebbiosa e sonnolenta, come bagliori di fuoco che inondano di luce la stanza, risuona la frase: «Io sono la resurrezione e la vita».

L’assassino, che fino ad allora era riuscito a nascondere il suo duplice spaventoso crimine – aveva ammazzato per soldi una vecchia usuraia e una povera donna sfortunata – ne rimane scosso fino al midollo. Da prima se ne va. Un innocente era stato accusato al suo posto, poteva farla franca; ma la sua anima… la sua anima era rosa dal rimorso, che aveva per lungo tempo cercato d’assopire inventandosi mille cavilli intellettuali, spaesandosi con mille mistificazioni.

Ora, di fronte a quelle parole limpide e sovraumane lette da Sonja – da lei, che era stata costretta dal padre alcolizzato a vendere il corpo per sfamare la poverissima famiglia – di fronte alla purezza cristallina dell’involontaria ex prostituta, lui, crolla. E confessa. È un momento drammatico. «Alzati! – gl’ingiunge lei fra le lacrime –. Va’ subito, all’istante, a metterti sul crocicchio, chinati, bacia dapprima la terra che hai profanata, e poi inchinati a tutto il mondo, rivolto ai quattro punti cardinali, e di’ a tutti a voce alta “Ho ucciso!”. Allora Iddio ti manderà di nuovo la vita».

 

Chi ha letto il libro sa come finisce la storia. Con la confessione a Sonja, Rodion ritrova la propria dignità, schiacciata da un delitto ripugnante. Sente che non deve sfuggire al castigo. È la sola via di liberazione. Si costituisce. Viene condannato a otto anni di deportazione. Sonja lo seguirà in Siberia, un gesto d’amore che riscatterà entrambi dall’abiezione e renderà ricco d’una nuova luce di speranza il loro avvenire.

Rodion aveva trovato, nella confessione e nell’espiazione volontaria, un ritorno alla legge morale. Aveva ritrovato sé stesso. Il senso di colpa, taciuto e schiacciato da continue menzogne per scagionarsi, produce in genere una condizione d’impasse che si traduce nella perdita della lucidità d’agire per il bene personale e collettivo; produce una tristezza di fondo, impalpabile ma che invade ogni anfratto dell’anima. Che può essere rimossa solo affrontando di petto la propria vita come una totalità.

Oggi, queste pagine del grande Dostoevskij ci appaiono più lontane di Plutone, l’ultimo pianeta del sistema solare. Nessuno più confessa. O meglio, molto pochi. La confessione, che nel linguaggio giuridico può indicare una dichiarazione a sé svantaggiosa resa in sede processuale, viene sconsigliata da qualunque avvocato.

La strategia di difesa che pare ormai essere vincente è negare sempre e comunque, anche di fronte all’evidenza. Dai delitti di Cogne a quello di Garlasco a quello d’Erba (dopo una prima confessione, ritrattata), nessuno ammette la propria colpa. Ma non solo nelle aule della magistratura.

Nelle parrocchie, i preti lamentano che i confessionali sono disertati. E nella vita di tutti i giorni ci si è ormai abituati a mai dichiararsi colpevoli: dai banchi di scuola allo sport, dal glamour dello spettacolo al variegato e spesso un po’ avvilente mondo della politica.

 

Un amico rappresentante che tratta spesso con la gente d’un grande Paese arabo, dice che lì gli affari non si fanno per iscritto, ma generalmente sulla parola. «La mia parola è il mio sigillo», affermano con orgoglio. Non è che là sia tutto oro colato, ben si sa, ma chi di noi in Occidente oserebbe più proferire con trasparenza una frase del genere?

La parola oggi si usa per fare colpo, per raggiungere un obiettivo. La si esibisce per raccontarsi provocatoriamente e senza pudore attraverso uno schermo televisivo – in trasmissioni tipo Grande fratello o cose del genere – o sulle pagine di un giornale. Ma ahimè, si dice la verità?

È subentrata ormai da tempo una mentalità secondo la quale l’asticella della moralità viene posta da noi all’altezza che ci pare più ragionevole. Ovvio che sia facile saltare. E che il senso di peccato venga cancellato. Ci riteniamo coerenti quando rispettiamo i valori che noi stessi ci fissiamo.

Il racconto di Dostoevskij immette in un’altra prospettiva: l’asticella della moralità è posta dall’esterno, da Dio, per chi crede. E ci si deve sforzare di saltarla. Ovvio che a volte si facciano figuracce. Ovvio che il più delle volte la si butti giù. Che ci si ritrovi peccatori. Ma solo negli anfratti del peccato, che tutti ci accomuna, si avverte il senso del rimorso, della coscienza che brucia e che pesa come un macigno insostenibile.

Nelle continue dichiarazioni di non colpevolezza, quello che più sconcerta non è il fatto che si segua una linea consigliata dal legale difensore, né che per ragioni di pudore, riservatezza o in vista di un bene più grande non si affermi in pubblico la verità, ma che si perda la possibilità di levarsi di dosso quel peso opprimente d’una coscienza infelice e travagliata.

Che, se rimanesse tale a lungo, porterebbe a incupire e intasare la propria vita interiore e la vita civile attorno, immettendo nel clima generale una diffusa tristezza. Levandosi quel peso dall’anima, come sperimenta Rodion nelle ultime pagine del romanzo, si assume invece la dolorosa consapevolezza dei propri atti vergognosi e ci si impegna a ripagare.

Ma allo stesso tempo – a volte accompagnato dal fluire liberatorio delle lacrime – ci si sente invadere l’anima da una gioia frizzante, una leggerezza elettrizzante che solleva il cuore. Ci si è ritrovati. Si è sentita nuovamente la corroborante freschezza della purezza.

Una sensazione che ben ricordo, e con tanta dolcezza: quando chiudevo lo sportello della grata del confessionale, e con un timido saluto lasciavo quel prete sconosciuto nella silenziosa penombra, che vagamente odorava di sacro. E, bambino, correvo felice verso il campo da calcio. Mi sentivo sollevato, invaso da una pace trasparente, chiarissima e impagabile. Vale veramente la pena rinunciare a questo? Anche per tutto l’oro del mondo?

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