Amazzonia: vicini al punto di irreversibilità

Anche il panel di scienziati che vigila sul polmone del mondo, la foresta amazzonica, comincia ad usare espressioni come “punto di non ritorno”. I popoli indigeni sono un fattore chiave per la preservazione.
Indigenous protesters hold a sign that reads in Portuguese "Invest in a fair energy transition" outside the BTG Pactual Bank in Sao Paulo, Brazil, Friday, Nov. 5, 2021. Protesters want the bank to stop giving loans to companies involved in gas and oil development in the Amazon. (AP Photo/Marcelo Chello)

Un grido di allerta si lancia quando un pericolo è prossimo, ma quando ormai il pericolo è diventato una realtà minacciosa, l’allarme non serve più: si informa di cosa sta accadendo. Di allerta sull’Amazzonia, polmone del mondo, ne sono stati lanciati a decine. Il problema è prendere decisioni, perché stiamo parlando di un immenso ecosistema, 6,7 milioni di kilometri quadrati di selva che regola umidità, piogge, riserve d’acqua, temperatura e biodiversità. L’umida selva dal calore asfissiante paradossalmente fa parte di un sistema interconnesso che finisce per conservare anche i gelidi ghiacciai andini. Comprometterne questi delicati meccanismi è quanto meno da irresponsabili. Eppure, leader spesso accecati da un atteggiamento negazionista, che quando non risponde all’ignoranza lo fa alla mala fede, continuano a consentire lo scempio. Solo in Brasile, gli ultimi quindici anni rappresentano il record della deforestazione. L’argomento addotto è in genere quello di favorire l’economia, ma si tratta dello sviluppo di alcuni, come se gli squilibri ambientali non avessero poi il loro risvolto in costi economici a spese di tutti.

Il panel di scienziati per l’Amazzonia (Pca la sua sigla in spagnolo) avverte da tempo del pericolo. Ma oggi il limite delle grida di allerta è stato superato. Più di 200 scienziati ci fanno sapere che circa il 17% dei boschi amazzonici sono stati convertiti ad un altro uso della terra e almeno un 17% sono stati degradati. Durante più di un anno, gli esperti hanno realizzato uno studio di cooperazione accademica internazionale (a volte la globalizzazione funziona), che ha consentito di elaborare una ricerca olistica ed integrale dello stato dell’Amazzonia. Uno dei risultati dello studio comparato ci dice che tra il 1995 ed il 2017, una superficie di poco superiore a quella dell’Italia, 366.000 kilometri quadrati, di boschi è stata degradata. Per gli esperti, in un futuro prossimo, se la deforestazione raggiunge il 20 – 25% dell’area totale di foreste, il processo di conversione della selva in una savana potrebbe diventare irreversibile. Due fattori circostanziali lo favorirebbero: l’incremento della temperatura globale e la vulnerabilità agli incendi, spiega a Deutche Welle il vicepresidente del Pca, il brasiliano Carlos Nobre. Lo scienziato colombiano Germán Poveda, tra i direttori d’area del panel, da parte sua, usa il termine “punto di non ritorno”, una parola che nessuno vorrebbe mai ascoltare. «Rompendo l’equilibrio dell’acqua, dell’energia e del carbonio del bacino amazzonico, si indebolirebbe il trasporto di umidità dei fiumi aerei e dei getti di venti superficiali in Sudamerica, che diminuirebbero lo spostamento di umidità verso le Ande», dunque riducendo le nevi che poi contribuiscono ad alimentare i corsi d’acqua essenziali. Per città come Quito (Ecuador), Bogotà (Colombia), La Paz (Bolivia), Lima (Perú), tutte metropoli di grandi dimensioni, il rifornimento di acqua entrerebbe in una fase a rischio. La presenza di continui incedi forestali, spesso provocati per disboscare aree da destinare alla produzione agricola, altererebbe la qualità dell’acqua e dell’aria, anche nell’immenso bacino acquifero del Río de la Plata, a sud.

Ma il dossier compilato dal Pca non si limita ad informare sul deterioramento della regione amazzonica, offre anzi ben 34 raccomandazioni per cercare di invertire la tendenza prodotta da 50 anni di distruzione e degrado. C’è bisogno prima di tutto di frenare drasticamente a zero la deforestazione e il degrado in tutta la regione prima del 2030. Un impegno sostenuto da tempo e siglato nell’ultima conferenza Cop26 di Glasgow, ma rivelatosi spesso in passato lettera morta, ammette Poveda.

Gli scienziati suggeriscono anche politiche di riforestazione e di restaurazione dei boschi, e insieme la protezione dei popoli indigeni della regione, cioè di coloro che hanno accumulato durante secoli le maggiori conoscenze sulla protezione e preservazione di questo patrimonio naturale. Sono proprio loro, spesso umiliati ed offesi, la prima vera barriera socioculturale alla trasformazione scriteriata che sta provocando tanti danni, perché hanno imparato a vivere con la selva e non solo della selva.

I più letti della settimana

Chiara D’Urbano nella APP di CN

La forte fede degli atei

Mediterraneo di fraternità

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons