Negli ultimi anni ormai non facciamo che parlare delle relazioni fraterne. Partecipiamo a incontri, riempiano questionari di valutazione, ma le pecche di fondo rimangono sempre le stesse. Serve veramente parlarne?
Negli incontri di clero i rapporti interpersonali da qualche tempo sono al centro dei ritiri e della formazione. Sinceramente, ma che noia, sempre le stesse cose per poi non cambiare una virgola.
La fraternità. È un tema ineludibile oggi, anche se, come osservano le due voci femminile e maschile, sembra essere finito in un vicolo cieco. Sono numerose, è vero, le riflessioni, gli incontri e i testi che trattano delle usurpazioni all’interno del clero e della vita religiosa. Si usurpa la fiducia, si saccheggia la psiche non solo quando si giunge all’abuso sessuale, ma anche quando ci si appropria della capacità di autonomia e decisionale delle persone affidate, pretendendo di fare scelte al posto loro, e di orientare la coscienza collettiva col pensiero unico (il proprio).
Il mondo maschile ha le sue derive più facilmente in ambito fisico; quello femminile, come ormai si rileva apertamente, tende a corrompersi nelle forme di manipolazione e di ingiustizia all’interno delle dinamiche comunitarie.
Fin qui siamo tutti concordi. Il punto cruciale, e quindi le considerazioni inziali sono molto centrate, credo però sia come si possa ripensare in positivo questo scenario che sta emergendo grazie anche all’ingresso delle scienze umane nella vita di sacerdoti e religiosi/e. Penso che sguardi diversificati – non solo dall’interno, ma anche dall’esterno – abbiano permesso di superare alcuni silenzi ostinati, al limite dell’omertà, e stiano favorendo il fermento che oggi segna il nostro tempo, riguardo alla vita della Chiesa in generale, e delle sue espressioni vocazionali in particolare.
Va bene, ma quindi? Preso atto che alcune dinamiche vocazionali, legate al potere, alla gerarchia, alla provenienza geografica, sono state spesso ingiuste e molto gravi, è necessario aprire delle finestre di nuove possibilità di ripresa. La parte destruens non dico che sia la più facile, perché comunque ci è voluto molto tempo per poter sollevare alcuni temi scomodi ancora in ballo, ma senza dubbio è la più immediata.
Ora ci vuole il coraggio di proposte di orizzonte.
Lavorando a contatto con il mondo religioso: sacerdoti, missionari, suore, consacrate, laici impegnati, volontari, osservo le “buone pratiche” che notoriamente rimangono in sordina, ma che sarebbero da mettere in mezzo ai quintali di critiche che leggiamo e ascoltiamo ogni giorno. Senza edulcorare le realtà che rimangono gravemente difettose, e senza dipingere di rosa situazioni cariche di sofferenza.
Giorni fa lavorando con alcuni giovani sono rimasta sorpresa nel notare il clima di franchezza che emergeva dai loro vissuti condivisi. Non era una lezione teorica e l’intenzione di questi ragazzi non era certo quella di fare propaganda vocazionale, semplicemente raccontavano uno scambio avvenuto con i loro formatori. Devo dire che ho pensato che come vita fraterna la loro non era niente male! I ruoli rimangono chiari, ma le relazioni comunitarie sono scariche di soggezione e privilegi.
Il lavoro comune, ad esempio. Nel rispetto degli impegni personali diversificati, il ménage domestico è gestito in modo equanime da tutti, superiori, formatori, anziani e giovani. Tutti passano per la cucina, per il servizio a tavola, per la pulizia del giardino, e poi per i rispettivi lavori, magari anche di docenza accademica. Piccole cose, è chiaro.
L’equipe formativa – e già che ci sia un’equipe, e la formazione non sia affidata ad un’unica figura è molto – non abita spazi a sé, non gode di specialità proprie e i giovani possono contare su presenze concrete, perché si vive insieme gomito a gomito, presenze umane perché difettose, ma anche impegnate quanto i membri in formazione a portare avanti la vita comune e carismatica.
Ripeto spesso quanto sia necessario rispettare la riservatezza di ciascuno negli ambienti vocazionali, a motivo delle età, delle maturità e delle sensibilità diverse, tuttavia ci può e ci dovrebbe essere, uno scambio e un quotidiano autentico, non artefatto. Un altro esempio: chiedere a un fratello o a una sorella il cui familiare sta attraversando un momento duro, “come va? ha ricevuto i risultati dell’esame? è uscito dall’ospedale? ha trovato lavoro?” è fare famiglia senza invadere. Notare se Paolo o Carla sembrano particolarmente stanchi, perché più silenziosi a tavola, e provare a farsi prossimi magari sollevandoli da un onere, è un modo di essere fratelli e sorelle senza “impicciarsi” a tutti i costi dei dettagli personali.
La prossimità nella vita in comune talvolta rischia di essere confusa con forme infantili di gregge, e allora forse è proprio la dimensione che andrebbe recuperata nelle relazioni comunitarie. L’interesse per l’altro non è pettegolezzo, se mosso dalla volontà di far funzionare la propria famiglia. Certo non è “mia” la comunità, l’altro è chiamato da Dio, ha una propria identità, coscienza, e vocazione, ma condividiamo la scelta carismatica e la missione, quindi mi sta a cuore che insieme cerchiamo di stare bene e fare del bene.
Tra l’appropriarsi del carisma e della comunità come fossero oggetti personali o un esercito a mia disposizione, e vivere sotto l’insegna “ognuno per sé e Dio per tutti”, ci passa tutta l’esperienza della costruzione di un gruppo di fede e umano, adulto, orientato verso una missione, dove i singoli non sono giustapposti come estranei in un’azienda. Un’arte sopraffina senza dubbio.
Perciò, se butto l’occhio su chi mi siede accanto a tavola anziché essere concentrato solo sul mio piatto, se mi ingegno per trovare un modo di comunicare con Francesca e Marco che non sia discriminante, offensivo e che non li faccia sentire esclusi (è uno sforzo, sì), o ancora se cerco di favorire e partecipare ai momenti comuni non da maestro ma da fratello o sorella, sono sulla strada per la costruzione di nuove fraternità. È difficile, è vero, gli ambienti vocazionali sono feriti e logori da situazioni e da stili spesso duri a morire. L’alternativa, però, è mandare tutto all’aria, dimenticando che ieri come oggi ci sono uomini e donne incredibili, generosi, aperti al dialogo, con tanta voglia di cambiare a partire da se stessi, e i giovani che ancora si affacciano in seminario e nelle esperienze comunitarie, in ogni parte del mondo, ne sono testimoni.
Possono essere di aiuto, in questa direzione, i confronti interni tra presbiteri e in comunità, ma anche confronti esterni per non diventare autoreferenziati. La trasversalità di vocazioni e di competenze che si aiutano a vicenda, credo sia uno strumento efficace per assumere il coraggio di lasciarsi “guardare” da altri e non solo dallo specchio, che talvolta rimanda immagini ingannevoli.