Violenza di genere e semplificazioni frettolose

C’è una descrizione della realtà che non mette in discussione lo status quo dei privilegi maschili. Quale cultura alimenta determinati comportamenti? Chi trae vantaggio dalla differenza di potere tra uomini e donne? Coraggio, lavoriamo anche sull’immagine del maschile
Foto Alessandro Garofalo/LaPresse 23-11-2023

La vicenda di Filippo Turetta e Giulia Cecchettin ha scosso notevolmente l’opinione pubblica italiana e forse è riuscita laddove centinaia di morti precedenti non sono riuscite, ossia a dare uno scossone anche al mondo politico affinché quanto prima si prendano misure adeguate in campo educativo.

Eppure le analisi e i commenti che si sono susseguiti dopo il ritrovamento del corpo della ragazza hanno molto spesso presentato delle visioni semplicistiche di un fenomeno che è in realtà molto più complesso, perché culturale. Anche le letture psicologiche delle vite dei protagonisti e le soluzioni indicate alle donne che si trovano in situazioni analoghe, pur non essendo sbagliate in assoluto, riflettono quella che è una semplificazione della realtà che non mette in discussione lo status quo dei privilegi maschili, finendo con l’addossare alle donne fin troppa responsabilità e mettendo al contempo gli uomini al riparo da un doveroso esame di coscienza.

Se la violenza di genere è un fenomeno complesso e di natura culturale, allora è necessario analizzare la cultura che alimenta determinati comportamenti, con l’aiuto di uomini che abbiano l’umiltà di ascoltare le donne, che non si arroghino il diritto di dirci cosa è meglio per noi, che siano disposti a comprendere il contesto che li ha resi detentori di privilegi ingiustificati.

Il problema della violenza non riguarda solo chi la agisce nel concreto, ma tutti coloro che dalla differenza di potere tra uomini e donne hanno tratto vantaggio, spesso senza nemmeno rendersene conto. Questo significa anche che gli uomini violenti non sono semplicemente emotivamente immaturi, così come non sono dei mostri da cui guardarsi le spalle. Relegare tale violenza ad un gruppo di persone che sono “diverse” dagli altri (proprio perché in qualche misura malati) significa che quel problema non riguarda tutti gli uomini, significa in altre parole porsi al sicuro dalla necessità di mettersi in discussione.

La realtà è che gli uomini che agiscono violenze e soprusi non sono mostri, bensì figli (sani) di una cultura maschilista che vede la donna a disposizione dell’uomo e la reputa un suo possesso. E per quanto possano avere delle fragilità a livello psichico, restano dei rappresentanti di una cultura che più o meno velatamente sostiene determinati pensieri e i conseguenti comportamenti (basti pensare a quello che passa nei testi di molte canzoni, tanto per fare un esempio).

Se dare la colpa ai mostri è un buon metodo per non mettersi in discussione, non lo è da meno l’idea di dire alle donne che devono imparare a proteggersi, come se non lo facessero già da una vita intera! Sin da piccole impariamo a proteggerci per poter sopravvivere in un mondo che non sembra fatto per noi. Affermare che le donne debbono saper proteggersi, può facilmente trasformarsi nel renderle responsabili di quello che di brutto accade loro, eppure laddove ci sono donne che riconoscono di essere all’interno di relazioni tossiche, che escono da quelle relazioni, magari denunciando l’ex-compagno, e che comunque vengono uccise o sono vittime di altre brutali violenze, appare evidente che non basta scappare da relazioni malate.[1]

Il problema, infatti, è la violenza maschile e di quel problema ci si deve occupare, anzi di quel problema gli uomini devono occuparsi, perché le donne hanno il diritto di muoversi in sicurezza nel mondo, al pari di quello che loro possono da sempre fare. La soluzione, quindi, non può esaurirsi nell’invitare le donne a fare attenzione ai sintomi di una relazione malata e a scappare quando li trovano, così come non lo è dire loro di non vestirsi in modo succinto e non ubriacarsi quando escono per evitare uno stupro.

Sono entrambi consigli utili senza dubbio, ma purtroppo nessuno dei due è risolutivo, come dimostrano tutti i quei casi in cui applicarli non ha garantito l’incolumità: l’unica soluzione che ha senso è educare gli uomini a non essere violenti, è cambiare la cultura che nutre la violenza maschile. Anche perché con la protezione possiamo rendere sicura (e non sempre è così) una donna, ma se lavoriamo sulla cultura possiamo rendere sicure tutte le donne!

Come finalmente da più parti si sta comprendendo, l’unico modo per lavorare su questa cultura da cambiare è agire a livello educativo e il modo migliore per lavorare a tale livello è entrare nelle scuole, perché solo così è possibile arrivare a tutta la nuova generazione. Questo significa che le famiglie dovranno delegare il loro compito alla scuola, come qualcuno teme? Assolutamente no!

Le famiglie sono e restano la prima agenzia educativa: la scuola non potrà mai sostituirsi ad esse, eppure se l’educazione impartita fino ad oggi in famiglia ha portato ai risultati che vediamo ogni giorno in tv o sui giornali, direi che ci siano pochi dubbi sul fatto che siamo davanti ad un misero fallimento. Molte famiglie sono, infatti, portatrici inconsapevoli della mentalità patriarcale che va cambiata: come potrebbero educare a qualcosa di diverso? Se i genitori per primi non hanno competenza emotiva (giusto per fare un esempio riportato in questi giorni), come possono trasmetterla ai figli?

È per questo motivo che diventa necessario agire a livello più istituzionale, all’interno delle scuole e con l’aiuto di esperti del settore, in modo da raggiungere anche quei bambini e quei ragazzi che in famiglia non sono esposti a modelli positivi. Non si vuole mettere in discussione il ruolo educativo delle famiglie, ma probabilmente per poter educare in modo sano dovrebbero prima essere educate loro e per ovvi motivi è più facile raggiungere i figli – attraverso le scuole – che i genitori.

Certamente i percorsi di educazione affettiva che si vogliono portare nelle scuole costituiscono solo il primo passo per cambiare lo status quo: occorre, infatti, un’educazione integrale della persona, capace di far incamminare bambini e ragazzi verso la formazione di un’identità che garantisca il benessere personale e relazionale. Eppure iniziare dall’educazione delle emozioni non è un passo da sottovalutare, perché esse rappresentano una fetta importante e fin troppo spesso trascurata di ciò che siamo, che è parte essenziale delle problematicità alla base della violenza.

Come detto in apertura, la questione della violenza di genere è complessa e non ci si può improvvisare esperti in materia senza approfondirla con studi specifici, così come non si possono improntare interventi istituzionali che ambiscono ad essere preventivi senza ascoltare chi in questo ambito opera da decenni.

Negli ultimi decenni le donne hanno decostruito e iniziato a ricostruire il femminile, ora sta agli uomini fare lo stesso lavoro sull’immagine del maschile: solo così sarà possibile dare vita insieme – uomini e donne veramente liberi – a relazioni sane per tutti.

[1] Ci sono poi quelle situazioni in cui per le donne diventa impossibile allontanarsi dai compagni, situazioni che sono frutto di una mentalità e di una modalità di stare al mondo che hanno radici proprio nella cultura maschilista e patriarcale, situazioni che obiettivamente limitano la libertà della donna e per le quali si corre troppo spesso il rischio di colpevolizzare chi si è trovata ad esserne vittima, senza mai andare a colpire il ruolo del “carnefice”.

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