Campi rom. Uscire dalla logica della segregazione

Intervista a Carlo Stasolla, presidente dell’Associazione 21 luglio. Elementi per comprendere una questione difficile
Una famiglia rom

L’associazione 21 luglio, particolarmente presente a Roma, svolge, a livello nazionale, un’attività di «tutela e promozione dei diritti dell'infanzia presente negli insediamenti rom formali e informali e nella lotta contro ogni forma di discriminazione e intolleranza nei confronti della "diversità"». Il sito web della 21 luglio è una miniera di dati e documentazione.

Come onlus, per statuto ci tiene a ribadire che non è condizionata, perché non riceve finanziamenti pubblici, ma si sostiene con il libero contributo di privati e fondazioni, tra cui la Fondazione Migrantes, l’otto per mille della Chiesa Valdese, la Commissione Europea – Programma Daphne III, la Fondazione Charlemagne e l’Open Society Foundations.

Abbiamo incontrato il presidente Carlo Stasolla in occasione della presentazione dell’Agenda Rom e Sinti. Il documento rappresenta una “carta di impegno” su sei punti strategici che definiscono «princìpi essenziali per mutare radicalmente le politiche verso rom e sinti nella capitale».

Voi vi muovete per prevenire ogni discriminazione ad opera soprattutto della stampa, ma conflitti e incomprensioni insorgono anche in una grande città come Roma nei luoghi di frontiera, dove abita la popolazione delle periferie che già sopporta situazioni di disagio. È possibile un'integrazione che coinvolga anche le aree più ricche e benestanti della capitale?
«Le costruzioni dei campi, come gli sgomberi, rispondono spesso a logiche di speculazione. Un campo smantellato diventa appetibile come area liberata e disponibile per i grandi costruttori, che sono, poi, i maggiori finanziatori dei partiti politici. La Barbuta, sull’Appia, è un caso eclatante perché è un terreno di 339 mila metri quadrati donato al comune di Roma da una cooperativa riconducibile ad Enrico Nicoletti (il tesoriere della Banda della Magliana, ndr). È quantomeno strano il caso di una cooperativa che cede gratuitamente un terreno al comune. C’è da dire che con la scusa del campo si è urbanizzato un terreno con luce, acqua e fognature, rendendolo disponibile per nuove costruzioni una volta che il campo sarà smantellato. Purtroppo i rom sono come la spazzatura, e cioè spostandoli si produce l’effetto di aumentare o abbassare il valore dei terreni. Tutto avviene in regime di emergenza e quindi si abbattono vincoli e cautele esistenti, ad esempio come per le falde acquifere della vicina fonte Appia nel caso preso in esame».

Quanto costa la gestione del campo?
«Nonostante la nostra opposizione e quella di Amnesty International, alla fine il campo in questione è stato attivato e nuove famiglie sono arrivate tra luglio e dicembre. Se mettiamo insieme i costi di costruzione con la gestione ordinaria si arriva alla cifra di 115 mila euro per una famiglia di 5 persone. Se proprio non si vogliono considerare i diritti umani, almeno consideriamo la necessità di risparmiare per trovare una soluzione più economica. Posso spendere metà dell’importo nell’inserimento lavorativo o scolastico. Questo è lo scandalo. Troviamo quindi soluzioni migliori e più efficaci: se il costo mensile di un rom in un campo attrezzato è di 450 euro al mese vuol dire che ci sono troppi interessi a mantenere la gestione dei campi attrezzati che fattura a Roma 20 milioni di euro, con circa 450 persone che ci lavorano. È, di fatto, una grande azienda che nessuno vuole smantellare preferendo criminalizzare i rom per giustificare la loro esclusione sociale e separazione nei campi. I vari servizi sono inoltre assegnati in regime di urgenza, senza gara pubblica, ma con affidamento diretto». 

Voi contestate l’uso della parola “nomade”, perché?
«Perché il nomadismo riguarda solo il tre per cento dei rom presenti in Italia. Serve a definirli tali perché, in tal modo, si dichiara la loro incapacità di avere un’abitazione come gli altri esseri umani. È chiaro che nei campi si produce la condizione che predispone a delinquere. Anche una famiglia di lord inglesi costretta a vivere in certe condizioni cambierebbe usanze e pratiche in tre mesi. Abbondano studi scientifici che dimostrano come il ghetto produca, di per sé, disagio e devianza sociale».

Sta di fatto che la gente comune ha paura dei rom proprio perché giudicati come abituati a delinquere e magari ad essere la manovalanza di clan mafiosi dediti ad esempio, nel caso romano, all’usura. Paradossalmente non si teme invece chi ripulisce i proventi di questi affari in attività commerciali. Cosa ne pensa?  
«Purtroppo sono i frutti della discriminazione. Bisogna giudicare le persone da ciò che fanno in qualsiasi posto si trovino ad abitare. È chiaro che la persona che delinque va perseguita. Il quarto punto dell'agenda parla proprio di un lavoro da fare sulla popolazione maggioritaria per abbattere stereotipi e pregiudizi. È un lavoro, questo, fondamentale per la riuscita di ogni intervento».

Ma come comportarsi quando si vede comparire una donna o un bambinetto nella metropolitana che recita la formula per impietosire e chiedere i soldi? Sono manovrati da qualche sfruttatore?
«Anche qui è forte il pregiudizio. Non si può generalizzare. Può esserci dietro un’organizzazione che li sfrutta che va denunciata, oppure è l’ultima risorsa che una famiglia ha per chiedere aiuto disperatamente, perché magari la famiglia è stata sgomberata, il padre è malato e la madre ha bimbi piccoli da accudire. Sono casi che vanno analizzati denunciando abusi ed evidenziando i casi di grave disagio da seguire e risolvere».

In cosa consiste la discriminazione verso i rom?
«Noi diciamo, assieme ad Amnesty International, al Centro europeo per i diritti dei rom e al Commissario europeo dei diritti umani che i campi vanno chiusi per trovare soluzioni alternative. Se un cittadino non rom subisce uno sfratto, il comune non lo segrega in un campo: questa è la discriminazione. Se ci sono colpe le persone vanno sanzionate come chiunque altro, ma qualunque persona va aiutata nella sua condizione di fragilità. Bisogna stare attenti inoltre a chi viene nominato portavoce dei rom da parte dell’amministrazione comunale. Per chi ha un minimo di conoscenza della cultura rom sa che il rapporto non passa tramite sedicenti rappresentanti ma deve avvenire attraverso le singole famiglie con riferimento alle capacità, competenze e bisogni che permettono una corretta integrazione a cominciare dal trovare soluzioni abitative diverse dal campo».

Ma considerando la molteplicità dei soggetti che si muovono come espressione del cosiddetto mondo rom, che tipo di rappresentanza si può riconoscere?
«Quella che viene dalle comunità con metodi democratici e non imposta dall’alto e dall’esterno. Altrimenti, avviene come nella colonizzazione in Africa o nelle Americhe, dove si sono creati dei fantocci ai quali si faceva dire le cose che volevano i colonizzatori. È un percorso che bisogna ricostruire dopo il danno prodotto dalla politica dei campi rom». 

Prevedendo un intervento coordinato (casa, lavoro e altri servizi) non pensate che un tale impegno finanziario sia tale da far nascere accuse da chi, soffrendo le conseguenze della crisi, non riceve alcuno aiuto? 
«Un'azione di inclusione rivolta ai rom e ai sinti andrà spiegata alla popolazione maggioritaria. Andrà spiegato, per esempio, che, ripeto, dei 20 milioni di euro spesi ogni anno per 3.500 rom di Roma, nessun centesimo finisce nelle tasche di un rom, ma nel sistema, fatto di associazioni e cooperative, che ruotano attorno all’"affare campo nomadi". Non si possono spendere 3 milioni e 600 mila euro ogni anno per la scolarizzazione raggiungendo livelli di successo largamente insoddisfacente. Andrebbe anche spiegato, numeri alla mano, che un'azione di inclusione avrebbe un costo di circa la metà del denaro speso per mantenere aperti i "campi nomadi". I soldi risparmiati potrebbero essere reinvestiti nelle periferie per scuole, ospedali, strade…».

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