Il capolavoro di un artista mancato

Gli restavano soltanto una foto del figlio e sessanta lettere a lui mai spedite

Un mattino piovoso di novembre a Roma, quartiere Esquilino. Attraversavo i giardini di piazza Dante deserti e intrisi d’acqua… Deserti? No, qualcuno c’era, incurante della pioggia. Lo avvicinai per condividere l’ombrello al bisogno, e… era Noureddine, il mio amico marocchino! Un senza fissa dimora che il suo giaciglio sotto il cielo l’aveva nel non lontano parco delle Terme di Traiano.

«Che ci fai qui a bagnarti?» lo salutai, stupito nel vederlo fradicio e per di più col viso solcato da lacrime. «Guarda là» rispose cupo, indicando il sommo dell’ex palazzo delle Casse di Risparmio Postali che chiudeva un intero lato della piazza. Sormontava la facciata del mastodontico edificio un fregio scultoreo formato dallo stemma sabaudo affiancato da due figure allegoriche. Lo osservai, ma senza capire. «La statua della donna col bambino… – proseguì Noureddine –. Quel bambino mi fa morire… Ogni volta che ne vedo uno per strada o sui cartelloni, o una statua come quella, ripenso a mio figlio…».

Ecco cosa lo affliggeva. Conoscevo, a grandi linee, la storia travagliata di Noureddine. Me l’aveva raccontata a pezzi, quando capitava di incontrarci, con l’intenzione di scrivere un libro col mio aiuto; e in verità c’era di che ricavarne un romanzo…

Era nato a Casablanca nel 1961. Famiglia numerosa, liti continue fra i genitori. Abitavano nella stessa palazzina di una coppia francese senza figli. Grazie alla madame, che lo considerava quasi come un figlio, Nourredine poté eccezionalmente studiare in una scuola francese. Al momento di rimpatriare, la signora avrebbe voluto portarlo in Francia per provvedere alla sua educazione: la madre l’avrebbe rivisto ogni estate. Ma rifiutò. Col senno di poi, chissà quanti guai e dolori sarebbero stati risparmiati al figlio se lei avesse accettato.

Anni dopo, studente di Scienze Politiche, lo troviamo collaboratore di un giornale di sinistra. Per i suoi articoli di denuncia della corruzione del governo venne preso di mira dalla polizia segreta. Pensò allora di cambiare genere, iscrivendosi alla scuola ufficiali della Marina mercantile. Non durò a lungo. La madre si era ammalata seriamente e il padre – come rivalsa verso il figlio che per proseguire gli studi aveva smesso di aiutarlo nel suo lavoro di topografo – lo costrinse a tornare a casa per provvedere alle cure di lei.

Ma nel nuovo impiego presso una ferrovia semi-statale fu sospettato di contrabbando di armi. A questo punto decise di raggiungere una delle sorelle che viveva a Parigi. Era il 1986 e aveva 25 anni. La bellezza lo aveva attirato fin da bambino, si sentiva fatto per l’arte e intendeva iscriversi alle Belle Arti. Purtroppo le leggi diverse non glielo consentirono. Iniziò così una sarabanda di vagabondaggi e avventure in mezza Europa, dalla Spagna alla Scandinavia, dalla Germania alla Svizzera, come pescatore di merluzzo, fioraio, benzinaio, parcheggiatore, buttafuori, pizzaiolo… Una vita di sacrifici ed eccessi che gli minarono la salute. Ma “tutte le strade portano a Roma”, dove un’altra sorella aveva sposato un italiano e dove io l’ho poi conosciuto.

Schiavizzato dai datori di lavoro, troppo retto per spacciare droga, Noureddine cercò rifugio nell’alcol. Di tanto in tanto aveva delle allucinazioni, asseriva di sentire certe “voci”, col terrore di diventare matto. La diagnosi fu: schizofrenia. Durante uno dei suoi ricoveri periodici si innamorò di una italiana. Fosse andata a buon fine la cosa con un matrimonio, forse sarebbe stato diverso. Ma altri erano i piani della sorella, che lo convinse a sposare per delega una cugina di Casablanca, cui promise di trovare lavoro a Roma.

Era il 2002 quando arrivò la sposa. Presto però, nell’appartamentino preso in affitto a Valmontone, la situazione dalla coppia si rivelò tutt’altro che rosea. Con due stipendi forse ce l’avrebbero fatta a tirare avanti, ma lei mandava i denari in Marocco, mentre Noureddine, che all’epoca lavorava in un ristorante, si esauriva in turni estenuanti. Ormai vivevano sotto lo stesso tetto ma come due estranei. In fondo lei voleva solo un figlio da lui. E dopo la nascita di Anas, si concentrò sul piccolo, senza curarsi del coniuge neppure quand’era in ospedale.

Appena il bambino compì due anni, la madre lo portò con sé in Marocco per un periodo. Da allora il padre poté vederlo e sentirlo solo al cellulare. Era uno strazio sentire la vocetta di Anas insistere: «Papà, non vieni? Vieni, papà!». Intanto, lui cercava di tirare a campare a Roma. Anche lei vi fece ritorno col figlio, ma non lasciò il suo nuovo indirizzo. E a Nourredine, ridotto a fare il barbone, non rimase che attendere la pensione di invalidità.

In quel mattino di pioggia, il mio amico estrasse dal suo zaino, insieme ad un fascio di fogli sgualciti, una foto a colori di Anas. Mi emozionò quel volto di bambino raggiante d’innocenza, serio ma non triste. «È meglio che me la conservi tu, se no rischio di perderla o mi rubano lo zaino. Me la restituirai la volta che lascio Roma, se Allah vuole… Da sette anni non lo vedo – proseguì amaramente –, e adesso lui ne ha nove. Sai quante volte non dormo la notte pensando a quest’orfano di padre, sì orfano per colpa della mia ex? Chissà cosa va dicendogli di me: forse che sono morto o diventato un alcolista, un barbone, perché sicuramente Anas chiede dov’è il papà. Vedi questi fogli? Sono sessanta lettere, quelle che gli ho scritto finora e che gli darò appena riuscirò a incontrarlo. Dirò: leggi, figliolo, qui è tutta la mia storia. Non sapevo dove stavi di casa, ma ti scrivevo sempre. Ho fatto tanti errori nella vita, ma trattavo bene tua madre e avevo cura di te, ti portavo a giocare nel parco, al mare… E quando finivamo di giocare – ricordi? – mi dicevi: ‘Gelato, papà!’. Un lungo silenzio, poi: «Mi manca tantissimo, penso sempre a lui. Sempre».

Dopo quel giorno Noureddine sparì. Muto il cellulare. Per quanto m’informassi di lui nei posti che era solito frequentare, nessuno seppe darmi sue notizie. Ultima possibilità, la sorella dalle parti dell’Appia Nuova, di cui avevo il numero telefonico. Ma una voce stanca e scostante mi rispose: «Non so nulla, non ho più contatti con lui e non voglio più sentirne parlare».

Sono passati molti anni. Non vivo più a Roma e a volte, ripensando al mio amico marocchino, mi chiedo se è ancora vivo, se ha ritrovato il figlio, se… E mentre man mano sbiadiscono nella memoria anche i suoi lineamenti, mi resta solo la foto di Anas che non ho mai potuto restituirgli. Ogni volta che contemplo quest’unico capolavoro di uno che da giovane voleva fare l’artista, mi dico che c’è un Dio capace di restituirla, l’innocenza, a chi ha tanto tribolato nella vita. E già mi sembra che a guardarmi non sia più il bambino della foto, ma proprio lui, Noureddine, rinato dalla grazia

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