1.800 miliardi di dollari per spese militari, mentre avanza il coronavirus

Come dimostra la pandemia in corso, è urgente una politica di collaborazione multilaterale. Investire le cifre colossali destinate alle armi per rispondere alle sfide del XXI secolo. Il contributo dell'autore del libro di Città Nuova Terra di conquista (ambiente e risorse tra conflitti e alleanze) 2020.
AP Photo/Mark Schiefelbein

I 1.800 miliardi di dollari in spese militari mondiali nel 2018, secondo l’ultimo rapporto del Sipri di Stoccolma ( Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace) , non sembrano costituire alcuna barriera contro la pandemia in corso, che anzi sta colpendo con progressiva violenza anche i Paesi più impegnati nel rafforzare i propri dispositivi militari, dagli Stati Uniti alla Cina, dalla Francia alla Gran Bretagna.

Anche l’Italia, impegnata nella difesa con 26 miliardi di euro nel 2020 e nell’acquisto di nuovi sistemi d’armamento come i bombardieri nucleari F35, le fregate FREMM e l’ennesima portaerei Trieste, nonché in ben 36 missioni militari all’estero, scopre di essere impreparata a sostenere l’impatto del COVID-19.

Se le cifre stanziate per la difesa sono certamente inferiori in Italia a quelle del settore sanitario, con un rapporto di uno a cinque, le riflessioni che questa crisi ci impone sono diverse.

In primo luogo la globalizzazione, con i suoi effetti sia positivi sia negativi, è una realtà ineluttabile che, però, va governata e gli strumenti sinora adottati si sono dimostrati per lo più inadatti ed insufficienti, se non addirittura obsoleti.

Le tendenze sovraniste/nazionalistiche, che guardano al passato, si rivelano inefficaci e controproducenti e la politica di potenza, fatta propria da molti governi, non è in grado di rispondere alle sfide di un mondo divenuto un “villaggio globale”, per dirla con Marshall Mc Luhan che si riferiva al mondo delle comunicazioni di massa.

La corsa agli armamenti, guidata dagli USA insieme ai suoi alleati (che complessivamente spendono nel settore della difesa quasi 1.000 miliardi di dollari), inseguiti dalla Cina con un quarto della cifra e dalla Russia con appena un ventesimo, evidenzia una logica basata ancora sui rapporti di forza e non sulla prospettiva di una collaborazione multilaterale che deve rispondere alle sfide del XXI secolo.

In secondo luogo i cambiamenti climatici investono l’intero nostro pianeta in tempi e modi imprevisti e drammatici, in cui siamo tutti coinvolti, anche coloro che negano tali fenomeni. La siccità e la desertificazione stanno colpendo zone sempre più vaste del nostro pianeta, insieme allo scioglimento dei ghiacciai e all’innalzamento del livello dei mari, provocando fenomeni migratori con i cosiddetti profughi ambientali, che si vanno a sommare a quelli causati dalle guerre e dalle persecuzioni arrivando complessivamente nel 2019 a ben 70 milioni di persone. Uno dei segnali di tutto questa è Giacarta, capitale dell’Indonesia, che sprofondando al ritmo di 25 centimetri l’anno è già quasi per metà sotto il livello del mare, al punto che si è deciso di abbandonarla per ricostruirla in un luogo più sicuro.

In terzo luogo il liberismo economico oggi predominante, basato a volte sul libero mercato e altre volte su politiche protezioniste fondate sulla forza e su dazi commerciali (come il bando imposto al mondo da Washington contro l’Iran), mostra tutti i suoi limiti sia nei confronti del reddito (concentrazione crescente della ricchezza nelle mani di pochi), sia nei suoi effetti sull’economia mondiale che vede attuarsi una logica predatoria delle risorse da un lato e un modello di vita fondato sullo spreco, il tutto ai danni di una larga parte del mondo sottoposto ad un crescente impoverimento.

Il liberismo economico, di fatto, è strettamente fondato su una concezione sovranista/nazionalista dei rapporti tra gli stati e connesso alle politiche predatorie delle risorse ambientali, siano esse costituite da idrocarburi, uranio, cobalto o prodotti alimentari. Ne è un esempio noto a tutti la foresta amazzonica, devastata da una politica tesa a produrre profitti immediati connessi alla produzione, di carne, soia e legname.

In quarto luogo tali logiche sovraniste/nazionaliste, sempre più emergenti in questi anni, hanno mostrato la loro forza, quando hanno ripetutamente nel tempo ostacolato la collaborazione internazionale: basta pensare alla Brexit, al sostegno offerto ad essa da Trump, all’euroscetticismo di diversi Paesi membri dell’UE, nonché al continuo boicottaggio ed esautoramento dell’ONU, attuato da molti Paesi in più occasioni (dalla guerra contro la Libia di Gheddafi all’assenza d’iniziativa in Siria e nello Yemen).

Di fronte alla pandemia, esse sono riemerse chiaramente negli esitanti atteggiamenti di diversi partner europei nei confronti dell’Italia, bloccando addirittura le forniture di materiali sanitari e, di fatto, evidenziando tutti i limiti dell’UE, incapace di soccorrere un membro in difficoltà, come ha evidenziato anche la recente, (il bando commerciale imposto da Washington contro l’Iran) famigerata frase di Cristine Lagarde, presidente della Banca centrale europea («Non siamo qui per chiudere gli spread, ci sono altri strumenti e altri attori per gestire quelle questioni»).

Inaspettatamente gli aiuti all’Italia giungono dalla Cina, che sta uscendo dalla crisi sanitaria e sta mostrando un approccio collaborativo che, invece, ci si sarebbe attesi dai partner europei e d’oltre Atlantico. Addirittura il campione dell’”America first”, l’attuale inquilino della Casa Bianca ha cercato di ottenere, a suon di dollari, in esclusiva per gli Stati Uniti un possibile vaccino, provocando una risposta sdegnata da parte tedesca, che dichiara di lavorare per il mondo intero.

Questa risposta, insieme all’aiuto cinese e all’impegno di tanti operatori della sanità e del mondo del volontariato in Italia e all’estero, ci fanno ricordare però che un altro mondo è e deve essere possibile, per la sopravvivenza di tutta l’umanità e non solo di un’élite, fondato non sulla forza delle armi sempre più letali, ma su un modello diverso di sviluppo globale.

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