Botanica prefestiva dell’alberello stecchito

Se volete qualcosa di particolarmente bello alla televisione dovete cercare (o deve capitarvi) di alzarvi alle cinque meno un quarto antimeridiane del sabato, e accendere ad esempio il terzo canale. In quell’ora di audience di zero virgola zero qualcosa, share ancor meno – vi può capitare di vedere o come a me di rivedere un grande film di Andrej Tarkovskij, che già vedemmo in pochi intimi nel 1986 quando uscì mentre ne stava morendo l’autore di tumore al cervello, Sacrificio. Il cui protagonista, Alexander, in un Nord reale-immaginario, in cui filtrano irreali-realissime notizie di una incominciata guerra mondiale atomica, cerca una disperata redenzione attraverso un sacrificio, appunto, che faccia recuperare all’umanità, cioè a lui, alla sua famiglia, sopiti problemi e inquietudini compresi, lo smarrito e perduto senso del trascendente, del sacro, dell’eterno. Lo fa in due modi; insegnan-do al suo bambino a portare acqua per innaffiare un alberello stecchito, e dando fuoco alla propria casa di legno, che brucia in un immenso rogo mentre lui, Alexander, viene portato via da infermieri in un’ambulanza. L’ultima scena del film, che ho rivisto con un nodo alla gola e che sfido chiunque non sia un bradipo addormentato a guardare senza un nodo alla gola, è quella del bambino che, rimasto solo, stando la madre in lontananza, va ad innaffiare l’alberello stecchito, e poi si sdraia faccia al cielo dicendo: In principio era il Verbo. Perché, papa?, mentre risuona il pentimento di Pietro (Erbarme dich, mein Gott) nell’Aria della Passione secondo san Matteo di Johan Sebastian Bach. Questa casuale rivisitazione di una viva e rimasta per sempre esperienza spirituale mi ha fatto meditare, molto concretamente, direi, sul futuro del cristianesimo. Molto concretamente perché mi sono convinto una volta di più che se non c’è una rottura, uno strappo, un colpo d’ala tra il ragionevole pragmatismo quotidiano e la dimensione in cui Dio è Dio, Cristo è il Verbo, la croce è croce e la risurrezione, risurrezione, non c’è cristianesimo ma solo gradevoli o sgradevoli variazioni sul tema di una ipotetica religiosità che non urta niente e nessuno perché non li raggiunge. Se ne accorse in tempi diversi ma anche simili ai nostri san Francesco, quando vide che un suo seguace viveva molto ragionevolmente, forse accomodatamente, la rivoluzione evangelica che lui aveva incominciato come povero di Assisi; gli comandò per santa obbedienza di piantare un cavolo a testa in giù e radici all’aria. A1 mio paese – venne allo scoperto il seguace- ma-non-troppo – cavoli si piantano in un altro modo. E allora ritorna al tuo paese gli consigliò, dimostrando il teorema, Francesco. Ciò che oggi non attira nel cristianesimo, quando c’è, è la sua mancanza di radicalità, delle proprie radici (non di quelle del cavolo); ciò che attira, quando c’è, è la sua genuina derivazione, il suo scorrere dalla sorgente eterna. E nelle cose piccole o grandi, non importa. Mentre i romani, protagonisti in ragionevolezza, dicevano che delle piccole cose non si cura il magistrato (de minimis non curat praetor), il Vangelo è fatto sempre di piccole cose che portano ad effetti grandi, grandissimi come lo sono i cambiamenti reali e radicali delle persone (conversioni). Il Vangelo cioè non è una raccolta di pii racconti e riflessioni, ma la mappa dettagliata di una caccia al Tesoro, con punto di partenza, percorso, varianti, convergenze e arrivo, non rintracciabili in nessuna carta geografica nota: anche se da ambientare in ciascuna.

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