Ritorno a Castello
Luoghi e volti di quando Chiara Lubich era Silvia, maestrina in Val di Sole
Fine luglio. In gita con amici, arrampicandoci in auto fin su a Castello, il paesino dell’alta Val di Sole non lontano dal Passo del Tonale, dove Chiara Lubich, allora diciottenne fresca di diploma magistrale, insegnò nell’anno scolastico 1938-39.
Era a quel tempo un piccolo borgo di forse duecento abitanti, tutti contadini, a circa 1.300 metri d’altezza tra boschi di pini e verdi prati. Al suo arrivo in quel posto remoto e quasi selvaggio, Chiara (ma allora si chiamava Silvia) non trovò subito un alloggio, tanto che la prima notte la passò in canonica, ospite dal parroco don Francesco Marcolla.
Oggi Castello ha case nuove o riadattate, stradine lastricate e una parvenza di piazzetta rubata al pendio scosceso sul quale si aggrappa l’abitato. Ma al margine di esso si nota ancora in piedi una baita decrepita in pietra e legno, residuo di quegli anni lontani.
Per prima cosa andiamo a far visita a Giacomo ed Elena Molignoni, fratello e sorella focolarini che riposano nel piccolo cimitero dietro la parrocchia di San Donato, proprio in cima al paese. Le foto con i loro volti sorridenti si notano subito fra le altre: sembrano darci il benvenuto, ricordarci che facciamo parte di un’unica grande famiglia. Una anziana dalla chioma bianchissima (sarà la seconda abitante vista finora) ci ha preceduti nella visita alle tombe: la ritroviamo poco dopo a pregare il rosario in chiesa, un edificio del XV secolo rinnovato da recenti restauri. Ben diverso doveva apparire alla fine degli anni Trenta, non solo perché manca del suo coro ligneo e l’altare è ora rivolto ai fedeli, ma per l’assenza dell’arredo sciatto che aveva ferito il gusto estetico di Chiara. Si narra che una volta, azzardatasi a dare dei suggerimenti in merito a don Francesco, incontrò le iniziali resistenze del parroco, cui spiaceva perdere la faccia di fronte a quella quasi ragazzina catalogata sul momento come sognatrice, ma di cui, anche in altre occasioni, avrebbe ammirato l’assennatezza.
Usciamo dalla chiesa insieme all’anziana. Viene spontaneo salutarci. Non so da quale elemento ci riconosce come appartenenti ai Focolari; a sua volta – una felice sorpresa – si presenta come Maria, una delle Molignoni, attualmente ospite a Castello di Carmela, l’altra sorella vivente di Elena e Giacomo. E ci invita per un caffè da lei. Accettiamo e durante il breve tragitto ne approfittiamo per tempestarla di domande riguardo ai luoghi di Chiara. La scuola, ad esempio, dove lei insegnava in una pluriclasse dalla prima alla quarta elementare, dov’era? È crollata, veniamo a sapere, Maria non ricorda più da quanti anni. Ora al posto di quel semplice stanzone si apre uno slargo subito sotto la chiesa, a ridosso di un muraglione. Di bambini che ai miei tempi la frequentavano, ce n’erano una quarantina; adesso qui saranno due o tre che vanno a scuola fuori, a Pellizzano. Purtroppo – sospira Maria – è semivuoto questo paese, puoi farci una passeggiata senza incontrare mai nessuno. Solo verso agosto, con l’arrivo dei villeggianti, si anima un po’.
E la canonica dove Chiara si trasferì durante il periodo in cui don Marcolla, operato di peritonite a Clès (grazie proprio all’insistenza di lei perché si curasse), rimase assente? Eccola, proprio di fronte al vuoto lasciato dalla scuola. Il balconcino dove la maestrina fu scorta da Giacomo esiste ancora, ma è sul retro, affacciato verso i boschi. Il giovane Molignoni si stava recando appunto lì, forse per raccogliere legna, quando al vedere la Lubich di cui era suppergiù coetaneo fu sorpreso nell’intimo da una voce: «Quella sarà la tua mamma». Immaginarsi il turbamento di lui, un semplice contadino ancora oppresso dalla nostalgia per la madre morta.
Poco più giù della canonica, Maria ci mostra la casa dove al pianterreno Chiara alloggiò per tutto il periodo scolastico. E poi le trasformazioni subite dal paese: qui è sorta una costruzione nuova, lì una vecchia è rovinata nel dirupo… Arrivati a casa, ci precede su per una scaletta esterna. Bussa. «È aperto!», fa da dentro una voce, quella di Carmela. «Guarda chi è venuto a trovarci…», risponde la sorella.
Facciamo presto a riempire la piccola cucina dove l’altra Molignoni è ai fornelli, impegnata a snocciolare in una pentola che bolle degli gnocchi di polenta. Sul tavolo spiccano due libri di meditazioni di Chiara, un foglietto della Parola di vita e un paio di lenti da lettura: un particolare che dice la fedeltà delle anziane sorelle a quel carisma dell’unità che ancora non s’era manifestato al tempo in cui Chiara era Silvia, ma di cui c’erano già allora i sintomi. Alla scoperta che Carmela è stata sua alunna, ci viene spontaneo chiederle come insegnava. È vero che gli scolari, nelle pause di ricreazione, quasi preferivano le sue lezioni più attraenti di qualunque gioco? «Oh, lei se li conquistava con l’amore, anche i più vivaci. Non ha mai usato, per far rispettare la disciplina, quella bacchetta così in voga a quei tempi».
Quanto poi considerasse quelli affidati alle sue cure, lo testimonia questo episodio rievocato ancora da Carmela: «Era la festa degli alberi in Val Piana, un posto sopra Ossana, e la scolaresca era andata lì per piantare gli alberelli, accompagnata da Chiara. Ma neri nuvoloni non promettevano niente di buono. Difatti, la pioggia venne giù abbondante, da inzupparsi fino all’osso. Qualcuno allora offrì un ombrello alla signorina Lubich, ma lei lo rifiutò: “Come potrei ripararmi io mentre i miei alunni rimangono sotto la pioggia? Io e loro siamo uguali”». E questo in tempi in cui, specie nei piccoli centri, un insegnante era circondato da un alone di rispetto, era un’autorità.
Quando Chiara arrivò da queste parti, Maria aveva due anni di meno, aveva finito la scuola e lavorava nei campi: «Era una vita dura, mai un giorno libero per riposare, mai. Andavi a dormire sfinito di fatica e già dopo poche ore dovevi svegliarti che era ancora buio: verso le due quando c’era da condurre le bestie al pascolo su per i monti. Anche la domenica si lavorava, specie quando minacciava di piovere e si era costretti a raccogliere il fieno secco».
Tra quei rudi contadini dediti ad un’economia di sopravvivenza, la maestrina venuta da Trento portò un tocco di gentilezza e anche di bellezza. «Sì, Chiara era bella – si accalora Maria –. Non avevo mai incontrato prima di lei una ragazza così bella. Ma non solo per questo gli occhi della gente erano puntati su di lei. A quel tempo ci veniva insegnato che non eravamo degni e temevamo il castigo del Signore, per cui si faceva la comunione non più di tre-quattro volte all’anno, nelle feste principali». Si capisce perché in chiesa la gente, più che guardare il tabernacolo, guardava Chiara che l’Eucaristia andava a riceverla tutti i giorni.
Qualche altra pennellata sulla vita parrocchiale di quegli anni in cui la Bibbia era ancora poco accessibile alle masse, perché scritta in latino, fa risaltare ancor più la novità del nascente movimento, quando proponeva a tutti, per la vita quotidiana, una frase alla volta presa dal Vangelo, frase commentata e diffusa tramite foglietti. «Nelle prediche in chiesa – prosegue Maria – non è che si commentasse tanto il Vangelo, ma il parroco per lo più faceva delle ramanzine agli uomini che frequentavano l’osteria, a chi andava la sera a ballare e cose simili… Cosa vuoi? – lo giustifica – anche i preti erano stati tirati su in un certo modo!».
Dietro invito di don Marcolla, Chiara rimise in sesto l’Azione cattolica locale con l’aiuto della maggiore delle sorelle Molignoni, Elena. «Chi perdeva la messa domenicale, come talvolta capitava a me quando portavo a pascolare le bestie, non avrebbe potuto farne parte, secondo il parroco. Chiara però accettava ugualmente tutte quelle che lo desideravano, così anch’io potevo partecipare». Quanto duravano le riunioni, e dove avevano luogo? «La durata non potrei dirla: a me sembravano dieci minuti, tanto erano belle e il tempo volava via. Ci incontravamo nella scuola».
Chiara partì da Castello una domenica di giugno del 1939. Tra chi già la rimpiangeva c’era don Francesco, che nel vederla allontanarsi col suo scarso bagaglio ebbe l’impressione che quel gruppo di casupole restasse lì più sparuto, più solitario, che meno luminoso il sole baciasse quei sassi; come se, partendo lei, si stesse svuotando più di mezzo paese. E gli tornò alla mente la volta in cui le aveva dichiarato: «Lei, signorina, il prossimo anno vorrà una classe di Trento degna delle sue capacità!». E Silvia, con una delle sue risposte che lasciavano senza parole: «No, se potessi resterei qui: è più bello incominciare dal niente».
Mentre gli gnocchi finiscono di cuocere, Carmela tira fuori da una busta sgualcita alcune lettere di Chiara: una, a noi già nota, è indirizzata a Elena, alla quale alla fine dell’anno scolastico aveva affidato le sue aspiranti. «Ricordati, Elena – era stato il suo solenne addio –, se sarai buona, loro saranno cattive, solo se tu sarai santa loro saranno buone». Altre lettere sono dirette a una certa Dolores, un’altra ragazza dello stesso gruppetto da lei coltivato, ora residente a Pellizzano. Solo all’idea che poteva arrivare una di quelle lettere della loro signorina, Elena e le compagne si animavano, quasi non sentivano più né fatica, né sete, né fame nel loro duro lavoro nei campi. Bastava leggerne una e l’adunanza era già fatta. Così l’opera educatrice della Lubich continuava, e le sue giovani amiche di Castello, quasi senza accorgersene, andavano preparandosi alla vita.
Infine, Maria ci porta sul terrazzino nel retro, il posto più bello della casa, da dove l’occhio può spaziare liberamente su un panorama superbo di monti e di pinete. Qua e là stalli e masi in disuso, inghiottiti dal verde. Spariti infatti gli orti e le coltivazioni che una sessantina di anni fa assicuravano la sussistenza, il bosco ha ripreso piede, andando ad occupare trionfalmente gli spazi sottratti dall’uomo. Lasciamo quella casetta piena di foto e di ricordi, dopo un abbraccio commosso alle Molignoni. Scendendo da Castello per la strada tutta tornanti, non poteva mancare una breve sosta per scattare qualche foto al famoso balconcino della canonica. L’impressione comune è di ritrovarci con l’anima rigenerata, come dopo un pellegrinaggio ad un luogo dove persone e cose rimandano a Dio.