Appello dei Nobel per scongiurare la guerra

L’istanza ragionevole di 50 premi Nobel di diverse discipline a favore di una riduzione delle spese militari cresciute nel mondo dai 1.022 miliardi di dollari nel 2000 ai 1.960 miliardi nel 2020. La proposta di destinare i soldi risparmiati a favore della riconversione economica e per la soluzione dei gravi problemi dell’umanità
Appello Nobel sulle armi. Foto esercito indiano (Vadim Savitskiy/Russian Defense Ministry Press Service via AP)

Oltre cinquanta premi Nobel e presidenti di accademie scientifiche hanno firmato un comune appello per la riduzione del 2% della spesa militare mondiale. Queste personalità, che hanno ricevuto il massimo riconoscimento mondiale per la medicina, l’economia, la letteratura, la chimica, la fisica ed altro, mostrano una forte preoccupazione per l’aumento costante delle spese militari e si fanno interpreti delle voci preoccupate che si levano da ogni parte del mondo, di fronte ad una corsa agli armamenti che non promette nulla di buono.

Cosa propongono esattamente? La proposta è articolata. In primo luogo, chiedono che i governi di tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite negozino una riduzione congiunta delle loro spese militari del 2% ogni anno per cinque anni.

In secondo luogo, la somma risparmiata potrebbe essere divisa a metà: il 50% di questi miliardi dovrebbe confluire in un fondo globale, sotto la supervisione delle Nazioni Unite, per tentare di risolvere i gravi problemi comuni dell’umanità come le pandemie, i cambiamenti climatici e la povertà estrema.

In terzo luogo, la parte restante sarebbe a disposizione dei singoli governi, che li potrebbero riutilizzare, ad esempio, per la riconversione industriale delle aziende belliche verso una produzione civile.

Questa decisione farebbe sì che le nazioni avversarie, riducendo la spesa militare, invierebbero segnali distensivi e aumenterebbero contemporaneamente la sicurezza di ogni Paese, preservando la deterrenza e l’equilibrio. Tale accordo contribuirebbe a ridurre le tensioni e il relativo rischio di guerra. Il risparmio di tali risorse ammonterebbe a ben 1.000 miliardi di dollari entro il 2030.

Gli autori dell’appello rilevano che esso non è utopico, dato che nella storia recente, ad esempio, gli accordi per limitare la proliferazione delle armi (come i trattati SALT e START) hanno fatto sì che Stati Uniti e Unione Sovietica riducessero significativamente i propri arsenali nucleari a partire dagli anni Ottanta, epoca in cui si arrivava a circa 70.000 testate. Oggi tali arsenali in mano statunitense e russa arrivano peraltro a 12.000, di cui 3.200 comunque minacciosamente operative.

I dati sulla spesa militare mondiale sono sempre più preoccupanti e segnalano una crescente tensione internazionale. Premesso che non è facile avere informazioni adeguate a livello globale su queste spese, qualche dato per capire cosa sta succedendo ce lo offre il prestigioso SIPRI di Stoccolma.

Se nel 2000 si spendevano 1.022 miliardi di dollari, già dieci anni dopo nel 2009 si era giunti a ben 1.754 per poi salire a 1.960 nel 2020 (anno della pandemia da Covid19 e di una drammatica crisi economica).

Questa corsa all’aumento delle spese per la difesa è connessa soprattutto all’incremento attuato da Stati Uniti e Cina: i primi hanno raggiunto i 778 miliardi di dollari nel 2020 (con una crescita del 4,4% rispetto al 2019), mentre la seconda è arrivata a 252 miliardi di dollari nel 2020, con un aumento dell’1,9% rispetto al 2019 e del 76% rispetto al 2011.

Va ricordato che Pechino, che sta incrementando la sua spesa in modo continuativo da 26 anni, spende comunque 175,3 dollari pro capite (per 1,4 miliardo di persone) a fronte dei 2.351,1 dollari pro capite (per 330 milioni di abitanti) degli USA.

Con 72,9 miliardi di dollari al terzo posto si colloca l’India, che ha aumentato del 2,1% rispetto all’anno precedente, mentre al quarto posto troviamo la Russia con 61,7 miliardi di dollari (meno di un decimo di quella statunitense), con un incremento del 2,5% rispetto al 2019. Al quinto posto vi è la Gran Bretagna che ha aumentato la sua spesa militare del 2,9% nel 2020.

Se i primi cinque Paesi suddetti coprono il 62% delle spese militari mondiali, i dieci successivi coprono circa un quinto del totale, mentre gli altri 180 stati rimanenti arrivano tutti insieme al quinto restante.

 

Spese militari mondiali: i primi 15 paesi (%)

 

USA 39
Cina 13
India 3,7
Russia 3,1
GB 3
Arabia Saudita 2,9
Germania 2,7
Francia 2,7
Giappone 2,5
Corea S. 2,3
Italia 1,5
Australia 1,4
Canada 1,1
Israele 1,1
Brasile 1
Altri 19

 

Fonte: nostra elaborazione su dati SIPRI 2021

Inoltre appare preoccupante la continua e pressante richiesta statunitense agli alleati della NATO per un incremento delle spese militari del 2%, che sta progressivamente trovando riscontro nei bilanci dei singoli stati.

Per l’Italia nel 2022, ad esempio, secondo i calcoli sulla spesa militare complessiva fatti dall’Osservatorio Mil€x, già si parla di un aumento di 1,35 miliardi del Bilancio del Ministero della Difesa (+5,4%). Con una spesa globale di 25,82 miliardi di euro si arriva ad un aumento del 3,4% rispetto al 2021 che rappresenta una crescita di quasi il 20% in 3 anni.

In particolare si rileva un miliardo in più per l’acquisto di nuovi armamenti, giungendo a «8,27 miliardi complessivi (record storico) in aumento del 13,8% rispetto all’anno scorso, con un salto del 73,6% negli ultimi tre anni (+3,512 miliardi rispetto ai 4,767 miliardi del 2019)».

A cosa servono tutte queste spese per armamenti? La tensione crescente nell’area del Pacifico asiatico, testimoniata dal recente patto Aukus tra Australia, Gran Bretagna e Stati Uniti con la fornitura americana poi di sottomarini a propulsione nucleare a Canberra, la dice lunga sul clima che si respira. Le minacce di Pechino nei confronti di Taiwan aggravano la crisi e si rischia che l’esibizione di muscoli, dotati sempre più di ingenti quantitativi di armi di tipo convenzionale e nucleare, possa far degenerare la nuova guerra fredda in un vero e proprio scontro tra le potenze.

La voce dei premi Nobel, che di fatto si unisce a quella di papa Francesco, non deve rimanere isolata, ma deve diventare un progetto politico di sopravvivenza di fronte ad un mondo che ha già abbastanza problemi tra pandemia, cambiamenti climatici e povertà.

 

 

 

 

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