Armi. Non è solo una questione di lobby

Dopo le stragi, accordi trasversali ostacolano la politica restrittiva di Obama. Tracce di un dibattito aperto
Dibattito sulle armi negli Stati Uniti

Non si può spiegare solo come il frutto di una potente lobby di potere. Se negli Usa non passano neanche le norme restrittive sulla vendita dei fucili semiautomatici (cioè quelli d’assalto concepiti per l’uso in guerra), vuol dire che il convincimento della maggioranza non si smuove neanche dopo la strage del dicembre scorso in Connecticut, quando un giovane di chiara origine italo-americana, Adam Lanza, ha compiuto una strage in una tranquilla e amena cittadina della buona borghesia newyorchese.

Così la recente uccisone ad aprile di una bambina nel Kentucky da parte del fratellino, al quale era stato regalato un fucile, si giustifica solo come un deprecabile incidente dato che l’arma era stata legalmente reclamizzata e venduta perché destinata appositamente ai minori.

La Nationalrifle association (Nra), che promuove e difende il diritto dei privati ad avere le armi per uso personale, è nata nel 1871 e conta circa 4 milioni e mezzo di aderenti talmente decisi che sul loro sito ufficiale non hanno timore di accusare il presidente Obama di esprimere una posizione «elitaria e ipocrita», dato che le sue figlie godono di un’iper protezione armata da parte della migliore polizia del mondo. Piuttosto che mettere dei divieti bisognerebbe, secondo la Nra, offrire a tutti la possibilità della difesa adeguata. Il giovane Lanza, che ha usato le armi intestate tra l’altro alla madre, avrebbe dovuto incontrare la resistenza di fuoco da parte delle guardie della scuola o delle stesse sei maestre perite con 20 alunni della Sandy Hook elementary school. Negli Usa circolano già oltre 300 milioni di armi a disposizione dei privati.

La libertà del singolo e il mito della Nazione
Come ha affermato Chris Cox, uno dei leader della Nra, durante la convention nazionale tenutasi ad aprile a Houston in Texas, «i nostri oppositori usano le tragedie per limitare la libertà e sta a noi fermarli. Siamo la più grande speranza della libertà, il suo più grande esercito e il suo più fulgido futuro».

L’associazione ha larga capacità di manovra perché raccoglie dai vari sostenitori circa 600 mila dollari al mese, ma la sua vera forza si trova nella “Dichiarazione dei diritti” che raggruppa i primi dieci emendamenti al testo stringato (un preambolo e sette articoli) della Costituzione degli Usa del 1791. Come invita a riconoscere Massimo Teodori, storico esponente radicale e docente universitario di Storia americana alla Luiss di Confindustria, nel testo del secondo emendamento, che prevede il diritto individuale a portare armi, si esprime il sentire comune di quell’America, vecchia e nuova, «basata sulla preminenza delle libertà individuali rispetto allo Stato».

Il sentimento popolare dell’autodifesa personale si collega con l’affermazione libertaria «alla Jefferson» dei diritti individuali del Settecento che sono alla radice del libero commercio. Se analizziamo il testo letterale («Essendo necessaria alla sicurezza di uno Stato libero una ben organizzata “militia”, non si potrà violare il diritto dei cittadini di possedere e portare armi») si potrebbero tentare diverse interpretazioni con quel riferimento ad un contesto storico che sembra superato perché evoca l’antico diritto anglosassone (il “posse comitatus”) dello sceriffo che può assoldare uomini in armi per funzioni di ordine pubblico, come tanti film western ci hanno illustrato, ma la versione estesa e prevalente adottata nella società americana, soprattutto in ambiti poco conosciuti dai media, ci impone l’esigenza di approfondire le ragioni di una tale scelta.

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