Benedetto XVI: collaboratore della verità

Dalla Germania a Roma, per volere di Giovanni Paolo II: un sodalizio durato quasi 25 anni fino alla morte di Wojtyla. L'elezione a pontefice e, dopo le dimissioni, gli anni vissuti insieme a Francesco nel silenzio e nella preghiera.

Questi finali di papati, emeriti e no, sulla croce! Ratzinger come Roncalli (“soffro con dolore ma con amore”), Pacelli come Wojtyla. Nelle ultime immagini Benedetto XVI era quasi irriconoscibile. Non più il dolce anziano dai capelli candidi e la scriminatura perfetta ma un volto scarnificato e sfigurato da malattia e dolore, con gli occhi però più vivi e lucenti che mai. Immagini che accomunano i papi a tutti gli esseri umani, costretti in genere a conquistarsi la pace della morte col travaglio della sofferenza (“la morte si sconta vivendo”, dice Ungaretti). Ma immagini anche che mostrano, al livello più alto, al timone della nave, il chicco di grano che marcisce e muore, e che così produrrà frutto per tutti. Questo fa un papa che muore in croce, e a volte ci vive. Questo ha fatto Ratzinger, per il profitto spirituale della Chiesa che ha tanto amato e servito per 72 anni.

Ma il suo incontro col dolore e il male c’era stato già più volte. Nato in Baviera nel 1927, il bimbo e adolescente Ratzinger crebbe e si scoprì vocato al sacerdozio in pieno apogeo della Croce Uncinata, con tutti gli effetti persecutòri e intimidatòri che ciò ebbe per Joseph e la sua modesta famiglia dichiaratamente cattolica. Vide il parroco malmenato durante la messa e lui stesso fu obbligato a iscriversi alla gioventù hitleriana e a lavorare forzatamente per il regime e la Germania in guerra. Di cui visse sulla sua pelle tutto il calvario, dalla violenza nazista ai bombardamenti angloamericani che rasero al suolo il Paese, dall’invasione alleata e sovietica alla sconfitta militare e alla condanna etico-politica parte del mondo, dalla dolorosa divisione in 2 Germanie alla fame e ai sudori della ricostruzione.

La seconda via crucis la incontrò da papa, nelle settimane e nei mesi che precedettero, e provocarono, accelerarono, le sue storiche dimissioni nel 2013 (uniche nella storia del papato moderno). Non si hanno molte testimonianze certissime, oggettive, al riguardo, o sono ancora oggetto di ricerca e studio. Ma tutto quello che si sa e che riferirono allora i media permette se non di misurare almeno di immaginare l’angoscia, i dubbi, gli scrupoli, le esitazioni e i tormenti etico-spirituali che lacerarono l’animo di Benedetto prima del difficilissimo, terribile passo della rinuncia al papato. E tutto ciò sotto il fuoco di eventi, scandali, accuse, dichiarazioni e quant’altro che lo facevano sentire ogni giorno più fragile e inadeguato. La preghiera, e la luce scaturitane, alla fine lo avrà convinto, ma quell’esperienza rimane fra le più ingrate e penose mai vissute da un papa, da un uomo di fede e di Chiesa.

Ed è stato pure un po’ un paradosso. Mi spiego. Wojtyla con la sua personalità forte, e l’energia, la determinazione, probabilmente non avrebbe fatto la stessa scelta di Ratzinger. Anzi non l’aveva fatta, e neanche ipotizzata, quando alcuni gli ultimi anni lo spingevano in quella direzione per via del parkinson e degli altri mali. Wojtyla mai sarebbe stato dimissionario. Del resto non si possono immaginare due caratteri, due uomini più diversi di loro due. Eppure Ratzinger come papa è stato, in gran parte ma non in tutto (e lo vedremo), l’erede di Wojtyla, il suo grande continuatore al vertice della Chiesa. Vediamo perché.

Fu Giovanni Paolo II a chiamarlo a Roma come prefetto della Congregazione della Dottrina della Fede, nel 1981, dopo che il prelato bavarese aveva insegnato nelle maggiori università tedesche, pubblicato capolavori teologici come Introduzione al cristianesimo (1968) e Dogma e predicazione (1973) e retto da cardinale arcivescovo la diocesi di Monaco dal 1977, nominato da Paolo VI. Il papa polacco aveva visto in lui una specie di alter ego spirituale e dottrinale, imperniato sul culto della tradizione rettamente intesa (non del tradizionalismo) coniugata con il giusto rinnovamento e con l’apertura all’uomo e a tutti i valori condivisibili della cultura e sensibilità contemporanea. E il “collaboratore della verità” (questo il suo motto episcopale) non deluse il vecchio pontefice, il cui insegnamento Ratzinger  riversò nella linea e nei decreti del dicastero che guidò fino al 2005, presiedendo nel contempo la Pontificia Commissione Biblica e la Commissione Teologica Internazionale. C’è lui, come esperto e consulente “di lusso”, dietro le memorabili encicliche e gli altri testi e documenti di Wojtyla, e l’età di Giovanni Paolo II il Grande è in larga misura quella del cardinale mite e pacato che non scriveva solo bozze e pareri per il supremo magistero ma partecipava a dibattiti e tavole rotonde pubbliche difendendo sempre i diritti della ragione, della coscienza e di una verità oggettiva conoscibile e determinabile. In buona parte sua rimane la battaglia contro il nichilismo, il relativismo e l’irrazionalismo del nostro tempo.

Ma il “sodalizio”, mi si passi il termine, Wojtyla-Ratzinger, che riecheggia nella splendida omelia pronunciata dal cardinale per le esequie di Giovanni Paolo II “con il cuore pieno di tristezza… e di profonda gratitudine”, non significa che essi sono stati due papi gemelli. Rispetto alla visione del polacco, il tedesco ha insistito di più sui tradimenti della Chiesa, sulla sua inadeguatezza sempre dietro l’angolo nei comportamenti della gerarchia e dei cristiani, sulla corruzione e l’indegnità che non risparmiano né esponenti né gruppi né livelli del popolo di Dio. In tal senso è stato esemplare il suo commento alla Via Crucis del 2005. “Quanta sporcizia c’è nella Chiesa”, scrisse lì fra l’altro, “…spesso sembra una barca che sta per affondare, una barca che fa acqua da tutte le parti…nel tuo campo vediamo più zizzania che grano. La veste e il volto così sporchi della tua Chiesa ci sgomentano”. E uno sbocco concreto e benemerito di questa denuncia e di questo grido di dolore sarà l’impegno forte e coerente di Ratzinger per sanare la piaga della pedofilia nella Chiesa. E’ stato un pioniere in questo, e papa Francesco prosegue sulla sua scia. E a proposito di Bergoglio, è doveroso riconoscere ancora un merito di Benedetto XVI. L’essersi sempre sottratto, con la parola e anche col silenzio, ai tentativi da parte degli ipertradizionalisti di vedere e “usare” il papa emerito come la loro bandiera, come un antipapa!

 

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