80 anni fa le leggi razziali

Il 5 settembre 1938 il re Vittorio Emanuele III firmò il decreto. Una pagina dura per la storia del nostro Paese. Una pagina che oggi torna di scottante attualità.

«Mi dia due settimane di ministero dell’Interno e ne espello cento al giorno. Perché sono troppi». Era il 24 gennaio del 2018 e Matteo Salvini, leader della Lega, a poche settimane dal voto per le elezioni politiche, così si esprimeva nel corso della trasmissione de “La7” “Di martedì”.

Parole dure, che suscitarono un applauso nella platea. L’intolleranza verso gli immigrati, negli ultimi anni, è cresciuta. È andata di pari passo con la crisi economica, con il dilagare di crescente povertà, con l’aumento della sperequazione economica, con l’incremento della pressione fiscale, che diventa pressoché insostenibile nei confronti di famiglie monoreddito, specie quando queste hanno perduto il lavoro. L’immigrato è il “concorrente” verso un lavoro che non c’è e spesso si accontenta di paghe più basse (in nero), che fanno da pendant ai continui licenziamenti.

Ospite di Giovanni Floris, Salvini precisò di essere d’accordo con «un’immigrazione limitata, controllata e qualificata, come in Svizzera, Canada, Australia. Se aiuti il mio Paese a crescere, sei il benvenuto. Ma, con cinque milioni di italiani disoccupati, che vivono in povertà, io prima penso agli italiani in difficoltà».

Il primato degli italiani: parole dure che stanno attraversando, sotto forme diverse, le regioni del Belpaese. Facendo crescere intolleranza e odio razziale.

Il 15 gennaio scorso, Attilio Fontana, ex sindaco di Varese, candidato alle elezioni regionali lombarde, parlò di «razza bianca a rischio». Le sue parole suscitarono reazione e sdegno, poi caddero nel dimenticatoio. Il 26 marzo Fontana venne poi eletto governatore della Lombardia.

Nel suo blog, in questi giorni, Marcello Veneziani afferma: «Il ministro dell’interno fa il suo dovere, oltre che il suo mandato elettorale, di salvaguardare i confini della nazione come è previsto dalla Costituzione, tutelare gli italiani, respingere gli arrivi clandestini, ribadire che i migranti non sbarcano in Italia ma in Europa”.

Ne abbiamo scelto solo alcune, di queste affermazioni. Sono forti, dure, forse mai sentite con questi toni nella nostra Italia. Forse… o forse no…

Ottant’anni fa, furono promulgate le leggi razziali. Il 5 settembre 1938 il re Vittorio Emanuele III firmò il decreto. Una pagina dura per la storia del nostro Paese. Una pagina che oggi torna di scottante attualità. Perché i popoli si muovono, talvolta, sull’onda di una crescente emotività.

Un anniversario che è caduto qualche giorno fa. Chi allora firmò lo fece quasi senza traumi, il Paese subì in silenzio. Altri tempi: le notizie non correvano sulle strade dei social network. Poi venne la consapevolezza, si aprirono gli occhi su sette anni di persecuzioni e di morti, anche nei campi di concentramenti nazisti, o nei pochi (per fortuna) nati in Italia.

Pochi tra coloro che vivono questo controverso 2018 hanno memoria storica di ciò che accadde negli anni ’30. Anche quelli erano anni difficili per l’Italia ed il mostro della guerra si agitava all’orizzonte. Si dipingeva il sogno di un’Italia imperiale mentre si perseguivano importanti obiettivi per la popolazione (la bonifica di ampie zone agricole, la scolarizzazione, eccetera). Ma si viaggiava soprattutto sulle strade di una forte pressione ideologica che spingeva le masse a distogliere lo sguardo da alcuni problemi reali, individuando come nemico chi era di una “razza diversa”. Nacquero le leggi razziali, le scuole vietate a chi era di razza ebrea, i negozi ed i cinema aperti solo agli ariani.

E oggi? Sono passati ottant’anni. Le leggi razziali sembrano un lontano ricordo, ma forse non è così. Citiamo solo un esempio. Un anno fa, il comune di Pontida istituì i “parcheggi rosa”, destinandoli alle donne in dolce attesa, appartenenti a un nucleo familiare naturale, cittadine italiane o dell’Unione Europea, residenti a Pontida. Escluse, dunque, le omosessuali e le straniere del Nord Africa. Il regolamento fece discutere.

È questa l’Italia che vogliamo?

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