Casa, denaro e famiglie. Come invertire la rotta

Mentre l'occupazione delle case popolari fa discutere in tutta Italia, riproponiamo la seconda parte dell'intervista all’urbanista Paolo Berdini
Abitazioni e vuote e famiglie senza casa

Nella prima parte dell’intervista, l’urbanista Paolo Berdini ha evidenziato la scomparsa dell’intervento pubblico nella politica abitativa come causa strutturale del paradosso di avere, oggi, migliaia di famiglie senza casa pur di fronte a un grande patrimonio di immobili sfitti. Come rilanciare l’edilizia accessibile alle fasce non benestanti e impoverite dalla crisi? Dove trovare le risorse senza ricorrere alla leva dell’indebitamento eccessivo con le banche che, comunque, hanno ridotto del 60 per cento l’erogazione di mutui per la casa? Con queste domande riprendiamo la seconda parte del colloquio con Berdini.

Dove si prendono i soldi per l’edilizia popolare in tempi di crisi?
«Una risposta chiara, così chiara da essere ignorata dalla grande stampa di “informazione”, arriva, in queste ultime settimane, dal comune di Roma. Per cercare di evitare il fallimento economico (la Capitale ha, infatti, 12 miliardi di deficit consolidato) sono stati finalmente resi pubblici i dati sugli affitti passivi comunali: ogni anno per le locazioni di uffici il comune di Roma regala 57 milioni di euro alla grande proprietà edilizia. A questa cifra astronomica occorre poi aggiungere i 40 milioni di euro che ogni anno vengono spesi per l’affitto di alloggi da destinare all’emergenza abitativa, e cioè residence e pensioni. Quasi 100 milioni di euro all’anno gettati al vento e regalati alla proprietà immobiliare privata quando sono numerose, come noto, le proprietà pubbliche abbandonate che potrebbero essere riutilizzate per risolvere l’emergenza».

In che modo?
«Al posto di questa autentica spesa improduttiva, che va dunque tagliata, le amministrazioni comunali virtuose potrebbero costruire un piano di investimenti decennali che, utilizzando quelle cifre (ripeto, un miliardo circa in dieci anni), potrebbero contribuire in modo decisivo a risolvere la partita. Insomma, il problema vero non è la mancanza assoluta di risorse pubbliche quanto l’assoluta opacità dei capitoli di spesa. E invece di gravare sulle buste paga dei lavoratori (con i contributi gescal, ndr) come si è fatto negli anni espansivi, nei momenti di crisi bisogna mettere mano alle risorse pubbliche tagliando sprechi e spese improduttive».

Che fare, quindi, del patrimonio immobiliare pubblico? Utilizzarlo per farne case popolari?
«Il patrimonio immobiliare pubblico è molto vasto e di grande qualità. Sono convinto che nella sua valorizzazione si possa trovare il giusto equilibrio tra le esigenze dell’imprenditoria edilizia sana e gli obiettivi pubblici».

Cioè?
«In altri termini, è anacronistico parlare oggi di utilizzare il patrimonio immobiliare pubblico destinandolo alla costruzione di case popolari. In questo modo si ripercorrerebbero strade di concentrazione di problemi sociali che tanti danni hanno creato nel passato e sopravvivono anche oggi. Il futuro è nell’integrazione sociale: perché dunque non iniziare a lavorare sin da subito per realizzare progetti di riuso che vedano una parte destinata alla costruzione di alloggi sociali e una parte destinata al segmento privato? I due settori non solo possono convivere e integrarsi dal punto di vista economico, ma la loro sinergia porterebbe benefìci anche sotto il profilo della costruzione di una società accogliente e giusta, che, come impone la nostra Costituzione, è lo strumento per colmare le differenze sociali».

Ma cosa dire davanti a troppi esempi del passato, con la costruzione di abitazioni popolari di basso valore e decoro, luoghi di segregazione e permeabili alla malavita?
«I grandi quartieri di edilizia residenziale pubblica dei decenni della crescita hanno dato straordinari risultati positivi, in termini quantitativi perché hanno saputo dare alloggio a milioni di famiglie che non avrebbero, altrimenti, potuto accedere al bene casa, e qualitativi perché quegli stessi quartieri avevano una dotazione di servizi pubblici (scuole e parchi urbani) sconosciuta in quelli costruiti dall’iniziativa privata. L’altra faccia della medaglia è stata, però, rappresentata dalla segregazione, dall’isolamento sociale e anche, in limitati casi, dall’emergere di gruppi malavitosi che controllavano le assegnazioni degli alloggi».

Quindi cosa bisogna fare, oggi, per invertire la rotta?
«Gli altri Paesi europei ci insegnano che la soluzione del problema non sta soltanto nella repressione dei fenomeni, che pure va praticata senza indugi: è l’integrazione sociale, la creazione di servizi sociali evoluti (penso all’esperienza romana del teatro di Tor Bella Monaca) che possono dare risposta al problema dell’abbandono scolastico sempre più allarmante e ai problemi del traffico di stupefacenti così diffuso nelle estreme periferie. I fenomeni di disgregazione sociale si combattono rafforzando l’intervento della mano pubblica. Il ventennio della privatizzazione delle città e della demolizione del welfare urbano deve essere chiuso al più presto per tornare a una società inclusiva. L’obiettivo è costruire la città di tutti. La città come bene comune».

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