L'esperto risponde / Ambiente

Pasquale Pellegrini

Esperto in informazione e comunicazione scientifica, editorialista e collaboratore del Corriere del Mezzogiorno. Ha scritto diversi libri, tra cui, Dio lo vuole. Intervista sulla Crociata con Franco Cardini; Ogni giorno l’amore un reportage sull’affettività di coppia realizzato con Vittoria Modugno; Cattolici dal potere al silenzio, un’intervista a Beppe del Colle sull’evoluzione politica dei cattolici dal dopoguerra a Berlusconi (Premio Capri-San Michele 2011); Una chiesa al passo coi tempi con Rocco d’Ambrosio.

L’ultima opera pubblicata è in libreria da qualche mese, Scienze e spiritualità. La Trascendenza tra cultura, ricerca neuroscientifica ed evoluzione. Realizzata con Vito Antonio Amodio è un approccio scientifico al tema della spiritualità basato su ricerche neuroscientifiche. Per i ragazzi Pellegrini ha scritto il romanzo Il mistero dei cavalieri del rombo.

Nel 2014 ha vinto il Premio nazionale divulgazione scientifica per il giornalismo con servizi sulle frontiere delle neuroscienze. In collaborazione con il  Corriere del Mezzogiorno ha organizzato, a Bari, il Festival della scienza.

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Ambiente

Corsa contro il tempo per salvare i coralli

Mi ha rattristato sentire in Tv che i coralli stanno morendo. Possibile che non si possa fare qualcosa?

Corallo che si sta sbiancando alle Hawaii (AP Photo/Caleb Jones, File)

«Coprono meno dell’uno per cento dei fondi oceanici – scrive il National Geographic – ma ospitano più di un quarto di tutte le forme di vita marina». Le barriere coralline sono un mondo complesso costituito prevalentemente da polipi che appartengono al phylum dei celenterati, in particolare alla classe degli Antozoa. La loro salute, però, è in serio pericolo. «Un rapporto dello United Nations Environmental Program – informa Elisabeth Svoboda su Le Scienze – stima che, a causa innanzitutto del riscaldamento degli oceani, entro il 2034 gran parte delle barriere coralline in tutto il pianeta subirà uno sbiancamento grave ogni anno, e in mancanza di intervento scomparirà completamente entro il 2100».

Il male endemico si chiama sbiancamento. La Grande barriera corallina dell’Australia, la più grande del mondo, costituita da circa 3 mila sistemi di barriere, patrimonio dell’umanità dell’Unesco dal 1981, negli ultimi cinque anni è stata colpita ben tre volte dallo sbiancamento. Il fenomeno, osservato per la prima volta in Australia, nel 1982, dall’ecologo marino della Southern Cross University, Peter Harrison, divenne globale tra il 1997 e il 1998, uccidendo il 16 per cento dei coralli mondiali.

Lo sbiancamento è un’alterazione del processo simbiontico dei coralli, difficile da contrastare. Questi, infatti, ospitano alghe zooxantelle che, con la loro fotosintesi, forniscono ai coralli ossigeno, alimenti e rimuovono i rifiuti. Il meccanismo è molto delicato e dipende da alcune caratteristiche imprescindibili dell’ambiente marino. «La temperatura – spiega il biologo marino Alessandro Nicoletti che ha un’associazione di volontariato che si occupa, tra l’altro, di conservazione dei coralli – deve essere compresa tra i 20 e i 28 gradi, la salinità dell’acqua tra 32 e 45 parti per milione, la concentrazione di anidride carbonica deve essere bassa, le acque trasparenti e ben irradiate per consentire la fotosintesi, i moti ondosi frequenti ma non distruttivi».

Quello che sta accadendo, invece, è giusto l’opposto: l’anidride carbonica in atmosfera sta aumentando notevolmente e, conseguentemente, anche la temperatura e l’acidità degli oceani con un inevitabile mutamento delle condizioni ambientali. «Il riscaldamento e l’acidificazione degli oceani provocati da livelli di anidride carbonica sempre più alti – osserva Elisabeth Svoboda –, ostacolano il processo di calcificazione, favorito dai microbi, che crea la struttura dei coralli, e rendono più difficile riparare i danni. Allo stesso tempo i polipi stressati restano senza una fonte di cibo perché espellono le proprie alghe symbiodinium (zooxantelle, ndr), che trasformano la luce solare nel loro nutrimento. Così i coralli assumono un tipico aspetto sbiancato». Per i biologi è un segno di fragilità e di debolezza di fronte alle malattie.

Il problema è di grande attualità e si cerca di correre ai ripari. «È importante – aggiunge Nicoletti – il monitoraggio, la ricerca e il restauro per salvaguardare le barriere coralline». In questa direzione è andato il progetto CREM (Coral reefscape ecology and mapping) della Commissione Europea che, utilizzando immagini ad alta risoluzione da satelliti e aerei, ha studiato la relazione tra la struttura delle barriere coralline e la loro comunità biologica. Tuttavia i risultati più incoraggianti si aspettano dalle tecniche di coltivazione.

«Per fortuna – conferma Jennifer Holland su National Geographicnonostante siano animali, i coralli si possono coltivare proprio come le piante». Si raccolgono dei frammenti, si coltivano in laboratorio e gli individui più maturi si trapiantano. «Alcuni esperti nell’allevamento di questi invertebrati – aggiunge Jennifer Holland – hanno cercato di coltivare autentici mattoni del reef, i coralli massivi e i coralli cervello, veri giganti a crescita lenta che possono impiegare decine di anni per raggiungere la maturità riproduttiva».

Sono tecniche comunque lente e costose, per cui si cercano strade alternative e più veloci. Tra queste l’uso di probiotici, «una miscela di batteri – spiega Svoboda – progettata per stimolare la resilienza in condizioni difficili». Anche in questo caso non mancano le preoccupazioni. Per alcuni scienziati seminare batteri sulle barriere coralline potrebbe alterare l’ecosistema dell’oceano a un livello fondamentale. «Nessuno sa con precisione quali effetti avranno le terapie sulle forme di vita dell’oceano agli altri livelli della catena alimentare», scrive Svoboda. È una corsa contro il tempo e non è detto che la si vinca.

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Ambiente

Il dibattito sull’agricoltura biodinamica

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Può aiutarmi a capire la differenza tra agricoltura biologica e biodinamica di cui si dibatte in Parlamento in questi giorni? Un lettore


Non è semplice, anzi è decisamente complicato dipanare una disputa sollevata dal disegno di legge 988, approvato, il 20 maggio, dal Senato. Si tratta delle Disposizioni per la tutela, lo sviluppo e la competitività della produzione agricola, agroalimentare e dell’acquacoltura con metodi biologici, una normativa a lungo richiesta per dare impulso al settore biologico. «L’Unione europea – spiega il sen. Mino Taricco, illustrando il progetto legislativo – conta di investire, a partire dall’anno prossimo, oltre 40 milioni di euro nella promozione del metodo dell’agricoltura biologica, poiché ravvede in questa tipologia di agricoltura uno strumento per la lotta ai cambiamenti climatici, per la tutela e la salvaguardia della biodiversità e per un’agricoltura più sostenibile». Senonché tra le righe del disegno di legge si fa cenno anche all’agricoltura biodinamica. La senatrice Elena Cattaneo chiede di eliminare dal provvedimento l’equiparazione tra l’agricoltura biologica e quella biodinamica; il mondo scientifico che si occupa di agricoltura invia una lettera ai senatori, avvia una petizione su Change.org e, il 15 giugno, spedisce una missiva al ministro delle Politiche agricole e ai deputati affinché modifichino gli articoli 1, 5 e 8 in cui si parla, appunto, di biodinamico. Perché? Non è questione di lana caprina: tra l’agricoltura biologica e quella biodinamica ci sono analogie e differenze. Analogie nei fini. Entrambe rifiutano prodotti chimici di sintesi (fertilizzanti, diserbanti, insetticidi…), curano l’alimentazione del bestiame con mangimi non trattati chimicamente, non fanno uso di antibiotici, ormoni o stimolanti della crescita, adottano la rotazione delle colture con l’obiettivo dichiarato del rispetto dell’ambiente e della biodiversità, della salute delle piante e di una miglior qualità degli alimenti. La biodinamica rivendica, in particolare, un profondo legame con la natura, il completo rispetto dei suoi ritmi e la gestione del terreno seguendo i cicli naturali. Aspetti che gli scienziati non contestano, in quanto appartengono al patrimonio culturale e scientifico del passato che va salvaguardato e valorizzato. Dubbi invece sollevano quegli aspetti della biodinamica che richiamano i principi esoterici e astrali. Questo tipo di agricoltura, infatti, fu fondata, agli inizi del Novecento, da Rudolf Joseph Lorenz Steiner, esoterista e teosofo austriaco, padre dell’antroposofia. La scienza obietta che nei ‘preparati biodinamici’ come il ‘corno letame’ o il ‘corno silice’ c’è poca scienza e si domanda: «Il Paese di Galileo Galilei può sostenere economicamente pratiche magiche?». L’Associazione per l’agricoltura biodinamica si difende. «Al fine di identificare l’agricoltura biodinamica – scrive il suo presidente, Carlo Triarico, sul suo blog – oltre ad affermare che è un metodo interno all’agricoltura biologica, bisogna indicare le sue peculiarità e caratteristiche distintive. È importante comprendere nella definizione, non solo l’uso dei preparati (del resto previsti dagli stessi regolamenti UE della bioagricoltura), ma anche e soprattutto i disciplinari affermatisi da lunga tradizione di applicazione che caratterizzano la gestione aziendale agro-ecologica a ciclo chiuso». È pur vero che il biodinamico non è estraneo alla normativa europea e italiana, manca, però, uno specifico riconoscimento e questo, inevitabilmente, crea una sorta di ambiguità persino nella certificazione. Nella disputa c’è, tuttavia, qualcosa di più profondo che non appare immediatamente. Il richiamo al naturale, secondo gli scienziati, non necessariamente significa più sano. L’adozione, poi, del principio di precauzione, benché non basato su dati scientifici, rallenta l’introduzione di novità in campo agricolo. Questo è vissuto con frustrazione dalle scienze agrarie, quasi che la società, o parti più agguerrite di essa, vogliano bloccarne lo sviluppo.  Non è però un mistero che il cittadino tema danni irreparabili all’ambiente e alla salute. D’altronde la rivoluzione verde, nonostante stia aiutando la popolazione mondiale ad affrontare i problemi della fame, è responsabile di alti costi per l’ambiente. Sono aspetti che pesano sulle decisioni del legislatore, il quale è prima di tutto un cittadino. L’alternativa c’è ed è un confronto sereno, senza pregiudizi e dogmatismi di sorta. Le scienze, e dunque anche quelle agrarie, devono imparare a colloquiare con la società, evitando di montare in cattedra. È fondamentale per evitare contrapposizioni che finiscono per risolversi in un braccio di ferro.
Società

Covid, politici e scienziati: chi comanda?

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In questo periodo di pandemia è bene che siano gli scienziati a comandare e decidere cosa devono fare i cittadini, oppure la politica deve riprendersi la responsabilità di decidere?  


Politica e scienza non hanno la stessa preoccupazione, ma da prospettive diverse potrebbero trovarsi a dover concorrere per lo stesso obiettivo. Questo è quanto ha messo in evidenza il Covid 19. Ma se da un lato è la tutela della salute l’emergenza più impellente, dall’altro non si può negare l’importanza delle ragioni dell’economia, del lavoro e delle famiglie. Le decisioni non sono così semplici. Maggiormente in Italia che in altri stati, poiché salute e lavoro sono entrambi diritti di rango costituzionale. La scelta del lockdown, la chiusura di tutte le attività, reputata fondamentale dalla scienza per arginare la pandemia, ha trovato resistenze in diversi Paesi. Per esempio, negli Usa e in Inghilterra. Gli esiti sono assai drammatici. Con rispettivamente 81 mila morti, secondo la Johns Hopkins University, e 40 mila, secondo le stime dell’Office for National Statistics, gli Usa e l’Inghilterra sono al vertice della tragica classifica dei decessi da coronavirus. Anche nel continente europeo non sono mancate le voci distoniche. La Svezia, infatti, ha deciso di non chiudere. In questi Paesi la politica si è mossa in totale autonomia rispetto alla scienza, accettando anche rischi notevoli. Scienza e politica si possono trovare, quindi, anche in contrapposizione su problemi scottanti e in una società democratica il tema è delicato e non può essere eluso. «La scienza – ha scritto Walter Ricciardi, consigliere del Ministero della Salute per l’emergenza coronavirus in febbraio su Avvenire – è un sistema di conoscenze caratterizzato dalla ricerca della verità attraverso prove riproducibili, mentre la politica è una vocazione pienamente impegnata nelle scompaginate circostanze e nei compromessi del mondo reale». Tutto, però, è molto più complesso a partire dai tempi. Quelli della politica e della scienza sono molto diversi. La scienza ha bisogno di evidenza, di dati che confermino o confutino le ipotesi; la politica, invece, considera la rilevanza del problema, ciò che è più importante nel momento in cui deve prendere una decisione. Da un lato la ricerca, dall’altro il pragmatismo. Tra questi due ambiti si dipana il rapporto tra scienza e politica. Che cosa sa la scienza del coronavirus? Molto, ma non abbastanza per dare risposte a percorsi terapeutici o vaccini. Tanti sono i dati raccolti in questi mesi, molte le piste seguite per trovare una via di uscita, ma nessuna ha superato ancora le regole di una sperimentazione rigorosa. Quello che è successo è abbastanza semplice: i medici hanno utilizzato le conoscenze impiegate in casi analoghi e hanno ottenuto qualche buon risultato. Si tratta tuttavia di indicazioni, di piste promettenti da verificare, al più di speranze. Altra cosa è un vero e proprio studio osservazionale. «Da quando la pandemia ci ha investito – ragiona sul Corriere della sera Paolo Giordano, fisico prim’ancora che scrittore – l’umanità intera vive in un limbo della conoscenza, dove gli indizi non sono prove, dove le cure sono ‘promettenti’ ma non adeguatamente sperimentate, dove gli articoli sul Covid sono pre-print in attesa di validazione». Se per la scienza il cammino è ancora in salita, per il cittadino e la politica, spesso a digiuno di cultura scientifica, contano più le paure a livello sociale e le incertezze sul futuro. Le emozioni hanno un peso maggiore nella decisione politica rispetto alla razionalità scientifica. Inoltre, sebbene la disputa e la dialettica appartengano alla fisiologia del lavoro scientifico, il dissenso tra scienziati rischia di alimentare la confusione e di creare pretesti per il pregiudizio. Tanto dice tra le righe un sondaggio di Mediamonitor.it. sui politici e i virologi più citati. Nonostante il periodo favorevole per la scienza, il primo virologo della lista è Massimo Galli, primario infettivologo dell’ospedale Sacco di Milano, più volte presente in varie trasmissioni televisive in queste settimane. Il suo nome compare solo al diciannovesimo posto. In queste condizioni il bilanciamento tra le ragioni della scienza e quelle della politica non è affatto semplice.
Ambiente

Si può produrre energia dall’idrogeno?

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Ho sentito parlare della possibilità di usare l'idrogeno come carburante e fonte energetica. Sarei curiosa di sapere se è possibile, grazie. Domenica


L’idrogeno risolverebbe la maggior parte dei problemi energetici in ogni parte del pianeta, non avrebbe conseguenze per l’ambiente e sui cambiamenti climatici e, sul piano geopolitico, vanificherebbe i rapporti di forza tra nazioni ricche di petrolio e povere. Non aveva torto Jeremy Rifkin ad ipotizzare, all’inizio degli anni Duemila, un’economia ad idrogeno. Come mai, allora, dati i così tanti aspetti positivi non è ancora decollata? La domanda è legittima, la risposta, invece, è piuttosto difficile. Accantonando ogni ipotesi dietrologica relativa a subdoli interessi da parte di poteri forti, per cogliere il senso di tanta inerzia è opportuno valutare il problema in tutti i suoi aspetti. L’idrogeno è il componente più abbondante nell’universo, ma, essendo un gas leggero, sfugge facilmente all’atmosfera e sul nostro pianeta è presente solo in combinazione con altri elementi. Per esempio, con l’ossigeno nell’acqua e con il carbonio nei composti organici. Il fatto che non si trovi allo stato libero, ma sempre combinato è un grosso problema: occorre produrlo. Non si parla, infatti, di una fonte di energia, come nel caso dei combustibili fossili, ma di vettore energetico. Un buon vettore, dal momento che, paragonato alla benzina, una stessa quantità d’idrogeno produce una energia tre volte maggiore. Ha, però, un difetto serio: occupa volumi enormi. Per limitarne lo spazio, è necessario comprimerlo a pressioni alte, che possono raggiungere 700 volte quella dell’atmosfera o portarlo allo stato liquido, a meno 259 gradi Celsius. Un vantaggio c’è, e non da poco: in qualsiasi modo lo si usi, l’idrogeno è un’energia pulita, non rilascia in atmosfera e sul terreno residui tossici o inquinanti o sostanze che possono peggiorare la situazione climatica. Molti studi indicano nell’idrogeno l’unica strada per ridurre la dipendenza dai paesi produttori di petrolio e diminuire l’effetto serra. Per l’ambiente è un toccasana. L’Unione europea, aderendo all’Accordo di Parigi, lo considera di importanza strategica per conseguire, entro il 2050, la riduzione dei gas serra del 95 per cento rispetto ai livelli del 1990. Molta attenzione è posta al settore dei trasporti che, in Europa, da solo vale il 30 per cento di emissioni di CO2. Nel trasporto, l’idrogeno può essere usato direttamente come carburante nei motori a combustione interna. Veicoli di questo tipo sono Hicev (Hydrogen internal combustion engine vehicle). Oppure può essere usato per produrre energia elettrica in celle a combustibile. Questi sono i veicoli Fcev (Fuel cell electric vehicle). In entrambi i casi le emissioni sono di vapore acqueo, non inquinanti. Sebbene non manchino modelli Hicev, le aziende automobilistiche stanno puntando soprattutto sulla tecnologia Fcev. Tuttavia, il settore cresce molto a rilento. Più che dell’oggi, l’idrogeno è considerato un’energia del domani e la ragione è soprattutto economica. «I problemi maggiori che hanno frenato fino ad oggi un utilizzo in campo energetico dell’idrogeno sono di carattere economico», conferma Gianluca Salerio, Responsabile area normativa UNI. «Da un confronto con le altre fonti fossili - aggiunge - l’idrogeno ha costi più elevati, e ciò ha determinato un ritardo nella sua diffusione». Diversi sono i modi di produzione con differenti costi ed emissioni ambientali, tanto che, in base al grado di impatto sull’ambiente, si parla di idrogeno grigio, blu e verde. Il più pulito è quello verde. Invece il 95 per cento è grigio, è prodotto da gas naturale, idrocarburi e carbone con processi ad alto impatto. Solo il 5 per cento è assolutamente green, viene dall’elettrolisi dell’acqua e da energie rinnovabili (solare, eolico, idraulica), ma è anche il più costoso. Secondo stime del Politecnico di Torino i costi vanno dai 5 euro per le tecnologie più sporche fino ai 100 per quelle green. Questa è solo una parte del problema, ha un peso anche il fatto che l’idrogeno è un vettore.  Per ottenere il massimo di energia, occorre consumarne il meno possibile per la produzione, il trasporto e lo stoccaggio, altrimenti non è conveniente. C’è, infine, l’aspetto sicurezza. Pressioni 700 volte superiori a quella dell’atmosfera richiedono contenitori dalle pareti spesse, che hanno un peso non ininfluente, e rivestimenti speciali per assicurare che l’idrogeno, che ha dimensioni molto piccole, non le attraversi e si disperda. Sono alcune delle ragioni per le quali le aziende automobilistiche vedono più convenienti i veicoli a ciclo ibrido (carburante fossile ed elettricità da batterie al litio). Di certo assicurano più immediati profitti, che non è un aspetto che va sottovalutato. Un contributo risolutivo potrà venire dalle celle a combustibile. Il settore è molto versatile. Di celle a combustibile ve ne sono di vari tipi e possono soddisfare le più diverse esigenze energetiche, dagli ausili elettronici (cellulari, fotocamere, computer portatili…) ai sistemi domestici per integrare l’energia discontinua del fotovoltaico fino a costituire elementi fondamentali di centrali a idrogeno basate su energie rinnovabili. Si tratta di sistemi di coproduzione di calore, idrogeno ed energia elettrica da biogas prodotto dai depuratori e nelle discariche di rifiuti. La maggior parte dei paesi industrializzati (Usa, Canada, Giappone, Corea del Sud, Europa) si sta appassionando alle celle a combustibile. La ricerca, però, sta sondando anche altre possibilità. Si sta studiando l’uso delle alghe per la produzione di idrogeno e la fotosintesi artificiale. Su quest’ultimo aspetto Nature ha pubblicato un lavoro dell’Università di Exeter. Si sta studiando anche il modo di sostituire, nel processo di elettrolisi, i costosissimi catalizzatori al platino con ferro e nichel, molto più economici e si sta valutando l’uso dell’eccesso di energia elettrica dei parchi eolici e solari per alimentare l’elettrolisi. Indubbiamente il settore è vivace e ricco di iniziative. Secondo l’analisi ‘Hydrogen: a renevable energy perspective’, realizzata lo scorso settembre da Irena, l’agenzia internazionale per le energie rinnovabili, i miglioramenti nei sistemi di elettrolisi potrebbero dimezzare i costi di produzione di idrogeno con questo metodo entro il 2030. Insomma se è chiaro l’obiettivo della riduzione dei gas serra del 95 per cento rispetto al  1990, altra cosa è come arrivarci. Euroelectric, l’unione delle industrie europee di elettricità, spinge sull’elettricità, i gestori di metanodotti su un gas sempre più ‘green’ costituito essenzialmente da biometano e idrogeno. Uno studio Snam-Mckinsey ipotizza che l’idrogeno potrebbe fornire il 23 per cento di energia entro il 2050, più della percentuale fornita dall’energia elettrica. I settori più interessati all’idrogeno potrebbero essere il trasporto merci e quello pubblico, mentre per il riscaldamento domestico si punterebbe ad una miscela di gas e idrogeno. Il problema è sostanzialmente di natura politica. Spetta agli stati, ai governi dare l’indirizzo e orientare le risorse. L’Italia, nel 2016, con il decreto legislativo 257, ha recepito la direttiva europea per la realizzazione di infrastrutture per i combustibili alternativi, tra cui l’idrogeno. Alla fine dello scorso anno l’H2IT (Associazione italiana idrogeno e celle a combustibile) ha elaborato il Piano nazionale di sviluppo mobilità idrogeno. Idee ce ne sono tante, anche quella di trasformare la penisola in un hub per l’idrogeno prodotto nel Nord Africa con energia solare. Insomma, la strada non è in salita, ma nemmeno in discesa.
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