2007 tra incertezza e fiducia

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Nessuno possiede più sfere di cristallo. Quelle utili a predire il domani. Sembra perciò assai opportuno diffidare delle previsioni per l’interno 2007. Almeno in questo momento. La situazione internazionale e le vicende italiane sono così dense di incognite, che – maghi e cartomanti a parte – spingersi a prevedere il futuro risulta un vero azzardo. Gli esperti, tutt’al più, si sbilanciano riguardo al primo trimestre, o poco oltre. E fanno tesoro di quello che l’anno ormai trascorso ha lasciato in eredità. Le elezioni politiche dell’aprile 2006 hanno messo in evidenza un Paese diviso in due, con un centrosinistra e un centro-destra equivalenti. Altrettanto divaricata appare l’Italia degli stati d’animo, pur dopo la corsa agli acquisti natalizi e i sollazzi di fine anno. Da una parte, c’è l’ottimismo dei settori economici per i risultati raggiunti, dall’altra, permangono nella società incertezza e preoccupazione. Una situazione un po’ schizofrenica, che va interpretata. Magari iniziando a capire dove si radica la fiducia del comparto produttivo. Accelera il fatturato dell’industria e aumentano gli ordini di acquisto, ha comunicato l’Istat, l’istituto centrale di statistica, a metà dicembre. Nei primi dieci mesi del 2006, l’incremento del fatturato delle aziende italiane è aumentato del 9 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, e ben del 13,5 per cento in ottobre, ultimo mese della rilevazione. Consistenti gli incrementi delle produzioni in metallo (+26), dell’industria tessile e dell’abbigliamento (+20), dei trasporti (+19,5). Le imprese elettrotecniche ed elettroniche, ad esempio, sono tornate a crescere, dopo cinque anni di ininterrotto calo nella produzione dei settori dell’innovazione. Questo dato è positivo – ha commentato l’analista Marco Valli, di Ubm -. L’Italia ha fatto meglio dei maggiori paesi europei. Certo, non va dimenticato che la situazione del 2005 era particolarmente critica e, dunque, un miglioramento non indica una vera ripresa in atto. Genera, comunque, fiducia il fatto che i mercati esteri scommettano in misura crescente sui prodotti italiani, compreso il marchio Fiat. Il gruppo torinese, risalito il precipizio, ha appena stimato in due milioni, per il 2006, la vendita di auto nel mondo, 300 mila in più dell’anno precedente. La ripresa c’è, dicono i dati. Le esportazioni nel 2006 sono cresciute del 5 per cento, mentre nel 2005 erano diminuite. Verso Cina (+10 per cento) e Russia(+9) registriamo gli incrementi maggiori. Sono aumentati gli investimenti delle imprese, mentre erano calati l’anno precedente. Le aziende italiane fanno più ricerca e innovazione rispetto al recente passato. Anche l’occupazione ne beneficia: a fine 2005, i lavoratori erano 22,5 milioni, ora 23 milioni, con il minimo storico per il Paese in fatto di disoccupati. La crescita, secondo i primi dati, si attesta attorno all’1,7 per cento, non male rispetto allo zero o quasi zero degli anni scorsi. Il risultato – secondo Giuseppe Roma, direttore del Censis, autorevole centro di ricerca – è guidato dall’incremento delle esportazioni. O meglio, dalla capacità delle imprese italiane di rendersi internazionali, sinora grande problema. Spiega che molte nostre aziende hanno imparato a governare la globalizzazione e non più a subirla. Gli imprenditori, nel nuovo, più vasto mercato, hanno capito che se non allargo lo sguardo, soccombo. E l’industria italiana si è maggiormente strutturata. Un tempo vendevamo le viti ai tedeschi che facevano le Porche, oggi – riferisce Roma – siamo i grandi fornitori per tutto il settore internazionale dell’auto. I freni stessi, ad esempio, sono diventati un prodotto d’eccellenza, senza i quali una macchina d’eccellenza non può essere venduta nel mondo. Le scelte compiute garantiranno un futuro? Il Censis ha condotto recentemente un’indagine sulle imprese con oltre 20 dipendenti (40 mila in Italia). Ne è risultato che, per i prossimi sei mesi, l’11 per cento dei titolari vede la situazione molto positiva e l’82 per cento positiva. Un ottimismo così diffuso stride con il senso d’incertezza che attraversa la società. Eppure, anche il turismo è in crescita (+8 per cento). Un turismo meno industrializzato di Francia e Spagna, che ci precedono in graduatoria, ma che viene sempre più apprezzato perché fa leva su fattori di indiscussa eccellenza, quali i paesaggi, l’ambiente, i borghi, assieme alle grandi città d’arte. Pure i tre milioni d’immigrati costituiscono, per gli esperti, un fattore estremamente positivo. 200 mila sono diventati piccoli imprenditori, mentre 600 mila lavorano nelle nostre case. Gli stranieri occupati sono l’80 per cento del totale, un tasso molto elevato, garanzia di integrazione. Nonostante questo, il 2007 si profila per la società italiana come un anno all’insegna della prudenza nei consumi e nelle scelte – la Finanziaria non ha motivato gran parte dei cittadini -, mentre permane l’incertezza per il futuro personale e dei figli. La generazione che oggi ha tra i 30 e i 40 anni – ricordava il sociologo Alessandro Pizzorno – è la prima che, dagli inizi del ‘900 non ha migliorato il proprio reddito rispetto ai padri. Una condizione non incoraggiante per chi vuole ritagliarsi un posto nella società del successo. Pesa, soprattutto, la delusione nei confronti della politica. È cambiato il governo, ma, per tanti italiani, non sembra che sia cambiato qualcosa. Stesso esito per l’amministrazione pubblica, che, a fronte degli accresciuti costi e dipendenti, fornisce servizi sempre peggiori. Se si aggiunge il cattivo funzionamento della giustizia e la diffusione della microcriminalità – dai furti nelle abitazioni ai reati di violenza – anche nelle province e nei centri sinora preservati dal fenomeno, il senso di insicurezza e di abbandono non potrà che diffondersi. Anche nel nuovo anno, perciò, con molta probabilità non muterà l’attuale situazione. Il sociologo Ilvo Diamanti parla del paradosso dello strabismo etico degli italiani. Si rendono conto che occorre riformare le pensioni, ma si oppongono all’allungamento dell’età pensionabile. Concordano sulle liberalizzazioni, ma non per la propria categoria professionale. Vogliono più servizi e assistenza, ma senza pagare più tasse. La solidarietà c’è ancora, dicono le ricerche, ma per un numero crescente di concittadini si è ristretta al piccolo ambito, dalla famiglia all’ordine dei tassisti. La rete serve soprattutto a difendersi, tanto dallo stato, quanto dagli altri. Si partecipa ad iniziative, ma se sono contro. Nonostante questi riscontri, resta abbondante il capitale sociale del nostro Paese. E questo fa sperare anche per il futuro. Conti- nua ad ampliarsi l’esperienza del volontariato, che supplisce con abnegazione alle carenze di istituzioni e stato. Cresce – dato incoraggiante – anche l’attenzione verso la propria città e l’interesse sui temi urbani e del territorio, segno di una volontà di partecipare ai destini collettivi più immediati e di impegno a volerne influenzare gli sviluppi. Con tutta probabilità, il 2007 evidenzierà anche per l’Italia gli effetti di quello che gli studiosi definiscono un portato generale della globalizzazione: integra le economie e disgrega le società, compresa la stessa capacità di fare politica, con la frammentazione dei partiti ormai in atto in tanti Paesi. Quale futuro, allora, ci attende? Davanti agli effetti negativi del processo di globalizzazione, può prendere il sopravvento la rassegnazione per manifesta impotenza. Invece, come hanno reagito tante piccole e medie imprese italiane, altrettanto può fare – e sta facendo – la società civile con le sue molteplici associazioni e iniziative e con le sue inossidabili risorse. Insomma, L’Italia scommette sull’Italia, com’è il titolo di un’originale campagna nazionale varata un mese fa dalle Acli per individuare le buone pratiche realizzate sul territorio da chi non teme le difficoltà, né fugge le diversità. L’obiettivo è raccogliere mille di queste esperienze e presentarle al presidente della Repubblica per disegnare uno scenario di relazioni significative e guardare al futuro senza paura. Anche nel nuovo anno. L SOCIOLOGO DE RITA SERVONO MINORANZE VITALI, FORTI E ALLEGRE Siamo in un quasi boom – sostiene Giuseppe De Rita, guru degli analisti sociali -, anche se non avrà tutti gli effetti sulla ricchezza del Paese, perché un parte non indifferente, che non sarà misurata, è prodotto italico esterno, quello delle 17 mila aziende italiane localizzate nel mondo, delle quali 1.500 in Cina. Cosa sta succedendo? È un risultato dovuto a minoranze imprenditoriali trainanti. Il sistema d’impresa è stato rimodulato dalle esigenze del mercato. Anche le aziende che stavano nel buco nero (calzature, tessile, abbigliamento e auto) oggi vanno molto meglio, perché hanno adottato strategie nuove. Lo stesso miracolo Fiat è indotto dal modo di affrontare il mercato, non dalla ristrutturazione di stabilimento. A cosa si deve il rapido mutamento? Oggi gli italiani sono leader mondiali delle imprese d’imballaggio e delle macchine utensili, lì dove il pezzo si fa uno per uno. Abbiamo aziende che sanno lavorare su misura e su commessa, in cui si ritrova la cultura artigiana divenuta industriale. Aziende piccole, dunque fragili. Dieci anni fa non esisteva l’impresa media, ora ce ne sono 2-3 mila. E poi c’è la crescita del territorio. L’80 per cento delle esportazioni viene da 70 distretti industriali. Accanto a questi c’è ormai la forza economica dei piccoli comuni. La cultura del borgo garantisce redditi superiori alla presenza di imprese industriali. Anche la città è un soggetto di sviluppo economico. Guardi Roma, guardi Torino: dopo le Olimpiadi ha un futuro non più in balia della Fiat. Per molti, la crescita in corso è momentanea, non strutturale. Per le ragioni già elencate, non lo penso. Per di più, adesso abbiamo grandi aziende che hanno un peso sui mercati internazionali e costituiscono reti finanziarie (Unicredito e San Paolo- Intesa), assicurative (Generali), energetiche (Eni ed Enel), di telecomunicazione (Telecom) e di trasporto (Autostrade), che non fanno sentire isolato il piccolo imprenditore. Perché, allora, il diffuso pessimismo? Questa ulteriore evoluzione dal basso della società non è accettata. Da chi? Purtroppo nemmeno dalla classe politica, che su questo argomento pone continue resistenze. Oggi infatti tende ad avere un’attenzione così forte sugli interessi particolari e immediati che occulta la dimensione di evoluzione reale del Paese. Chi altri, secondo lei, non l’accetta? La classe culturale. Che preferisce il pessimismo. Diciamoci la verità. Una volta i pessimisti erano persone di grande prestigio, e più erano pessimisti, più erano prestigiosi. Oggi il pessimismo è di massa, quindi vale di meno, ma molti credono ancora nel dovere civile del pessimismo. E questo influenza le scelte dei mezzi di comunicazione . Però, professore, tanta gente non se la sta passando bene. Siamo stati un grande paese del ceto medio. Ora è rimasto solo il ceto medio impiegatizio, quello che soffre l’euro, l’inflazione, la mancanza di soddisfazioni contrattuali e professionali. Oggi una società non cresce più nella massa, prigioniera della cultura di massa. L’Italia può svilupparsi solo se le sue minoranze sono vitali, forti e allegre.

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