Ben Hur corre ancora

Siamo negli Usa, alla fine degli anni Settanta del XIX secolo. Due noti personaggi dell’epoca si incontrano casualmente durante un viaggio in treno. Entrambi uomini di cultura, sono accomunati dal dichiarato agnosticismo e dalla ostilità alla religione cattolica. Specialmente il filosofo Robert. G. Ingersoll s’è fatto una missione di dimostrare con le sue pubbliche conferenze la non esistenza di Dio. L’altro, Lewis Wallace (ma si firma Lew Wallace come autore), durante la guerra civile si è distinto col grado di generale nella battaglia di Monocacy contro l’esercito sudista (1864). Mentre conversano, d’un tratto Ingersoll butta là: Wallace, lei è un uomo istruito e un pensatore. Perché non scrive un libro col quale provare al mondo la falsità di tutto quanto concerne Gesù Cristo? Suvvia, dimostri che un tal personaggio non è mai esistito e che pertanto non può essere autore della dottrina contenuta nel Nuovo Testamento. Wallace, che ha già al suo attivo un paio di testi di argomento storico, raccoglie la sfida e per realizzare l’opera in questione trascorre ben due anni a documentarsi nelle più fornite biblioteche degli Usa e d’Europa. Finalmente comincia la stesura del libro. Ma dopo i primi capitoli si ferma, bloccato da un profondo senso di disagio: in realtà dall’insieme delle informazioni raccolte gli risulta lampante l’esistenza storica di Cristo, alla stessa stregua di un Socrate o di un Cesare. E se fosse veramente il Figlio di Dio e il Salvatore del mondo che pretendeva di essere? Tale ipotesi, destinata a diventare certezza assoluta, gli fa apparire ormai il cristianesimo come la sola risposta alla sua ricerca di verità. Come racconterà in seguito lo stesso Wallace, per la prima volta in cinquant’anni di vita cade in ginocchio balbettando una preghiera. Si rialza trasformato e, deciso a mettere il suo talento di scrittore al servizio del Regno di Dio, riscrive i primi capitoli di un’opera destinata a diventare piuttosto una apologia della figura e del messaggio del rabbi di Nazareth. Nasce così – è l’anno 1880 – Ben Hur, dove le vicissitudini del giovane principe ebreo e dei suoi familiari, perseguitati dal crudele ufficiale romano Messala, s’intrecciano alla vicenda di Gesù e alla diffusione del vangelo. La genialità di Wallace sta nell’ aver scritto, invece di un saggio che pochi avrebbero letto, un romanzo destinato ad un vasto pubblico. Il successo infatti è travolgente, paragonabile a quello de Gli ultimi giorni di Pompei di Edward Bulwer-Lytton (1834), Fabiola del cardinal Wiseman (1853) e Quo vadis? di Sienkiewicz (1896): romanzi ambientati anch’essi all’epoca della classicità romana e dei primi cristiani. Con oltre 80 milioni di copie vendute, Ben Hur sarà – almeno fino al 1930 – il secondo libro più popolare negli stati Uniti dopo la Bibbia. Innumerevoli le traduzioni in tutto il mondo, e perfino gli adattamenti per lettori in erba. Quanto alla sua versione teatrale, terrà il cartellone alla Musical Academy di New York per duemilacinquecento serate successive. Non sappiamo come abbia preso la cosa il vero ispiratore di questo trionfo, il buon Ingersoll, ma non ci è difficile immaginarlo. Fra l’altro – fatto curioso – questo romanzo farà letteralmente dimenticare il suo autore, che concluderà la sua esistenza nel 1905 senza infamia né lode, malgrado la successiva produzione. Ben Hur è un’opera corale, con una folla di personaggi tratteggiati con vigore e una molteplicità di episodi capaci di mantenere sempre desto l’interesse del lettore. Stupisce ma fino ad un certo punto, considerati i suoi trascorsi militari, l’abilità con cui Wallace, da buon stratega, ha saputo reggere le fila di un così complesso intreccio. Grazie alla sua erudizione non comune e all’accesa fantasia, egli ricrea magnificamente la Palestina del primo secolo e in un crescendo di situazioni di forte coinvolgimento sa suscitare il pathos necessario a far risaltare, nell’ultima parte, il sacrificio del Golgota. Lo scrittore si accosta con trepidazione, amore e rispetto alla figura di Gesù, a cui fa pronunciare solo le parole riportate dai Vangeli. Oggi però, almeno in Italia, il capolavoro di Wallace è conosciuto soprattutto per la sua riduzione cinematografica del 1959 diretta da William Wyler, con un cast prestigioso tra cui spicca un Charlton Heston perfetto nel ruolo del protagonista. Questo kolossal, la cui sequenza più celebre rimane la corsa delle quadrighe nel circo che vede in lizza il principe ebreo e il suo rivale Messala, collezionò ben 11 Oscar: un record eguagliato solo da Titanic nel 1997. Giunge dunque a proposito, realizzata dalla Bur, la riedizione integrale con una nuova traduzione dell’opera: è così possibile apprezzare – al di là di qualche difetto di gusto proprio dell’epoca – un romanzo tuttora vitale e accattivante, che ha saputo toccare le corde più intime dell’animo umano, riproponendo la più grande storia di tutti i tempi. Sì, è proprio il caso di dire che la corsa di Ben Hur non è ancora finita. Lew Wallace. Nato nel 1827 a Brookville nell’Indiana, dopo aver fatto il giornalista entrò nell’esercito americano partecipando alla guerra civile col grado di generale (1862). In seguito la sua attività letteraria si intrecciò a quella di avvocato e di diplomatico (fu ambasciatore in Paraguay, governatore del Nuovo Messico ed ebbe importanti incarichi diplomatici in Turchia). Morì nel 1905. Oltre al capolavoro Ben Hur,Wallace scrisse Il dio giusto, Commodo, La fanciullezza di Cristo, La vita di Benjamin Harrison, Il principe dell’India, e le memorie pubblicate postume.

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