L'esperto risponde / Salute e benessere

Valter Giantin

Valter Giantin, medico-geriatra, bioeticista clinico, è Direttore della UOC Geriatria di Bassano del Grappa (VI). Presidente e membro di vari Comitati etici per la pratica clinica, docente di geriatria e medicina interna, bioetica e cure palliative, presso varie Università (Padova, Verona, Sacro Cuore di Roma). È stato coordinatore scientifico del corso di perfezionamento post-laurea «Comunicazione emotiva e relazione terapeutica» presso l’Università di Padova.

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Salute

Cos’è la disfagia?

A mio padre, ormai anziano, è stata diagnosticata la disfagia, cosa consigliate di fare?

disfagia

La disfagia, ossia la difficoltà a deglutire e a convogliare sostanze solide, liquide, gassose o miste dall’esterno fino allo stomaco, può insorgere per varie malattie, neurologiche e non, tra cui le più frequenti sono il Parkinson, la Sclerosi laterale amiotrofica – SLA, la Sclerosi Multipla, TIA –, attacchi ischemici transitori o ictus cerebrali, altre encefalopatie vascolari o metaboliche, ma anche demenza, miastenia, tumori e malattie funzionali del distretto digestivo che interessano l’esofago o la trachea, o che sono dovute ad altre patologie della tiroide o del collo.

Nell’anziano vi è comunque maggiore predisposizione alla disfagia (tanto che si parla anche di una sindrome chiamata presbifagia, che può essere più o meno grave) perché con l’età diminuisce la produzione di saliva, vi è maggiore secchezza delle mucose orali per frequente disidratazione, vi è una diminuita massa muscolare a livello della zona orale, faringea, laringea, vi è una riduzione della sensibilità (alterazione del feedback sensitivo-motorio a livello laringeo e faringeo anche per un fisiologico ritardo nella conduzione nervosa). La disfagia può essere solo per i cibi liquidi (più frequente), o solo per i cibi solidi o mista.

Il processo della deglutizione, benché siamo abituati a gestirlo fin dalle prime ore dopo la nostra nascita, con l’inizio dell’allattamento, è una fase tutt’altro che semplice che implica una esatta coordinazione di ben 55 diversi piccoli muscoli, gestiti da 6 diversi nervi cranici, che si riferiscono a ben 3 diverse grandi aree cerebrali.

In alcuni casi la difficoltà a deglutire è da subito ben evidente (ad es. dopo un ictus cerebrale), ma in altri può manifestarsi in forma subdola e ingravescente nel tempo, con sintomi aspecifici quale qualche colpo di tosse durante l’assunzione di liquidi o durante i pasti, modificazione della voce che diventa più umida e/o rauca dopo aver bevuto o mangiato, sensazione di corpo estraneo in gola, ecc. (ad es. nelle fasi iniziali del M. di Parkinson).

La disfagia sia per una corretta diagnosi e ancor più per una adeguata terapia necessita talora di una équipe multidisciplinare costituita da un logopedista (per la rieducazione funzionale delle capacità deglutitorie), da un dietista (per le modifiche necessarie della dieta e della sua somministrazione), dal medico di riferimento (medico di famiglia, geriatra, neurologo, ecc.) che tratti la disfagia in funzione anche della patologia che l’ha provocata.

Quando la capacità a deglutire, sia cibi solidi sia liquidi, è compromessa, occorre porre particolare attenzione alla dieta, modificando soprattutto la consistenza dei cibi al fine di prevenire carenze nutrizionali o incorrere in importanti complicazioni. E’ infatti frequente un calo di peso e malnutrizione; a volte per la sola paura di soffocare non si ingeriscono più quantità adeguate di nutrienti e quindi di energia, sufficienti al fabbisogno giornaliero. Più frequente ancora sono i casi di marcata disidratazione, in particolare nell’anziano, dovuta a un inadeguato apporto di liquidi: l’acqua o altre bevande sono molto più rapidi nel transito dalla bocca allo stomaco e quindi spesso danno per primi degli episodi di disfagia.

Un caso frequente e più grave è lo sviluppo di una “bronco-polmonite ad ingestis”, una infezione delle vie respiratorie molto grave (e spesso difficile e lunga da curare) causata da liquidi o dal cibo che viene convogliato nelle vie aeree anziché essere correttamente incanalato nell’esofago, con il rischio nei casi più gravi di soffocamento, ipossia e morte.

 

Sull’argomento leggi anche l’articolo: Disfagia, come affrontarla.

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Salute

Guerra e ipertensione

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Sono più di 10 anni che prendo una pillola contro l’ipertensione. Da qualche tempo, però, mi capita spesso di trovarmi la pressione a 100/150. Può dipendere dalla guerra? Da quando è iniziata, le terribili immagini delle stragi intenzionali di civili mi provocano ogni volta un forte stress e senso di impotenza (oltre a mal di stomaco!). Oppure l’aumento di pressione dipende dal fatto che sono ormai alle soglie dei 70 anni? Mi consiglia di cambiare farmaco (ho provato anche un diuretico, ma serve a poco)? Invece delle pillole, in questo caso serve a qualcosa l’agopuntura? Grazie della risposta


La pressione arteriosa dopo i 45-50 anni tende in genere a salire, almeno fino agli 80-85 anni; poi spesso scende e si deve addirittura arrivare a diminuire la terapia perché altrimenti si rischiano fenomeni come ipotensione, vertigini, sincopi, ecc. Molte sono le cause anche ereditarie per l'aumento della pressione, ma la principale è in genere legata ad una minore elasticità delle arterie di grandi dimensioni e capacitanza (aorta e suoi rami principali) che diventano progressivamente, con gli anni, sempre più rigide (vi è ad es. una sostituzione della proteina elastina costituente la parete dei vasi con fibrina molto più rigida) e non assorbono bene l’onda d’urto pressorio del gettito di sangue che viene spinto in periferia ad ogni battito cardiaco. È questa rigidità dell’arteria che porta ad un progressivo aumento della pressione, all’interno dello stesso vaso, con l’età. È per questo che in genere con gli anni aumenta soprattutto la pressione sistolica (la massima) mentre tende nel tempo a diminuire la diastolica (o pressione minima). Aumenta così la pressione differenziale (massima meno minima – uno dei principali parametri di gravità della patologia), che porta anche a valori pressori più altalenanti alle misure, con qualsiasi strumento le si effettuino. Anche le emozioni in tutti noi portano ad un incremento della pressione, e – come più ampiamente descritto anche nel recente libro Vivere a lungo con successo edito con Città Nuova – con l’età in media gestiamo meno bene le emozioni e lo stress della vita per tantissime cause, anche legate ad un interessamento sia strutturale che funzionale delle parti del nostro cervello deputate a questa sfera (in particolare il sistema limbico). In genere, in questo caso in cui le emozioni portano ad un innalzamento della pressione, segue un aumento anche della frequenza cardiaca, che invece tende a diminuire in altre cause di ipertensione. È sempre buona norma pertanto misurare entrambi questi parametri: pressione arteriosa e frequenza, ed anche regolarità del ritmo cardiaco. Sono valori essenziali per impostare una buona terapia. Ma le cause di ipertensione arteriosa possono essere secondarie a decine di altre diverse patologie o sindromi (tiroidee, renali, cerebrali, umorali, surrenaliche, correlate ad insonnia, ma anche legate a stili di vita diversi come uso di fumo di tabacco, alcool, liquirizia, caffè, ecc.) e prima di qualsiasi prescrizione farmacologica andrebbe eseguita una approfondita anamnesi fisiologica e patologica, e valutato un primo approccio non farmacologico, in particolare se i valori di pressione non sono troppi elevati. Fornire prescrizioni senza una accurata valutazione, anche eventualmente accompagnata da un attento monitoraggio pressorio domiciliare a diverse ore della giornata o con uso di un apparecchio elettronico portatile (ABPM) che misuri per 24 ore la pressione, è pericoloso essendo spesso una terapia che va fortemente personalizzata per ogni singolo soggetto, disponendo anche ormai di centinaia di diversi prodotti farmacologici per tale patologia. Infine l'agopuntura: sembra aiutare ad abbassare la pressione, aumentando il rilascio di una sorta di oppioide nella regione del tronco cerebrale, come hanno verificato recenti studi effettuati dai ricercatori del Susan Samueli Center for Integrative Medicine. Anche se è da dire che per ora i dati sono stati raccolti per lo più in studi su animali (ratti), con applicazioni necessariamente ripetitive (agopuntura ogni 3 giorni circa), e per periodi non troppo lunghi, solo di alcuni mesi. Sebbene tale terapia sia sostanzialmente ritenuta priva di importanti effetti collaterali, sono necessari ulteriori studi per comprendere se l’effetto rimane duraturo, se va bene in tutte le forme di ipertensione (centinaia di diverse forme), a tutte i livelli di pressione elevata, a tutte le età, per entrambi i sessi, ecc. e/o se produce altri inconvenienti (sono pur sempre punture ripetute sulla pelle); soprattutto se per ottenere un effetto efficace deve essere usata in cronico per decenni, come avviene oggi per quasi tutte – tranne in rarissimi casi in cui il disturbo può essere corretto con la chirurgia., ad es. per una ostruzione di un vaso renale - le altre terapie usate per l’ipertensione.
Salute e benessere

Ipotensione arteriosa: è un bene o un male?

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Gentile dottore, volevo sapere qualcosa di più sul fenomeno dell'ipotensione: frequenza, sintomi, soluzioni... Grazie. Maria


L’ipotensione arteriosa è una condizione caratterizzata da valori della pressione decisamente inferiori alla norma. In termini numerici, possiamo dire che un individuo soffre di ipotensione quando la sua pressione arteriosa a riposo scende al di sotto dei 90/60 mmHg. Vi sono persone che però per natura – più facilmente donne – presentano tali valori bassi, spesso per una condizione genetica e che, come tali, presentano però un vantaggio sulla sopravvivenza, perché presentano un minor danno alle arterie con il passare del tempo e sono quindi più protette da fenomeni cardio-vascolari, risultando statisticamente in media più longeve. Analogo discorso può essere fatto per molti sportivi o atleti che, avendo in genere un letto capillare più esteso dei sedentari, fanno registrare una pressione più bassa a riposo.

L’ipotensione si riscontra più spesso nelle donne in giovane età le quali, rispetto agli uomini di pari età, hanno valori pressori di media lievemente inferiori, soprattutto dopo il periodo mestruale.  Anche la gravidanza, a causa dell’importante vasodilatazione indotta dall’ormone progesterone, si accompagna a una diminuzione dei valori pressori. Nelle prime 24 settimane di gestazione, tranne in caso di altre patologie gestosiche, si verifica un calo medio della pressione arteriosa sistolica (o massima) di circa 5-10 punti; più sensibile è invece la diminuzione della pressione diastolica (o minima), che si attesta mediamente oltre i 10 punti.

È bene sapere però che la pressione arteriosa, sia nei soggetti normotesi che iper/ipotesi, non rimane mai costante nel corso del tempo e della giornata ma, al di là di altri fattori seppure importanti, mostra un fisiologico incremento dei valori nelle prime ore del mattino, dovuto a diversi fattori, dei quali il principale è l’attivazione del sistema renina-angiotensina-aldosterone che porta ad un fisiologico aumento, necessario al nostro organismo per risvegliarsi e per mettersi in moto al mattino. Altri periodi in cui la pressione in media invece si abbassa in tutti i soggetti è dopo i pasti principali perché il letto vascolare che irrora lo stomaco e l’intestino, se nel resto della giornata è poco perfuso, con il cibo si apre e richiama più sangue, fino anche ad un terzo della totalità del nostro patrimonio  sanguigno. È questo il motivo per cui tendiamo ad avere un po’ di abbiocco o sonnolenza (meno sangue arriva a livello cerebrale) in tale periodo post-prandiale e per cui siamo più vulnerabili a fonti di calore troppo fredde (ad esempio rischio di congestione se ci immergiamo al mare) o troppo calde (più frequenti le aritmie perché il cuore tenta di pompare più sangue in tale periodo).

Sebbene l’ipotensione sia meno frequente della più grave e preoccupante ipertensione, è un disturbo piuttosto diffuso che, specie nella stagione calda, è frequentemente associato a stanchezza generalizzata e capogiri, in particolare nelle persone più anziane, soprattutto se da giovani presentavano valori pressori nella norma o da ipertensione. Tali condizioni conducono frequentemente la persona anziana a danni ben più gravi secondari alle cadute conseguenti, con fratture (frequente quella di femore), traumi cerebrali, emorragie, ecc.

Vi sono anche condizioni di salute, magari temporanee, come la disidratazione (frequente nell’anziano che perde la capacità di sentire lo stimolo alla sete a livello ipotalamico con l’età), la febbre, la diarrea, le emorragie, le ustioni, l’iperidrosi, le anemie, le carenze di vitamina B12 e folati, che possono portare ad un abbassamento dei valori della pressione. Anche molte patologie possono influire sensibilmente quali il diabete, le aritmie o la tachicardia, le disfunzioni della tiroide, infezioni, reazioni allergiche. Da non sottovalutare poi l’effetto dell’uso di alcuni farmaci, come i diuretici, i beta-bloccanti, gli antidepressivi, i narcotici, ecc. che influiscono sui valori della pressione, determinandone in genere un abbassamento.

I sintomi dell’ipotensione cui prestare attenzione sono: stanchezza cronica, debolezza muscolare, mal di testa, annebbiamento della vista, ronzii alle orecchie, vertigini, sonnolenza. Nei casi più gravi si possono verificare anche svenimenti o sincopi, che possono essere considerate come una sorta di difesa dell’organismo che porta la pressione dell’organo più nobile (il cervello) sullo stesso piano del resto dell’individuo. In tale occasioni è bene sapere che a differenza di ciò che ci verrebbe più spontaneo fare, cioè cercare di risollevare la persona dalle spalle, e bene invece mantenere disteso a terra il corpo della persona svenuta per almeno 15 minuti e possibilmente invece alzare gli arti inferiori dell’individuo, permettendo così un più rapido afflusso di sangue a livello cerebrale.

(Valter Giantin è autore, tra l'altro, del libro di Città Nuova "Vivere a lungo con successo")
Educazione sanitaria

La terza dose di vaccino

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Siamo preoccupati per i nostri genitori anziani e vorremmo sapere quanto dura il vaccino come protezione, visto che andiamo verso l’autunno. Alcuni dati sul dosaggio degli anticorpi dopo il vaccino non riusciamo ad interpretarli e ci pare ci sia molta confusione. Ci può aiutare?


In effetti vige in questo periodo una certa confusione sulla durata di efficacia del vaccino, sull’immunità che si acquisisce dopo la malattia, sulle differenze di immunità al virus a seconda delle diverse età, ecc. Tale confusione è dovuta a più fattori, molti dovuti alla non chiara informazione trasmessa nei mass-media e alle tante risposte che molti, talvolta non esperti, hanno tentato di fornire nell’incertezza scientifica, prendendo da fonti internet più o meno qualificate e assemblandole, spesso senza una chiara logica, e quindi diffondendole anche via social. Ma ci sono anche parecchie incertezze che provengono dalla stessa scienza. Il Sars-cov-2 è infatti un virus mai prima incontrato nella specie umana, che si presenta per la prima volta come una infezione talora fatale, con delle caratteristiche peculiari, mai prima sperimentate. La scienza, come per tutti i nuovi fenomeni ha bisogno di tempo per verificare le ipotesi che formula, valutando cosa succede nella popolazione nei mesi o negli anni successivi all’incontro con un agente patogeno. Chi ha provato, ad es. ad inizio pandemia, a precorrere i tempi ha spesso sbagliato ed è stato rapidamente smentito, anche se si trattava di un esperto del settore. Ecco perché bisogna andar cauti nel proporre formule definitive, anche se alcuni punti fermi li possiamo oggi porre. Anzitutto la quantità di anticorpi dosabili nel sangue non è un indice sicuro dell’immunità acquisita dopo la malattia da coronavirus o dopo i vaccini. Quando veniamo a contatto con un agente esterno dannoso il nostro corpo produce una reazione immunitaria specifica che è mediata da due tipi di cellule: i linfociti B, responsabili della produzione di anticorpi, ma anche i linfociti T che non creano anticorpi ma forniscono una risposta di diverse altre “cellule di memoria” al virus, che sono in grado di attivarsi in caso di incontro con l’agente esterno. Entrambe le risposte sono efficaci in modalità però diversa, anche da soggetto a soggetto, e a seconda del tempo che trascorrere dal primo incontro con l’agente. Come afferma l’immunologo Alberto Mantovani, presidente della Fondazione Humanitas per la Ricerca: «Il dosaggio degli anticorpi è una misura grossolana della risposta immunitaria. Non c'è, ad oggi, quello che viene chiamato un “correlato di protezione”, un livello di anticorpi misurato secondo standard internazionali che assicuri protezione dallo sviluppo dei sintomi da Covid-19 o che indichi se una persona si deve vaccinare o meno». Non abbiamo poi oggi nessun altro esame che ci indichi con certezza se siamo o meno protetti contro il virus. L’unico dato certo ci può venire solo dal controllo nel tempo di nuovi casi di malattia a livello di popolazione, tra chi ha avuto la malattia o è stato vaccinato. Benché la vaccinazione mostri come circa il 90% di chi viene ricoverato in ospedale e viene trasferito in rianimazione e/o muore, in questi giorni, è un soggetto non vaccinato, vi sono oggi ricoverati in ospedale anche soggetti che avevano già contratto l’infezione od erano stati vaccinati. Ciò sta ad indicare indirettamente una perdita progressiva di immunità. Stando a una recente analisi nel Regno Unito, la doppia dose di Pfizer/BioNTech e di AstraZeneca inizierebbe il suo declino di protezione entro sei mesi dall’inoculazione: si è osservato in particolare che il primo è stato efficace all’88% nel prevenire l’infezione un mese dopo la seconda dose, ma dopo 5 o 6 mesi la protezione è scesa al 74%. Secondo lo scienziato a capo dello studio inglese, Tim Spector, «uno scenario ragionevole nel peggiore dei casi potrebbe vedere una protezione inferiore al 50% entro l’inverno». È da considerare inoltre che i vaccini Covid sono un po’ meno efficaci contro la variante Delta, che è anche molto più trasmissibile, rispetto alla variante Alpha; ciò, unito all’allentamento delle restrizioni, comporta possibilità aumentate di esposizione al virus. Si intuisce facilmente come il ciclo previsto per i vaccini attualmente non protegge già sufficientemente alcuni soggetti: gli immunodepressi, i trapiantati, i pazienti oncoematologici, i dializzati, ma anche in media i soggetti anziani fragili - in particolare over 80 anni - che presentano una immunodeficienza legata all’età. Ecco perché per queste categorie la somministrazione della terza dose partirà già dopo 8-9 mesi dalla precedente immunizzazione, come consiglia l’EMA, l’Agenzia Europea per i Medicinali, e ben prima dei 12 mesi di durata previsti dal “nuovo” green pass. Per il resto della popolazione invece la terza dose, se ci sarà, arriverà più tardi e tra i primi sicuramente saranno i sanitari, in quanto sono stati i primi ad essere vaccinati e sono ora i più esposti, lavorando in situazioni francamente a rischio. Va comunque ricordato che su questa materia non ci sono punti fermi e i cambiamenti, in base alle evidenze scientifiche in continua evoluzione, possono essere sempre possibili.  
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