Addio Pina Bausch

Scomparsa improvvisamente la grande coreografa tedesca il cui "teatro-danza" ha rivoluzionato la scena del Novecento.

Grandi occhi incorniciati da un viso severo. Dolcissima nello sguardo e nei gesti. Austera. Fisico sottile, sempre avvolto in vestiti scuri, coi lunghi capelli raccolti a coda di cavallo. Appassionata del suo lavoro. Ha guardato e interpretato l’uomo, il mondo e le sue città, come nessun altro sguardo ha saputo fare. Traducendolo, poi, in creazione con la sua straordinaria compagnia cosmopolita, il Tanztheater Wuppertal, non smetteva mai di continuare ad osservarlo assistendo ogni sera alla rappresentazione dalla platea. «Perché – diceva – ogni giorno ci si sente in un modo diverso. Ed io stessa mi scopro sentimenti nuovi».

Ci ha lasciato l’artista che più di tutti ha rivoluzionato il teatro di danza del Novecento. Punto di riferimento obbligato per generazioni di artisti. «Ora è tempo – come mi ha espresso commosso un amico e noto regista che si è nutrito della sua arte – di essere testimoni e continuare a credere in ciò che a lei abbiamo rubato».

Ho ancora vivo negli occhi il suo ingresso nel grande stanzone ingombro di sedie e di tavolini di Cafè Müller, coreografia storica del 1978. Con questo spettacolo, che di tanto in tanto riprendeva portandolo in giro per il mondo, si può dire ebbe inizio una parabola creativa ininterrotta, che divenne modello con cui, da allora in avanti, l’arte della scena del secolo appena trascorso ha dovuto fare i conti.

Ho fatto in tempo a vedere proprio Cafè Müller lo scorso anno. E ne conservo un’emozione indelebile. Nell’intensità scardinante del movimento la Bausch, scalza, in sottoveste quasi spettrale, con gli occhi sempre chiusi, si muove a tentoni lungo una parete. Dalle tenebre della memoria, inciampando in quei mobili, avanza barcollando. Sonnambula, o forse cieca, che si aggira nell’oscurità sulle sofferenze del mondo. A lei si contrappone un’altra figura speculare, anch’essa brancolante. E altre a cui ci si aggrappa spostando via via l’intralcio delle sedie. Sequenze ripetute, ossessive, che dicono il motivo dello spettacolo: l’inafferrabile equilibrio tra uomo e donna, della perenne aspirazione al contatto, all’amore. Sentimenti universali, interrogativi, affetti comuni a tutte le latitudini che ritroviamo in tutte le creazioni della Bausch. Dove ricerca d’amore, fragilità e conflitti di coppia, solitudine, sopraffazione, paure e desideri, ossessioni quotidiane, sono stati i temi ricorrenti.

Sono tasselli in libertà di un mosaico umano e geografico – come nei numerosi “omaggi” alle città del mondo – che si compone per accumulo fantastico ed emotivo di scene. Una danza di assoli strepitosi, di coppie e di gruppo, di sketch spiazzanti e ironici, disperati e lievi, di gesti teneri e surreali. Nelle creazioni della Bausch non bisogna cercare trame consequenziali, o narrazioni logiche, dal senso compiuto. Bisogna abbandonarsi al flusso dei gesti, alla scansione dei corpi in movimento, ai fulminanti contrasti, allo scorrere evocativo che immagini, scene, testi, e musiche, sanno suscitare in maniera indicibile.

 

La Bausch nei suoi lavori ha attinto sempre dal vissuto di fantasie e ricordi autobiografici dei suoi “danzattori”, coniugando dimensione intima e sociale, tic quotidiani e segni comportamentali, banalità e luoghi comuni. Sempre dentro un’estetica fortemente espressiva dove la danza esplode dalla gestualità teatrale. E trasfigura tutto. «Danziamo le relazioni fra le persone. Danziamo sempre qualcosa di noi, difficile da raccontare a parole», ebbe a dire durante la presentazione nove anni fa di O Dido, spettacolo dedicato a Roma. E continuava: «Siamo lì, sul palcoscenico, per ridere, per avere paura, per gioire. Per essere insieme, e mai per la distruzione. Per porci domande. È la vita che dà le risposte». Dai suoi spettacoli si esce traboccanti di emozioni, coinvolti e sazi di visioni che ricompongono dentro di noi un’armonia inattesa. Riconciliandoci, spesso, con la vita.

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