L'esperto risponde / Società, Educazione

Ezio Aceti

Laureato in psicologia, consigliere dell’Ordine degli psicologi della Lombardia, esperto in psicologia evolutiva e scolastica, è nella redazione del giornalino Big Bambini in giro. ha pubblicato per Città Nuova: I linguaggi del corpo (2007); Comunicare fuori e dentro la famiglia (nuova ed. 2012), Crescer(ci) (2010); Mio figlio disabile (2011); con Giuseppe Milan, L’epoca delle speranze possibili. Adolescenti oggi (2010); Educare al sacro (2011); Mio figlio disabile (2011); Nonni oggi (2013); Crescere è una straordinaria avventura (2016); con Stefania Cagliani, Ad amare ci si educa (2017).

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Società

Primo giorno di scuola ai tempi del Covid

Sono molto preoccupata per il ritorno a scuola. Ascoltando la tv, l’impressione è di una gran confusione… Come saranno accolti i bambini? Una mamma

Il primo giorno di scuola è sempre stato per bambini e ragazzi un momento importante, per vari motivi dovuti soprattutto alla novità, alla curiosità e alle attese.

Infatti le emozioni che bambini e ragazzi vivono sono molteplici, a seguito di vari fattori:

  • desiderio di incontrare gli amici o i nuovi compagni dopo le vacanze
  • novità (soprattutto per i bambini di prima elementare, della scuola dell’infanzia e i ragazzi di prima media) per le nuove conoscenze, accompagnata da un certo timore e da varie attese.
  • tensione determinata dalla paura di “fare brutta figura”, per la consapevolezza del giudizio degli altri che incomincia ad essere importante, soprattutto per i ragazzi delle medie.
  • timore e curiosità rivolta alle nuove insegnanti, che comunque rimangono sempre figure adulte di riferimento verso le quali render conto.

Sappiamo che per moltissimi anni è stato così e soprattutto la pedagogia moderna è andata sempre più raffinandosi, strutturando momenti di accoglienza particolari con attenzioni pedagogiche ai bisogni dei bambini e dei ragazzi.

Ma… oggi c’è il coronavirus, questo piccolo, minuscolo nemico col quale dobbiamo fare i conti. E che conti! Assistiamo alla televisione ad un fermento, un subbuglio, un’agitazione per garantire in salute e sicurezza l’inizio dell’anno scolastico.

Tutto ciò è corretto, perché è necessario tutelare la sicurezza e la salute di tutti. Ma, chiediamoci, per i bambini e i ragazzi come sarà questo primo giorno al tempo del coronavirus? Sappiamo che la tensione è molto alta in quanto i ragazzi vengono da un periodo di assenza che ha interrotto i rapporti diretti. In più, il desiderio di incontrarsi è fortissimo e le aspettative molteplici, mentre le raccomandazioni dei genitori sui rischi del contagio e sulla prudenza che devono mantenere rimbombano nelle loro teste.

Per non parlare delle insegnanti che, pur con le loro caratteristiche specifiche, sono tutte alle prese con un carico d’ansia di gran lunga maggiore rispetto agli anni precedenti, dovuto a:

  • Il timore del contagio
  • La responsabilità nei confronti dei bambini
  • La paura di portare il contagio ad altri e anche ai loro famigliari

 

Insomma si può ben dire che la tensione è alta, particolarmente alta. Chiediamoci: cosa fare? Cosa è giusto per i bambini e per i ragazzi? Come strutturare l’accoglienza?

È stato Konrand Lorenz (1903-1989), premio Nobel per l’etologia ad aprirci la strada sull’importanza dei primi contatti, delle prime relazioni scoprendo e studiando quel fenomeno particolare da lui chiamato imprinting.

L’imprinting è quella prima esperienza che si struttura durante l’incontro e che tende a mantenersi a lungo e a determinare gran parte del resto della relazione. Curare bene l’imprinting allora significa, nel nostro caso, curare bene questa prima relazione.

Gli studi di psicologia evolutiva inoltre ci confermano che, per quanto riguarda i bambini e i ragazzi, è importante che questo primo giorno soddisfi tre bisogni fondamentali:

  1. accoglienza: i bambini devono sentirsi accolti e ben-voluti. Devono sentire che, nonostante tutto, è bello stare insieme. A questo proposito è importante esporre all’interno della scuola, della classe, un cartello, un disegno, una frase accogliente e soprattutto l’appello iniziale deve durare molto, in quanto è bene che l’insegnante chieda al bambino come è andata, come sta… insomma che i ragazzi si sentano accolti nel loro vissuto.
  2. responsabilità: i bambini e i ragazzi hanno il diritto di sapere la verità. Sarà importante parlare del Coronavirus con parole adeguate, facendo riferimento alla scienza. È importante però che questo venga fatto una volta sola, ripeto una volta sola. Questo per evitare di aumentare la tensione e soprattutto , dire ai ragazzi che se vorranno potranno chiedere tutto quanto ritengono giusto sapere.
  3. motivazione: i bambini e i ragazzi devono sentire che ci si fida di loro e che loro sapranno far bene. Devono sentire che in loro c’è la capacità di impegnarsi, di raggiungere dei risultati e che, se per caso sbaglieranno, potranno sempre recuperare.

Tutto ciò dovrà essere fatto lasciando spazio alla fantasia e all’inventiva delle insegnanti. Per realizzare tutto questo, l’insegnate ha uno strumento, lo strumento più importante degli esseri umani: la parola. L’utilizzo corretto della parola è di estrema importanza per la riuscita della relazione e del rapporto. Parlare è importante perché aiuta ad elaborare l’ansia e a trovare forza e risposta dentro di se.

Il parlare allora dovrà contenere tre concetti che corrispondono ai tre bisogni dei bambini e dei ragazzi:

  • l’empatia, che corrisponde all’accoglienza. Il bambino deve sentire che l’insegnante è con lui, che lo comprende. Questo lo può manifestare dicendo: sono molto contenta di cominciare con voi… e va detto anche se magari c’è un po’ di trepidazione, di tensione.
  • la realtà, che corrisponde alla responsabilità. Descrivere quello che sta succedendo senza allarmismi e nella verità, ma lasciando liberi di fare domande.
  • il sostegno, che corrisponde alla motivazione. È il più importante perché dimostra che l’insegnante si fida delle capacita dell’alunno e invita l’alunno ad entrare dentro di se e a scoprire le sue risorse. L’insegnante può terminare quanto sta dicendo affermando: «sono sicura che voi saprete come fare, che troverete voi il modo giusto di rapportarvi e di stare a scuola, che ve la caverete».

 

Se faremo così allora forse si riuscirà nell’intento fondamentale in questo periodo: quello di non togliere la paura, ma dare la possibilità di gestirla in modo intelligente e semplice.

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Società

L’intelligenza della tolleranza

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A un semaforo due auto si strusciano lievemente. Una delle due donne alla guida scende e comincia ad inveire con violenza e parolacce. L’altra, impaurita, si chiude dentro la macchina insieme ai suoi due bambini. Perché siamo diventati come bestie? E quei bambini che avranno pensato? Gianni


È stato il grande filosofo Blaise Pascal a dire che «l’uomo a volte è una bestia, altre un angelo». Intendendo con ciò la fragilità presente in ciascuno, insieme con la tendenza al male, che è sempre in agguato. Tutta l’evoluzione dell’umanità è avvenuta, tra l’altro, grazie al controllo dell’aggressività e delle emozioni. Ma questo processo è ancora in corso ed è lungo. Guerre e devastazioni si sono succedute durante tutta la storia umana, a dimostrazione che aggressività, rabbia e odio sono sempre in agguato. L’aggressività è come un lupo, che se ne sta accovacciato e pronto a colpire quando le nostre difese sono abbassate. “Difese” significa addomesticare l’aggressività, e prevenire, affinché le esperienze che scatenano la rabbia possano essere gestite in modo diverso. Ma in un mondo pieno di stimoli e di complessità, è facile cadere nelle reazioni emotive ed immediate. Allora, cosa possiamo fare? Due sono le azioni necessarie:
  • Educare ed educarci ad un linguaggio corretto, ad un comportamento corretto. Occorre bandire le parolacce, il linguaggio scurrile, evitare di mostrare ai nostri figli quei politici, presentatori e personaggi che si esprimono in modo volgare. Al posto di questo linguaggio, è invece importante utilizzare l’intelligenza e la moderazione, trasformando così istinto e rabbia in determinazione alla positività e all’altruismo.
  • Sviluppare la cultura della tolleranza, nei confronti delle fragilità e degli sbagli, propri e degli altri. Quanto è importante chiedere scusa a se stessi, agli altri e a Dio! Siamo come piante: se cresciamo in una terra inquinata di violenza, diventiamo anche noi violenti. Occorrerebbe una reazione di orgoglio, per rispondere pacificamente e in massa, con una disobbedienza, ogni qualvolta gli altri vogliono imporci la violenza e il proprio parere.
  Altro che muri, aggressività e violenza. Occorre aprire i cuori e usare l’intelligenza della tolleranza.
Società

Indifferenza dilagante

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Studio scienza dell’educazione e sono affascinato dall’enorme valore di ciascuno. Al contempo rimango disgustato dalla indifferenza dilagante… mi chiedo, ma chi veramente siamo noi ?


Un grande poeta e mistico spagnolo, Fernando Rielo (Madrid 1923-New York 2004), nel suo monumentale studio sull’antropologia della persona, afferma : «l’essere umano è una persona finita, aperta all’infinito». L’esperienza ci conferma continuamente la bontà e verità di questa affermazione in quanto sperimentiamo la nostra fragilità e debolezza insieme al desiderio incessante di infinito. Questa mescolanza fra debolezza fisica naturale e pensiero che è in grado di oltrepassare il concreto e il tangibile per viaggiare nelle sfere più alte dell’immaginario e dello Spirito, fanno parte dell’unicità di ciascuno. In realtà non esiste una divisione netta fra la nostra debolezza e il desiderio di trascendenza, fra la finitudine e il bisogno di infinito. Anche la persona più debole , come ad esempio un portatore di handicap, nella sua fisicità mutilata esprime un valore immenso e trascendente che ci porta alla profondità dell’essere. Ma chiediamoci: come è possibile tutto questo? Il pizzico di fango unito alla scintilla vitale è diventato una creatura corporale nuova, in gradi di divenire, al termine della sua esistenza, un seme per un futuro corpo spirituale. Questa percorso dell’esistenza che va dalla materia fangosa alla luce corporale è un’esperienza e possibilità di dono offerta a ciascuno di noi. Una esperienza di dono che però non possiamo vivere da soli, ma che si dispiega e si realizza insieme agli altri. La persona allora è creatura nata dall’amore che si sviluppa e si realizza solo nell’amore. Questo “amore fra persone“ è la radice della Nuova umanità pensata da Dio sin dall’origine. Ancora adesso la creazione continua, e Dio, mediante la nostra collaborazione, genera la nuova umanità. Nuova umanità da sempre desiderata da Dio e che Cristo ha fondato, rinnovandola e rendendola viva con la sua resurrezione.
Pediatria

Francesca ha paura

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Nostra figlia Francesca, di quasi sette anni, da un po’ di tempo ha troppa paura. Non basta rassicurarla e nemmeno più accompagnarla. Ha paura, soprattutto in casa se rimane sola in una stanza, e del buio… ma anche se gioca a nascondino, dopo aver contato non si allontana per andare a cercare gli altri. Grazia di Napoli


Numerosi sono gli studi sulle cause delle paure infantili. Si possono raggruppare in due categorie:
  • le caratteristiche interne o psicologiche del bambino: in questo caso le paure sono una espressione simbolica dei conflitti evolutivi.
  • l’apprendimento: il bambino impara ad avere paura come conseguenza degli avvertimenti o dei condizionamenti educativi (per esempio quando i genitori sottolineano indebitamente i pericoli dell’oscurità), o da esperienze traumatiche (quando ad esempio un bambino viene morso da un cane è facile che acquisisca una “fobia dei cani”)
Inoltre sono anche presenti fattori determinati dalla costituzione o dal temperamento del bambino. Francesca ha paura. Avere paura non è una colpa, anzi è una condizione che determina ansia, insicurezza, pensieri depressivi, disturbi somatici (mal di pancia). Tutti i bambini manifestano una varietà di paure durante l’infanzia. Le paure poi di solito diminuiscono man mano che i l bambino progredisce verso l’età adolescenziale e, normalmente, non solo non interferiscono con lo sviluppo psicosociale, ma sono funzionali allo sviluppo stesso in quanto permettono al bambino di prendere coscienza ed evitare determinati pericoli che possono realmente mettere a repentaglio la sua salute. Inoltre servono per rafforzare nel soggetto la distinzione fra l’Io e la realtà esterna. Le paure infantili poi, variano secondo l’età del bambino. Generalmente nei primi cinque anni, le paure e le fobie del bambino riguardano gli estranei, le streghe ed altri personaggi delle favole. Oltre soprattutto l’oscurità, l’essere lasciato solo al buio e certi animali. Successivamente, dai sei agli undici anni, fa paura la possibilità di perdere i genitori, la scuola, i castighi ( specialmente quelli minacciati da forze superiori , magiche o soprannaturali ), l’oscurità, alcuni fenomeni della natura (tuoni, lampi), i ladri, la violenza fisica. E allora, cosa fare? Tenendo conto che con la crescita le paure dovrebbero scomparire, tuttavia alcuni suggerimenti possono aiutare… Francesca, se da un punto di vista cognitivo è già una bambina preparata, forse emotivamente è ancora piccola e necessita di essere sostenuta. Potrebbe essere utile:
  1. evitare ammonimenti, proibizioni costrizioni o punizioni, perché alla lunga non fanno che aggravare la situazione
  2. evitare di dare la massima attenzione alla bambina in quanto capisce che in questo modo i genitori sono tutti per lei, e così può strumentalizzarli e condizionarli mantenendo il permanere della situazione di paura.
  3. non parlare continuamente a tavola delle paure o dei sogni del bambino, per non aumentare l’attenzione sulla paura.
Naturalmente, fino a quando Francesca va a scuola , ed è inserita nel contesto sociale, non ci sono grossi problemi. Diversamente se la paura tende ad ampliarsi, impedendole l’inserimento nella scuola o la vita con gli altri amichetti, allora forse sarebbe utile una osservazione da parte di uno specialista.  
Psicologia

Bambini e senso di Dio

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I bambini possiedono già il senso religioso? Non sarebbe bene educarli alla fede quando sono grandi ed in grado di comprendere? Angela (Parma)


Sin dall’antichità l’uomo possedeva un senso del sacro e del religioso molto forte, che si manifestava mediante i simboli, che diventavano cosi veicoli, segni, di questa profonda realtà, quasi testimoni destinati a perdurare nel tempo. Ma allora la religiosità è connaturale all’uomo? E se sì, come trovarne le tracce? A quale età possiamo identificare in modo chiaro queste orme della religiosità? Maria Montessori propende decisamente per una religiosità connaturata nell’uomo, quindi innata. Nel suo progetto educativo, infatti, molto spazio è dato alla formazione religiosa a partire dai 3 anni. Possiamo, quindi, parlare di religiosità infantile? Alcuni studiosi come Rizzuto e Aletti, si pongono in un’ottica dinamica e confermano la connaturalità religiosa del bambino. Aletti, infatti, afferma: «Il bambino si pone dei problemi di carattere essenziale, sproporzionati al suo momento di sviluppo: le risposte religiose sono inizialmente correlate in modo evidente a questi problemi. Sono, cioè, meccanismi di superamento e di adattamento di alcuni modi essenziali dell’esperienza infantile; proprio per questo contengono già un’intenzionalità trascendente, che si specifica a livello simbolico come una tendenza al superamento incessante di una visione meramente egocentrica dell’Io, verso la scoperta, l’accettazione e la relazione con l’altro». Certamente nel bambino non è ancora evidente una pura intenzionalità di rapporto col trascendente, essa è probabilmente ambivalente, perché condizionata in egual misura sia dai problemi di adattamento della prima infanzia, sia da fattori di apprendimento manipolati dall’esterno. Leggendo alcune testimonianze di ricercatori sulla religiosità del bambino, colpisce vedere come fanciulli che non hanno ricevuto nessuna educazione religiosa manifestino comunque un senso di Dio. Il bambino, infatti, vive dapprima in modo discontinuo alcune esperienze, emozioni, intuizioni trascendentali ricche di significato, già presenti in lui, che solo gradualmente e attraverso l’aiuto dell’ambiente diventeranno col tempo habitus costante. Ha ragione A. Fossard quando, parlando del bambino, dice che si muove a suo agio nel mondo del trascendente e gode sereno al contatto con Dio. Nell’aiutare la vita religiosa del bambino, dunque, non si impone qualcosa che gli estraneo, ma si risponde a una richiesta silenziosa: «Aiutami ad avvicinarmi a Dio». Anche se l’esperienza del trascendente è già presente nel bambino, è necessario comunque che venga accompagnata da relazioni umane significative che gli facciano comprendere la bellezza della vita e la grandezza del dono dell’amore. Sono molteplici gli studiosi che hanno approfondito i primi rapporti fra la madre e il bambino come prototipi dei futuri rapporti tra il bambino e il trascendente. Aiutare il bambino a conoscere la sua religiosità significa aiutarlo a crescere e a sviluppare tutto quello che la fede contiene: l’amore gratuito, la speranza nella vita e la gioia di donarsi agli altri.
Psicologia

Castrazione chimica e stupidità del male

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Dopo gli ultimi episodi di stupri, si parla di castrazione chimica. Che ne pensa?


Sarebbe bene, talvolta, turarci le orecchie. Se non altro per evitare di offuscare la trasmissione alle nuove generazioni del senso della vita e delle cose a venire. Quando l’ennesimo ministro di turno (guarda caso maschio), di fronte alle aberrazioni e ai soprusi sessuali nei confronti delle donne, propone come soluzione la castrazione chimica significa che abbiamo toccato il fondo della barbarie. Significa tornare alla legge del taglione, occhio per occhio, vendetta per vendetta. Questo modo stolto, cieco e rozzo di affrontare il problema è figlio di una mentalità che rappresenta l’ennesima tentazione del potere nelle mani dell’uomo: combattere il male con altro male. Tutto questo getta nefandezza sui colpevoli che vengono così considerati non degni di recupero, di pentimento, di stima, ma condannati in eterno, maledetti per sempre. Significa considerare l’uomo come un lupo, pronto a sbranare chiunque. Certo, mi si dirà, e la vittima? La vittima va curata, sostenuta, accolta con tutto l’impegno possibile. La vittima va amata, protetta, consolata e risarcita giustamente. E al persecutore occorre impedire che faccia altro male, ma senza infliggere altro male, bensì con l’idea del recupero, della riabilitazione, della possibilità di riscatto. Il male va sempre condannato (c’è qualche lettore che qualche volta non abbia commesso il male?), mentre la persona va sempre riabilitata. Cosa possono pensare i nostri ragazzi adolescenti se di fronte al male e alla sofferenza la risposta è un altro male? C’è il rischio di condannare tutto e tutti, di spegnere la speranza nella capacità dell’uomo di recupero e redenzione. Forse come generazione di adulti dovremmo vergognarci e chiedere scusa ai nostri figli per il cattivo esempio che diamo quando utilizziamo la vendetta e l’emozione negativa per infliggere ulteriore sofferenza. Indigniamoci, vergogniamoci, chiediamo scusa a quei giovani che a causa del nostro cattivo esempio non credono più al riscatto dell’uomo. Contemporaneamente però, impegniamoci in proposte che riscattino il male col bene, il negativo col positivo. Del resto, non è vero che basta una piccola luce per rischiarare anche il buio più profondo? Allora forza, accendiamo luci, accendiamole sempre!
Società

I giovani e i grandi problemi del mondo

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Ma i giovani d’oggi dove sono? Sembra che non incidano più come un tempo nella vita sociale… perché? Stefano (Livorno)


Carissimo Stefano, la tua riflessione contiene una parziale verità, perché ci mostra come nel tessuto sociale le generazioni si siano accorciate, e soprattutto come sembra scomparso il pensiero ideale e utopico. La caratteristica dei giovani è sempre stata quella dell’idealità, dell’utopia, delle scelte spesso ai margini, quasi trasgressive. Il mondo dei grandi di solito reagiva in modo normativo e rigido, ma era comunque costretto a constatare la propria inefficacia su molti interventi. Oggi, dove i quarantenni sembrano adolescenti, dove il gossip la fa da padrone, dove i populismi sembrano trionfare nella loro emotività sfrenante, dove sono i grandi ideali? C’è ancora l’utopia? Perché senza utopia una società prima o poi si appiattisce, si spegne nel tran tran quotidiano, scivolando verso il torpore dell’autosufficienza e della stagnazione. Questo avviene a tutti i livelli, da quello scolastico a quello lavorativo ed economico. L’analisi ci porterebbe lontano, ma in questa rubrica mi preme individuare una causa pedagogica che ritengo molto rilevante: l’atrofia del pensiero ideale. Gli studi scientifici dimostrano (Piaget ne è stato lo scopritore con i suoi esperimenti sull’aspetto cognitivo del bambino e del giovane) che durante l’adolescenza e la gioventù il pensiero, il modo di ragionale diventa ipotetico deduttivo, cioè in grado di grandi idealità e di grandi visioni. Certo, il giovane non ha l’esperienza, ma la sua mente, la sua ragione è in grado di elevarsi al di sopra della realtà e immaginare grandi scoperte, grandi novità, differenti da quelle conosciute. Ebbene questa capacità dei giovani oggi viene spesso sottovalutata e derisa da un mondo solo emotivo e coercitivo, che non è più in grado di mostrare fiducia nella capacità di questo pensiero giovanile. Siamo sommersi continuamente da parole emotive e frivole, carenti di grandi ideali e creatività. Occorre invece fidarci di più dei giovani, dar loro l’opportunità di coltivare grandi idee, e soprattutto presentare loro le sfide planetarie con fiducia nelle loro possibilità di risolverle. Orientare in modo forte la loro idealità verso la soluzione dei grandi problemi del mondo e non fermarsi solo al piccolo orticello di casa propria. Sarebbe un amore concreto verso le loro capacità e la loro persona, foriero magari di nuove utopie positive. Sì, i giovani meritano tutta la nostra fiducia e passione!
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