Cittadini e comunità protagonisti della democrazia europea

I cittadini devono poter dire la loro. Le elezioni sono un’occasione da non sprecare. L’unità europea è l’unica possibilità che abbiamo per consentire alla nostra civiltà di reggere l’urto e la velocità delle trasformazioni, per mantenere l’ambizione di guidarle, per parlare ancora al mondo volendo trasmettere qualcosa di prezioso. Pubblichiamo l'opinione del giornalista Claudio Sardo attraverso il suo intervento all'incontro "Insieme per l'Europa"
ph Pixabay

Testo dall’intervento all’incontro promosso a Roma da Insieme per l’Europa il 10 maggio 2024

L’Europa è il nostro presente e il nostro futuro. Il mito della nazione è il passato. Nonostante qualcuno, maldestramente, cerchi di negarlo. Anche questa vostra bellissima esperienza dimostra che, per noi tutti, oggi qualunque discorso compiuto di comunità non può che avere un respiro europeo.

L’Europa è più dell’Unione europea. L’Europa è più dell’euro. L’Europa è più dei confini caduti grazie agli accordi di Schengen. L’Europa è una civiltà, un grande patrimonio etico e sociale. Nella dimensione culturale e spirituale europea ha preso forma la nostra idea di umanità, di primato della persona, di libertà della coscienza, di trascendenza, di uguaglianza tra gli esseri umani.

Permettetemi una citazione di David Sassoli, scomparso due anni e mezzo fa mentre era presidente del Parlamento europeo: «In Europa nessun governo può uccidere – disse nel suo primo discorso nell’aula di Strasburgo subito dopo l’elezione –. Il valore della persona e la sua dignità sono il nostro modo per misurare le nostre politiche… Da noi nessuno può tappare la bocca agli oppositori. I nostri governi e le istituzioni europee che li rappresentano sono il frutto della democrazia e di libere elezioni… Nessuno può essere condannato per la propria fede religiosa, politica, filosofica… Da noi ragazze e ragazzi possono viaggiare, studiare, amare senza costrizioni… Nessun europeo può essere umiliato ed emarginato per il proprio orientamento sessuale… Nello spazio europeo, con modalità diverse, la protezione sociale è parte della nostra identità, la difesa della vita di chiunque si trovi in pericolo è un dovere stabilito dai nostri Trattati e delle Convenzioni internazionali che abbiamo stipulato…».

È lo spirito europeo nel quale siamo cresciuti, l’aria che respiriamo. A volte la pigrizia può indurci a ritenere che sia tutto scontato, naturale, che non potrebbe che essere così. Invece, non ci sono punti finali, definitivi nella storia.

Occorre tuttavia responsabilità, coscienza, desiderio di futuro per scrivere il seguito della storia. I cristiani possono fornire un apporto prezioso. Emmanuel Mounier distingueva tra l’ottimismo storico di chi si affida ciecamente al progresso e l’”ottimismo tragico” dei cristiani – lo chiamava così – per i quali «il senso del progresso non si definisce al di fuori del paradosso della croce, e non esclude che al suo interno si scatenino fino all’ultimo giorno le catastrofi delle potenze infernali». Sia ben inteso: il crinale tragico, o apocalittico (come lo definiva Giorgio La Pira), non toglie al credente un grammo di speranza, e di impegno.

L’idea di Europa come entità civile e morale ha preso consistenza nel Settecento – cito gli studi di Federico Chabod – con l’Illuminismo e poi con il Romanticismo, ma non va dimenticato che le radici affondano in tempi ben più antichi. Risalgono alla Grecia, al mondo romano, e soprattutto al diffondersi del cristianesimo, prima, durante e dopo il Medioevo. Comunque l’idea di Europa si è sviluppata sin dai primordi senza poggiare su confini netti e stabili. L’Europa di Isocrate, ovvero l’Ellade, contrapposta all’Asia. L’Europa romana contrapposta ai barbari. L’Europa d’Occidente contrapposta all’Oriente. L’Europa della cristianità contrapposta ai popoli pagani. L’Europa romano-germanica distinta dalla Scizia, cioè dalla futura Russia. L’Europa che scopre il nuovo mondo, l’America. E poi conosce la diversità della Cina. L’Europa che, con l’America, compone il moderno Occidente.

Neppure oggi il confine geografico è ben definito. Non sono i confini a determinare l’identità europea. Chi vorrebbe alzare muri per difendere e respingere, si trova davanti contraddizioni non facilmente sanabili. Dove erigere il bastione del bunker dell’Europa se al di là della barriera ci sono ancora popoli che si sentono europei, che sognano l’Europa come loro destino, che ne fanno un modello ideale? Lo vediamo ai nostri giorni in diversi territori dell’est. Lo vediamo negli occhi di tanti migranti che affrontano rischi mortali e sofferenze indicibili pur di raggiungere una Terra finalmente di opportunità.

Edgar Morin ha scritto che proprio sulla mobilità dei suoi confini poggiano le fondamenta della civiltà europea personalista e comunitaria, che sa cogliere il valore inestimabile di ogni vita umana, che riconosce la libertà e i diritti universali, che parla di fraternità perché afferma l’uguaglianza. Per questo l’accoglienza e la solidarietà sono sentimenti europei, mentre alzare muri e respingere senza umanità costituiscono uno snaturamento di noi stessi.

La nostra civiltà è stata capace di dispiegare il principio democratico e lo ha fatto diventare regola di convivenza e motore di sviluppo, di benessere sociale. L’Europa è arrivata fino a proclamare l’imperfezione degli Stati. Proprio così: l’imperfezione dello Stato-ordinamento. Cos’altro vuol dire infatti la nostra Costituzione, all’articolo 3, quando fa obbligo alle istituzioni di rimuovere continuamente «gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana»?

Questo vuol dire: ciò che una volta era lo Stato assoluto, il sovrano incoronato in nome di Dio, ora è un sovrano imperfetto. Sottostà alla legge e ha compiti di servizio a cui non può derogare. Perché la democrazia è una costruzione continua, incessante. Lo squilibrio sociale è un ostacolo alla parità dei diritti e delle libertà, e qualcuno deve prendersi il compito di restituire le opportunità sottratte a chi ha di meno, a chi è svantaggiato.

La democrazia non è soltanto un insieme di leggi. È una strada verso una maggiore giustizia. Se non va in quella direzione, rischia di cadere. La democrazia non si raggiunge una volta per tutte. Non è al sicuro per sempre. Ha bisogno di coesione, di ridurre le distanze sociali, di accrescere la partecipazione. Perché altrimenti può sfiorire, può logorarsi, può perdere fiducia. Ricordo il celebre paradosso di Ernst-Wolfgang Böckenförde, giurista tedesco: «Lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che non può garantire: da una parte esso può esistere solo se la libertà si regola dall’interno, cioè a partire dalla sostanza morale dell’individuo; dall’altra però se lo Stato cerca di garantire da sé queste forze regolatrici interne esso rinuncia alla propria liberalità».

La qualità della democrazia dunque è strettamente connessa al grado di giustizia e di libertà, ma dipende anche dalla coscienza dei cittadini, dal modo di vivere della comunità, dai valori di solidarietà che insieme – comunità e cittadini – esprimono. Prima di qualunque regola.

La storia non è mai una linea retta. Procede spesso per salti, per rotture, per rinascite. La storia dell’Europa, a metà del Novecento, ha conosciuto l’abisso. Ed è risorta da quella catastrofe umana, forse la più grande mai vista sulla Terra. L’Europa ha toccato con mano la volontà di potenza, la follia razzista, la smania distruttrice divenute – come qualche grande pensatore ha scritto – una sfida oltraggiosa lanciata allo stesso Dio creatore. L’Europa che conosciamo è fiorita su una promessa di pace che i popoli e gli Stati si sono scambiati, dopo la Liberazione dal nazifascismo, affinché mai più le guerre calpestassero il suolo del nostro Continente, insanguinato per secoli.

Sulla pace è stata costruita la nuova Europa politica. Più fragile, più debole di quanto non fosse possibile, e forse anche necessario. Ma l’abiura del conflitto armato è da subito diventata pietra angolare di una inedita architettura civile. E lo scorrere dei decenni ha irrobustito sempre più il legame tra la pace e il modello europeo grazie alla crescita nella libertà e nella democrazia, alla costruzione del welfare state, all’espansione dei diritti individuali e sociali, alla diffusione delle conoscenze e dei saperi, all’accelerazione dell’economia, della tecnologia, della medicina.

La pace è anche il fulcro del messaggio dell’Europa al mondo. I pesi tra i Continenti stanno cambiando. L’Europa ha bisogno di ricostruire e rilanciare il proprio ruolo globale. Ma se il potere dell’Europa è un potere dolce, un soft power, è lecito temere che possa svanire senza un orizzonte di pace.

Oggi siamo sgomenti davanti alle guerre che si combattono alle porte delle nostre case. L’aggressione della Russia all’Ucraina. La violenza terroristica scatenata da Hamas contro gli israeliani. La reazione inaccettabile di Israele ai danni della popolazione palestinese di Gaza. Guerre che ci interpellano, che ci riguardano, che ci colpiscono. Non possiamo tacere di fronte alla volontà di potenza così crudelmente manifestata e alla violazione del diritto internazionale. Non possiamo tacere davanti alla cieca violenza antisemita. Non possiamo tacere se la reazione assume il carattere di una distruzione indiscriminata e di uno sterminio di uomini, donne, bambini. Ma oggi è difficile persino dire queste tutte cose insieme senza essere tacciati di complicità con qualcuno degli aggressori.

Come evitare di disperdere il dividendo di pace conquistato in questi decenni? Come ricomporre un tessuto di dialogo, di rispetto, di cooperazione? Ai nostri giorni pare quasi impossibile. Nessuna delle guerre scoppiate nel mondo negli ultimi trent’anni si è conclusa con una pace. Le guerre, una volta aperte, continuano. Si fanno più o meno intense, ma non si fermano. E uccidono, distruggono, ingigantiscono i giacimenti di odio e rendono sempre più difficile la riconciliazione.

Viviamo una contraddizione lacerante. Da un lato sentiamo il dovere di difendere la libertà degli aggrediti perché sappiamo che la libertà non è divisibile: quando manca a qualcuno, alla fine si riduce per tutti. Dall’altro lato sappiamo che non possiamo fare a meno della pace, perché è giusto e umano, mentre invece è disumano sottrarre risorse allo sviluppo, all’impegno per la sostenibilità, alla lotta contro la fame per destinarle alla produzione di armi. In uno scenario di guerra, o di preparazione alla guerra, l’Europa rischia di perdere la coscienza di sé.

Non c’è Europa senza una missione di pace. Papa Francesco ha usato un’espressione bellissima: «L’Europa, grazie alla sua storia, rappresenta la memoria dell’umanità ed è perciò chiamata a interpretare il ruolo che le corrisponde: quello di unire i distanti, di accogliere al suo interno i popoli e di non lasciare nessuno per sempre nemico». Nessuno è nemico per sempre! Bisognerebbe gridarlo. La guerra è in sé un atto ostile verso l’Europa perché ne mina l’identità. E questo purtroppo non sfugge alle strategie antieuropee.

Occorre sconfiggere la guerra. Dal modo con cui l’Unione europea si muoverà per ricostruire e promuovere la pace insieme alla libertà dipenderà il suo destino. Personalmente non dubito del sostegno che l’Europa è chiamata a fornire alla resistenza ucraina. Penso anche che costruire una Difesa europea sia necessaria, nel processo di rafforzamento complessivo delle istituzioni del Continente: dall’unione fiscale allo sviluppo del mercato unico; dalla fine del potere di veto dei singoli Stati a politiche sempre più convergenti sull’economia, sui diritti, sull’ambiente; dal rafforzamento dei poteri democratici del Parlamento alla necessaria solidarietà sociale nel gestire le transizioni ecologica e digitale.

Il dilemma non è: Difesa comune sì o Difesa comune no. Il punto cruciale è la direzione di marcia. Qual è il traguardo? La vittoria dell’Europa – non bisogna avere paura di dirlo – è la pace, la cooperazione, l’affermazione del diritto, la costruzione di regole efficaci per far funzionare il multilateralismo. Non può esserci vittoria vera nel conflitto. Perché il conflitto si autoalimenta e la minaccia nucleare non è più un deterrente, ma una leva per forzare continuamente i limiti della guerra convenzionale. La guerra “è sempre una sconfitta”. La pace è la sola, necessaria via d’uscita.

Peraltro, la pace non è solo assenza di conflitto armato. La pace è più esigente. Non c’è pace senza giustizia. Non c’è pace se non si riconosce la pari dignità. Non c’è pace senza sviluppo e solidarietà. Non c’è pace senza un riequilibrio ambientale e sociale. L’ecologia integrale – che papa Francesco ha delineato nella Laudato si’ – è il nome nuovo della pace, il nome oggi più completo. Da europei aggiungiamo che l’assenza di pace può corrodere persino il tessuto della democrazia. La guerra suscita paura, determina chiusure, ostacola i commerci, aumenta i pregiudizi, allenta le maglie della solidarietà.

Nel linguaggio e nella logica di guerra ci sono propaganda, disprezzo, false verità.

Senza pace la democrazia fatica a diventare esempio, a riprodursi, a migliorarsi. Non si esporta la democrazia con le armi: ne abbiamo fatto tragica esperienza quando l’Occidente ha risposto al terrorismo islamista con la guerra in Iraq. La democrazia si può allargare con la coerenza, con la fedeltà allo Stato di diritto, con lo sviluppo senza sfruttamento. L’Accordo di Helsinki del 1974 è stato un propulsore di dialogo e di speranza. Penso che abbia contribuito alla fine della Guerra fredda in misura molto più rilevante di quanto non venga riconosciuto dalla pubblicistica prevalente. Nell’orizzonte dell’Europa non deve cancellarsi la speranza di una nuova Helsinki.

I cittadini e le comunità possono e devono diventare artefici del proprio futuro di libertà, di amicizia, di giustizia. Anche le istituzioni europee sono imperfette. Vanno riformate. La costruzione dell’Unione europea ha avuto lentezze e difficoltà molteplici. Ma ora è finita l’illusione, anche per gli Stati europei più forti, di poter giocare da soli nella serie A del mondo. Perché il mondo è cambiato.

L’unità europea è l’unica possibilità che abbiamo per consentire alla nostra civiltà di reggere l’urto e la velocità delle trasformazioni, per mantenere l’ambizione di guidarle, per parlare ancora al mondo volendo trasmettere qualcosa di prezioso. La globalizzazione, i progressi delle tecno-scienze, della robotica, della genetica, l’intelligenza artificiale, le comunicazioni sempre più veloci mettono in moto processi impetuosi. Gli stessi istituti tradizionali della democrazia vengono messi in discussione, e in parte svuotati del loro potere: oggi il potere reale, quello che incide sull’economia e sui modelli sociali, è spesso appannaggio di entità sovranazionali, prevalentemente di natura finanziaria. Gli Stati stessi, in molti campi, finiscono in balia di dinamiche che non riescono a controllare.

L’Europa è la nostra chance. La nostra speranza di democrazia e di libertà. A dispetto di vecchi slogan che ancora, purtroppo, circolano nell’attuale campagna elettorale, nessuno può davvero credere che la posta in gioco sia la percentuale del potere da suddividere tra l’Unione europea e i singoli Stati. La vera posta in gioco è quale politica farà l’Europa nei dossier decisivi. Quale sarà il suo indirizzo sulle scelte strategiche, sugli equilibri sociali e territoriali, quale la sua politica e i suoi programmi sulla sostenibilità ambientale. La necessaria transizione verde e digitale deve essere anche giusta. Ma la guerra rischia drammaticamente di distogliere attenzione e risorse dall’impegno urgente di consegnare alle nuove generazioni un pianeta vivibile.

I cittadini devono poter dire la loro. Le elezioni sono un’occasione da non sprecare. La distanza tra la democrazia rappresentativa e la partecipazione purtroppo si è allargata. Le proposte giunte alla Conferenza sul futuro dell’Europa attraverso i panel, fortemente voluti da David Sassoli e a cui hanno preso parte migliaia di cittadini europei, vanno riprese nella legislatura che sta per cominciare. La partecipazione di cittadini e comunità sarà decisiva per restituire all’Europa ciò che altrimenti perderebbe in seguito ai mutamenti geopolitici, economici, demografici.

La politica è un processo. Ma non c’è crescita democratica senza una passione popolare, senza il forte desiderio di un mondo migliore. Anche questo desiderio ha a che fare con lo spirito europeo. Gli avanzamenti della civiltà europea hanno spesso avuto come motore grandi idealità, visioni del futuro, utopie. Diceva Ernst Bloch, il filosofo tedesco che dialogava sulla speranza con il teologo Jurgen Moltman: «Un novum storico non è mai totalmente nuovo. Lo precede sempre un sogno o una promessa».

Non dobbiamo aver paura di pensare qualcosa che oggi pare impossibile. Pensare l’impossibile aiuta a rendere possibile, domani, un salto in avanti, una maggiore solidarietà, un progresso sociale.

L’Occidente, ha scritto Paolo Prodi in uno dei suoi ultimi saggi, è cresciuto come rivoluzione permanente, mettendo a frutto la sua capacità creativa di immaginare e progettare una società alternativa a quella presente. Questa caratteristica ha stimolato l’affermazione dell’Europa e la crescita del suo spirito. Oggi l’affanno che constatiamo in Europa dipende anche dalla difficoltà di sottrarsi alle insicurezze del nostro tempo e all’omologazione strisciante indotta da avvolgenti sistemi globali.

Se rinunciamo a pensare il futuro ci condanniamo a un eterno presente, che è anche l’habitat nel quale l’individualismo si propaga al meglio. Certo, non può esserci un’azione riformatrice senza una consapevolezza della realtà. Ma gli ideali non possono, non devono mai scomparire dietro la real politik.

Erano sognatori illusi Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi quando scrissero il Manifesto di Ventotene mentre erano reclusi dal fascismo? Erano visionari irrealisti i giovani che a Camaldoli elaborarono il famoso Codice, poi divenuto una delle più importanti matrici della nostra Costituzione repubblicana? Era un utopista fantasioso Robert Schuman quando pronunciò la dichiarazione – il 9 maggio del 1950 – che consideriamo l’atto di nascita della Comunità europea? Vorrei ricordare l’esordio di quella Dichiarazione: «La pace mondiale non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano». Lo sforzo creativo principale a cui alludeva Schuman era proprio la costituzione dell’Europa come nuova soggettività politica.

Ma per camminare l’Europa ha bisogno di unità. Lo sappiamo. Lo abbiamo visto al tempo del Covid, quando è stato violato il tabù del debito comune, quando per la prima volta in questo secolo è stata accantonata la politica rigorista e recessiva e si è aperta la strada a politiche economiche e sociali espansive e solidariste. Se vuole l’Europa può essere utile e vicina ai cittadini europei. Può rafforzare la sua dimensione sociale. Ovviamente l’Europa può anche arretrare, fermarsi. E in questi ultimi due anni qualche passo indietro purtroppo è stato fatto.

Direi che la fedeltà allo spirito europeo oggi si misura anche nella capacità di superare l’orizzonte del presente, nel rifiuto di considerarlo invalicabile. Un tema politico, ma a ben vedere anche una grande questione antropologica, che tocca il senso dell’esistenza.

La fede cristiana, le confessioni religiose possono dare un grande aiuto alla speranza. Alla speranza di credenti, non credenti, diversamente credenti. C’è una dimensione della trascendenza che riguarda ogni uomo: il desiderio di futuro, la responsabilità verso il domani. Siamo ancorati all’impegno e alla passione per la liberazione possibile nell’oggi, ma lanciamo il nostro sguardo oltre il tempo della nostra vita perché questo è il destino dell’uomo, questo è il percorso dell’umanità e della storia. Andare “oltre” è oggi una grande sfida per l’Europa. Sfida storica e politica. Non mancano le forze che vogliono fermare l’Europa. Forze interne ed esterne. Chi ostacola la sua unità, lavora per il declino europeo.

I popoli ormai sono continentali. Sentiamo il bisogno che prosperi la vocazione e il carisma dell’unità. Nelle forme che creativamente riusciremo a testimoniare.

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