Aung San Suu Kyi non è più in carcere

La situazione in Myanmar è alquanto volatile ed è difficile fare previsioni. Una cosa è certa: le forze che si oppongono al regime militare del generale Min Aunh Hlaing stanno guadagnando terreno giorno dopo giorno.
Un murale a Praga che chiede la liberazione di Aung San Su Kyi EPA/FILIP SINGER

Arrivare al confine fra Thailandia e Myanmar in questo periodo provoca una sensazione unica, inedita. In Thailandia le agenzie di stampa hanno battuto notizie contrastanti: ci si prepara ad un flusso di rifugiati che potrebbe arrivare a 100 mila persone. Così mi aspettavo controlli ai check points, lungo la strada, invece nulla. Ad uno dei posti di blocco, il militare thailandese mi chiede: «Hai passeggeri nel tuo pulmino?». Rispondo: «Solo aiuti da distribuire». E mi lascia passare senza aggiungere altro. Come è accaduto spesso negli ultimi anni: nessuna emergenza o allarmismo.

Stamattina, al mercato che costeggia la frontiera fra Thailandia e Myanmar tutto era tranquillo: solo alcune camionette di militari thai che sorvegliano il ponte che porta in Myanmar. Il valico è ormai caduto nelle mani dei Karenni, che lo hanno strappato dal Tatmadaw (l’esercito del regime), ed hanno issato, al posto della bandiera del generale, la loro. Il pedaggio per le merci ora andrà nelle loro casse. Situazione tranquilla e nessun esodo di rifugiati. Il solito tran tran, mi dice la signora che vende oggetti di artigianato.

La settimana scorsa Myawaddy, la città birmana appena al di là del confine, è caduta nelle mani del Knu (Karen National Union), uno degli eserciti etnici da sempre in lotta per l’indipendenza. Mai era accaduta una cosa del genere da quando bazzico in questa regione, più di 40 anni.

E proprio ieri si è diffusa la notizia che Aung San Suu Kyi, “the lady”, premio nobel per la pace 1991, è stata scarcerata e riportata agli arresti domicialiari. Si dice che la “donna di ferro” o “l’orchidea di ferro” in questi 3 anni di carcere sia stata come sempre “di ferro”, rifiutando perfino l’aria condizionata. «Date l’aria condizionata agli altri prigionieri e poi potrete metterla anche nella mia cella», sembra che abbia detto poco tempo fa.

Cosa rappresenta oggi Aung San Suu Kyi? Perchè sarebbe stata riportata agli arresti dominciliari? Alcuni analisti politici della regione leggono il fatto in questo modo: il generale Min Aung Hlaing è sempre più isolato anche all’interno della sua cerchia di militari, la sua politica del pugno di ferro è completamente fallita. Il colpo di stato del 1° febbraio 2021 si è rivelato un colpo di testa guidato dalla sua avidità e scarsa lungimiranza.

Il Paese è ripiombato nella guerra civile ma le forze di opposizione, questa volta, hanno dato vita ad un nuovo protagonista, che va oltre gli eserciti etnici da sempre operanti: il people defence force (Pdf), cioè gente comune di qualsiasi etnia, ceto ed età che combatte per la libertà; e poi la nascita in esilio di un governo di unità nazionale, il Nug, cosa anche questa mai successa. Il fatto scatenante sono state le alleanze dei vari eserciti etnici tra loro, in regioni che hanno deciso di combattere insieme il feroce e agguerrito esercito Tatmadaw del generale Min Aung Hlaing. Così, dopo il lancio ed il successo dell’operazione militare 1027 (27 ottobre) dello scorso anno, il generale ed i suoi colleghi golpisti si sono visti conquistare postazione dopo postazione ed hanno collezionato solo sconfitte e ritirate.

In questo ultimo mese i valichi di frontiera con l’India, il Bangladesh, la Cina, e per ultimo con la Thailandia, sono caduti nelle mani delle forze etniche. Rimangono ben poche carte in mano al generale, anzi solo due: la Cina e Aung San Suu Kyi. Questo per cercare una mediazione, una resa salvafaccia per mantenere una qualche presa sul potere ed evitare la rovinosa e completa sconfitta che lo porterebbe davanti ad un tribunale militare, con una sola possibilità di verdetto: l’esecuzione capitale. Personalmente penso che il discorso sia ormai da porre in questi termini: la Cina ha interesse a trattare con un Myanmar in pace per poter sfruttare i suoi importanti porti, le risorse naturali di cui il Paese è ricchissimo e la manodopera a basso (troppo basso) costo. Gli alleati etnici vogliono un Paese libero ed a loro grato per libertà riconquistata, con la possibilità di ottenere in futuro basi militari in un territorio strategico e promettente a cavallo tra India e Cina.

Alla gente comune, a coloro che combattono, al Pdf a cui va anche una certa simpatia e approvazione, interessa la pace, la libertà: un Myanmar libero da colonizzatori e lotte interne. Questo è il vero obbiettivo. Speriamo che la semilibertà concessa in questi giorni ad Aung San Suu Kyi rappresenti un primo passo: lei potrebbe forse rimettere insieme il Paese (come ha fatto in passato) e fermare la carneficina. Perché the lady, la donna di ferro, incarna da sempre questo simbolo: unità nazionale, speranza e pace.

Sostieni l’informazione libera di Città Nuova! Come? Scopri le nostre rivistei corsi di formazione agile e i nostri progetti. Insieme possiamo fare la differenza! Per informazioni: rete@cittanuova.it

I più letti della settimana

Nonni

Grazie, nonni!

Digiunare per la pace

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons