L'esperto risponde / Psicologia

Chiara D’Urbano

Psicologa e Psicoterapeuta EMDR, Consultore del Dicastero per il Clero, Perito della Rota Romana e dei Tribunali del Vicariato di Roma, ho studiato presso la Pontificia Università Gregoriana e poi mi sono specializzata in Psicologia clinica e Psicoterapia psicoanalitica. Mi occupo in particolare di formazione e accompagnamento psicoterapeutico della vita sacerdotale e consacrata e di problematiche di coppia. Collaboro nella ricerca e nella docenza con l’Istituto di Studi Superiori sulla Donna. Con l’editrice Città Nuova ho pubblicato tre libri: La pietra della follia, Per sempre o finché dura e Percorsi vocazionali e omosessualità.

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Mafie spirituali

Noi parliamo spesso delle mafie: è questo. Ma ci sono delle “mafie spirituali”, ci sono delle “mafie domestiche”, sempre, cercare qualcun altro per coprirsi e rimanere nelle tenebre. Non è facile vivere nella luce. La luce ci fa vedere tante cose brutte dentro di noi che noi non vogliamo vedere […]” (Omelia di Papa Francesco a S. Marta, 6 maggio 2020).

Sono parole che mi hanno molto colpito e che ritengo profondamente attuali e concrete per i tempi che stiamo vivendo oggi all’interno delle famiglie religiose. La politica delle “mafie domestiche” che caratterizza le scelte e le dinamiche di chi riveste ruoli di superiorato, è quella di chi li ha ricoperti in passato e non vuole mollare lo scettro, il potere e l’autorità avuti impedendo un cambiamento necessario per far sì che l’opera di Dio continui nel tempo, e non muoia o imploda a causa del calcolo umano. Gesù stesso ci dice nel Vangelo per vino nuovo ci vogliono otri nuovi. Chi beve vino vecchio non vuole vino nuovo. Dice infatti: quello vecchio è migliore. […] Mi rattrista dover constatare che alla fine è solo il nostro calcolo umano quello che affermiamo, che promoviamo, tutto fatto nel nascondimento, celato dietro alle giustificazioni di “un bene superiore e comune o per il bene della Provincia”. Come ribadisce anche il papa, questo atteggiamento ti porta a fare società con gli altri per rimanere sicuri nelle tenebre…Non è facile vivere nella luce.

[…] Io come giovane religiosa che, al momento presente, non ha voce nella propria famiglia religiosa, confido e spero nel Vino nuovo perché credo nella vita religiosa come scelta e stile di vita caratterizzato da trasparenza, rettitudine e onestà… nessuno di noi, nuove generazioni, chiede perfezione o comunità impeccabili, ma una adesione ferma a determinati valori che non sono negoziabili. Una giovane consacrata

 

 

La domanda è d’impatto, non c’è dubbio, decisa e coraggiosa. Provo a condividere qualche considerazione, sperando di dare la giusta accoglienza e risonanza a questa giovane voce e cercando di non scadere in letture che dividano in due la realtà: da una parte i buoni e puri, dall’altra i cattivi e “mafiosi”.

In effetti chi è più fresco di entrata, nei seminari o nelle comunità, ha uno sguardo altrettanto fresco, e un ideale forte e pulito: seguire il Signore attraverso l’intuizione carismatica di quella realtà o nell’impegno pastorale. Poco per volta, come è normale che sia, l’ideale si incarna nell’umanità propria e altrui che talvolta può non essere così meravigliosa, allora si sperimenta quasi una battuta d’arresto o una brusca caduta a terra. Ci può stare. Accade alle coppie dopo un po’ di tempo insieme, accade a seminaristi, giovani sacerdoti, religiosi e religiose quando passano i primi anni formativi. Con questo, però, non intendo dire che va bene così.

Vengo più direttamente alla sua riflessione. C’è una tradizione e c’è una storia su cui si fonda e si innesta la vita di una comunità oggi. Ci sono fratelli e sorelle che rappresentano la memoria storica di quella parrocchia, quella famiglia religiosa, c’è uno stile che negli anni si è consolidato, modi di vivere il ruolo, ad esempio come rettore, superiore/a, formatore/formatrice…

Come fare per non scartare tutta l’eredità, ma anche per rinnovarla veramente?

Non è per niente facile. Purtroppo accade che negli anni tutto questo si possa cristallizzare (consuetudini, ruoli, stile di preghiera), perdere di trasparenza e non riuscire più ad essere generativo. Uomini e donne si attaccano al potere – sebbene si tratti, visto dal di fuori, di un potere piccolo assai –, si innescano meccanismi molto umani di compiacenza con chi “può farmi comodo”, di sotterfugi, di amicizie che, anziché aprire e far crescere la vita in comune o la fraternità sacerdotale, creano separazioni, amplificano i conflitti (quindi non sono vere amicizie).

E ancora: alcune figure diventano intoccabili, passando tutt’al più da un ruolo a un altro (da superiore a vicario, a economo, a responsabile di formazione, per poi tornare superiore), senza che nessuno possa metterne in discussione le decisioni. Attorno a loro si creano gruppi devoti, compatti e uniformi che condividono uno stesso modo di intendere l’obbedienza, o l’apostolato, e possono perdere il contatto reale col resto della fraternità, e con le idee e proposte di chi ne sta “fuori”. Anche il linguaggio ne risente fortemente, in quanto si parla, appunto, di «noi e loro». Si viene a creare, di conseguenza, un sistema di concessioni, esenzioni e privilegi per quanti stanno dentro quel giro. Comprendo così le mafie spirituali. Non c’è da scandalizzarsi, succede e magari accade che siamo proprio noi all’interno del gruppo che gode di questa “immunità”.

L’economista Luigino Bruni ha scritto molto sull’atrofia in cui possono finire le Organizzazioni a Movente Ideale (OMI), e non risparmia parole forti: «Questa fraternità-prossimità semplice e universale è la prima che rischia di scomparire quando le comunità si strutturano e diventano organizzazioni via via più complesse. In questa trasformazione della natura delle relazioni si annidano virus tra i più subdoli e cattivi» (Il capitale narrativo – Città Nuova 2018).

 

Fin qui la parte critica – e anche la più immediata da riconoscere –, che però non può rimanere fine a se stessa. È essenziale, anzi, cercare di offrire delle possibili piste costruttive e propositive per non perdere l’autenticità del carisma, la freschezza della fraternità e la forza innovatrice di una vocazione individuale e comunitaria. Lamentarsi e basta è proprio ciò che Francesco ci invita a non fare! (cf. AL 57).

In questa direzione provo, quindi, a condividere qualche spunto.

  • Si parla di famiglia e di famiglia carismatica (anche la realtà sacerdotale lo è), quindi ragionare in termini di conflitto o di rivendicazione porta fuori strada, anzi direi che non è un buon indice di maturità avere sempre bisogno di fare “battaglie”.
  • Non sono solo i giovani, per età o entrata, ad avere la capacità di notare le stonature nell’esercizio dell’autorità o nel vissuto comunitario. Talvolta anche fratelli e sorelle anziani hanno questa vivacità di mente e cuore, per cui dar loro voce è fondamentale. Scartare a priori una opinione solo perché proviene dalla «solita» o dal «solito» rompiscatole rischia di spegnere l’opportunità preziosa che una comunità ha di rinnovarsi. Ci vogliono coraggio e libertà interiore per dare spazio alle voci apparentemente dissonanti.
  • Poiché si tratta di questioni importanti e delicate, che toccano l’incarnazione del carisma oggi, i corridoi e le stanze private non sono la sede adatta per portare avanti discorsi simili (anche questo è mafioso). Sarebbe veramente importante trovare spazi pubblici e tempi regolari per poter dialogare. Dialogare è un’arte, si acquisisce praticandola, altrimenti il trovarsi insieme diventa un caos, fatto di accuse e giustificazioni. Il dialogo deve fare spazio all’altro, mettere ognuno nelle condizioni di dire la propria idea e ascoltare gli altri, senza giudizi reciproci e senza che nessuno si possa ritenere super partes. L’apertura deve essere bidirezionale: membri verso superiori e viceversa; ciascuno potrebbe vedere o comprendere cose che l’altro non vede, per questo l’ascolto accogliente è fondamentale.
  • A corollario: dialogare vuol dire anche impegnarsi a non creare fratture, né arrendersi (“volete andarvene anche voi?”), ma offrire suggerimenti senza pretendere di essere immediatamente ascoltati ed esauditi. Avere a cuore veramente il bene di una comunità significa non anteporre i propri tempi a quelli dei fratelli e delle sorelle.

 

Infine una parola alla giovane consacrata, icona di molte vocazioni innamorate e coraggiose. Posso dire che incontro una simile passione e coraggio anche in figure istituzionali: vescovi che sentono l’urgenza di rinnovare la formazione e la fraternità sacerdotale, per restituire trasparenza alle proprie diocesi; responsabili generali che avanzano proposte aggiornate e all’avanguardia rispetto al «si è sempre fatto così».

C’è tanta voglia di rinnovare la Chiesa, le realtà vocazionali e carismatiche. Credo sia vincente innanzitutto il crederci, come emerge nella riflessione iniziale, e poi “lo stile”. Se è di confronto e di autentica volontà di progredire insieme (non, quindi, una lotta personale), i risultati, nel tempo, arriveranno. Conosco tante belle esperienze seminariali e comunitarie che sono in questo processo dinamico e profetico. Sono certa che saranno sempre meno isolate.

 

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Vocazioni di serie A e di serie B?

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Ho letto su questa rubrica le considerazioni della consacrata non-italiana, e sull’Osservatore Romano la denuncia coraggiosa sulle suore sfruttate, denuncia che ha fatto il giro del web. Allora le nostre proteste non sono poi così lontane dalla realtà! Una consacrata non-italiana In parrocchia cerco di coinvolgere le suore che sono nel quartiere per darmi una mano nelle catechesi o nella formazione dei laici, ma mi rispondono spesso che non si sentono all’altezza; sono loro stesse che si sentono più a loro agio in ruoli di retroguardia. Un sacerdote


Non credo che serva esattamente una “risposta” a queste riflessioni così significative. Preferisco condividere pensieri vari, allargando lo sguardo, ma cercando di non perdere di vista il tema. Qualche anno fa Francesco rivolgendosi all’Unione dei Superiori Maggiori in Italia, in un discorso poi riportato nell’articolo di Civiltà Cattolica «Svegliate il mondo», ha parlato della formazione come opera artigianale e non poliziesca, della necessità di formare i cuori altrimenti si formano «piccoli mostri» (diceva proprio così!), e di tenere aperti gli occhi sulla cosiddetta «tratta delle novizie», denunciata dai vescovi filippini. È la triste, ma reale situazione, del reclutare vocazioni straniere da inviare in Europa, continente che attraversa un periodo di grave crisi numerica. Nello stesso discorso il Papa si è pure lamentato della consapevolezza, oggi ancora inadeguata, della vocazione dei religiosi-non sacerdoti, alludendo, credo, al fatto che a volte si creano vocazioni di serie A, B, C... Faccio riferimento a quel discorso per dire innanzitutto che situazioni di squilibrio all’interno della Chiesa sono innegabili, e lo sono a più livelli, sia riguardo al rapporto maschile-femminile, sia riguardo al rapporto tra le diverse scelte vocazionali. E poi perché penso che alcune gravissime collusioni siano una responsabilità comune di vescovi, sacerdoti, ma anche delle Congregazioni stesse che non aiutano le proprie sorelle a crescere adeguatamente rendendosi donne libere, veramente adulte, condizioni essenziali per un cammino di fede e vocazionale autentico. Offrire un percorso di studi rischia di rendere le persone “fin troppo autonome”, dicono alcune superiore, ma più a monte la questione riguarda sempre un discernimento adeguato e la necessità imprescindibile di favorire la maturazione personale, aiutando chi non è nel posto giusto a scegliere altro. Non è certo una soluzione quella di lasciare nell’ignoranza i membri di una comunità, eventualità ancora oggi più frequente in ambito femminile che maschile, come del resto non è custodire una vocazione quella di lasciare il giovane/la giovane entro le 4 mura domestiche così non ha “tentazioni”. D’altro canto, riprendendo l’osservazione del sacerdote, spesso sono le consacrate stesse, pur avendo ricevuto strumenti adeguati, a non buttarsi nell’apostolato, a rimanere “come principesse”, diceva una formatrice, “sempre scontente”. Allora… la fraternità non ha “posti fissi” (chi pulisce e chi insegna), ed è possibile solo quando, uomo o donna, mi impegno a valorizzare la sensibilità e i talenti dell’altro, ad oppormi se la dignità del fratello o della sorella è sminuita in qualunque modo, ad incoraggiare e sostenere chi è più timoroso o insicuro nell’abbracciare un compito di cui si sente incapace, solo per stereotipi ormai interiorizzati. Insomma uomini e donne hanno ancora un bel daffare per potersi guardare negli occhi alla pari, perché, come diceva Etty Hillesum «Per umiliare qualcuno si deve essere in due: colui che umilia e colui che è umiliato, e soprattutto che si lascia umiliare» (Diario 1941-1943).
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Quanti problemi per le suore giovani straniere…

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Parliamo di congregazioni interculturali? Tante congregazioni, come nel mio caso, scarseggiano di vocazioni italiane, ma grazie a Dio arrivano dagli altri continenti. È difficile però parlare di interculturalità, è difficile parlare della preparazione di suore giovani che possano prendere delle responsabilità, come anche del passaggio di autorità. Le nostre idee, suggerimenti e proposte sono sempre sottovalutate. Quale futuro abbiamo noi, oltre alle strutture, se non abbiamo voce in capitolo come fossimo incapaci? Una consacrata non italiana        


La domanda è forte, nel senso che esprime tutta la passione con cui è scritta. Le racconto un’esperienza singolare, che faccio ultimamente nell’accompagnare alcuni consacrati non italiani: un tempo, mi pare, l’Italia era una meta ambita, per il tenore di vita che si supponeva migliore rispetto ad altre realtà, per la ricchezza culturale ed artistica del nostro paese e, in particolare, per l’unicità di un luogo come Roma che trasuda arte e storia. Oggi, invece, mi rendo conto che i giovani, dopo aver trascorso un tempo qui da noi, per studio o per apostolato, hanno una gran voglia di tornare nella propria terra, di servire il proprio popolo, anche se la missione è universale, e questo fa pensare a come siano cambiate le prospettive. Bisogna essere onesti, le nostre realtà comunitarie hanno una prevalenza di persone anziane ed è vero ciò che lei dice che le giovani di altri continenti sono vere e proprie missionarie rispetto ad ambienti per nulla facili, proprio per il gap di età talvolta enorme. È anche vero che alcuni anziani non si sono mai aperti all’interculturalità e continuano a guardare con sospetto lo “straniero”. Mentre oggi la vita comunitaria italiana dovrebbe esser grata dell’apporto prezioso e generoso di fratelli e sorelle che vengono spesso da molto lontano, portando un aiuto concreto e una ventata di freschezza davvero indispensabile. Quante liturgie prendono energia e vitalità dai canti e dalla bellezza di una ritualità diversa dalla nostra! Riguardo a quanto lei dice mi consenta, però, un tentativo di equa distribuzione (si fa per dire) delle “colpe” all’interno del gruppo: chi arriva da fuori-Italia soffre quando non si sente integrato, ma poi non sempre al desiderio di partecipare fa seguire un impegno effettivo di collaborazione e progettualità. I giovani e le giovani che chiedono di essere coinvolti nelle responsabilità istituzionali o negli incarichi apostolici, non sempre si buttano attivamente nell’avventura dell’unico carisma: talvolta alla critica non segue la disponibilità a rimboccarsi le maniche per risolvere il problema insieme. Dall’altro lato, però, discriminare le giovani suore per la loro provenienza è veramente grave. Anzi, le dirò di più, uno degli ultimi documenti della Congregazione per la Vita consacrata e le Società di vita apostolica, del 2017, Per vino nuovo otri nuovi, al n. 40 riconosce che la vita consacrata non deve rimanere “impermeabile” nell’incontro con le diverse culture, ma al contrario può diventare un laboratorio dove sensibilità e culture diverse acquistano «forza e significati non conosciuti altrove». La vita in comune è quindi lo spazio privilegiato per un incontro pienamente integrato e reciprocamente arricchente di varietà geografiche! Parole fortissime a cui il documento aggiunge, nello stesso numero, che «nessuna sorella deve essere relegata in uno stato di sudditanza, cosa che si riscontra purtroppo con frequenza». Lo dice a proposito del rapporto superiori/membri, ma è logico estendere questa chiara considerazione ai rapporti interculturali all’interno della comunità. Non ci sarebbe da aggiungere altro: il confronto aperto e costante è vitale, serve un continuo dialogo schietto, negli spazi e nei tempi opportuni, per affrontare le inevitabili criticità del vivere insieme. La comunità basata su un ideale è fatta di persone tutte adulte e tutte allo stesso livello. Ciò che cambiano sono i ruoli, ma questi non sono a vita. Chi è superiora oggi, domani torna a essere una sorella come le altre. Ci vuole tempo ma bisogna parlare, raccontarsi le soddisfazioni di ogni giorno (oltre ai problemi). Esprimere i disagi, farli venire fuori e confrontarli senza recriminazioni sterili, alla lunga paga e costruisce lo stare insieme. Le comunità che vivono separate al loro interno secondo delle caste finiscono per perdere qualunque efficacia missionaria e profetica.  
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Coppie, comunità e tradimenti

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Frequento un centro per anziani. Si passano ore serene, ma mi rendo conto che, nonostante l’età, ci sono molti “tradimenti” di coppia. Per non parlare di quello che succede sui social. È così difficile essere fedeli?


Un’accortezza che mi impegno a mantenere viva nel rispondere è quella di non slittare su toni moraleggianti, che non rientrano nelle mie intenzioni, neppure remote. Non ho delle statistiche in merito alla fedeltà delle coppie oggi rispetto a ieri, senza dubbio però, e credo che la convinzione sia condivisa da tutti noi, l’ambiente digitale ha moltiplicato in maniera esponenziale la possibilità di stabilire nuovi contatti relazionali senza troppa fatica, quindi anche di aprire degli spazi esterni rispetto alla coppia, e di coltivarli con la stessa leggerezza. Talvolta basta poco: un’emoticon inserita opportunamente all’interno di un messaggio – che molto probabilmente il partner “escluso” non approverebbe – può già rappresentare una remota, ma concreta possibilità di ferire l’intimità di coppia. E questa possibilità è trasversale ormai all’età cronologica. Siamo anche d’accordo tuttavia, perché è di immediata evidenza, che non può essere uno strumento esterno ad essere “colpevole” rispetto all’andamento delle coppie, come anche delle comunità. Condivido allora alcune considerazioni: la prima è che non è facile continuare a voler bene, amare e perdonare, cioè non chiudere il rapporto, quando si creano delle tensioni. Non è facile mettersi in discussione in prima persona anziché demandare all’altro la responsabilità di un litigio, trovare il tempo ogni giorno – non una volta al mese – di parlare, confrontarsi, raccontarsi le giornate vissute. Non è mai stato facile, ma oggi le strade alternative all’amore stabile sono molto più a portata di mano e assai poco dispendiose: se il mio partner non mi ascolta cosa ci vuole a raccontare in Rete le mie emozioni, magari ad una folla anonima, o a un nuovo contatto che invece si mostra più disponibile? Questione di un attimo, che poi diventa un secondo attimo e poi un terzo. Rifletto anche che le crisi non sono mai improvvise, ma “preparate” nel tempo con cura. Lo dico ironicamente ma anche realisticamente: si parla spesso di inconscio e ad esso si attribuiscono delle stranezze inspiegabili, mentre in realtà l’inconscio non è né muto né folle, siamo noi piuttosto che non riusciamo a prestargli credito e i segnali di disagio che manda li risolviamo, con aria sufficiente, con un “ma che male c’è!”. Quelle microfratture, inizialmente impercettibili, nella vita di coppia (giovane o anziana) o di comunità, invece, rappresentano una mano tesa verso l’esterno, anziché verso l’interno della famiglia. È un gran bell’impegno vivere insieme, sia in coppia, sia nelle esperienze di vita in comune, ma se siamo spaventati – e lo siamo! – dalla possibilità di disumanizzarci, cioè di perdere la capacità tutta umana di vivere relazioni d’amore in maniera profonda e continuativa, se osserviamo con dolore con quanta facilità “Tutto è scartabile, ciascuno usa e getta, spreca e rompe, sfrutta e spreme finché serve. E poi addio” (Amoris Laetitia, n. 39), se ormai la parola data dall’altro perde la sua potenza perché la fiducia si va sbiadendo… allora non dobbiamo rimanere inermi. Dall’uomo parte il suo smarrimento, dall’uomo parte la sua ripresa. Perciò al “movimento” oggi in corso, si può opporre – parola che normalmente non amo, ma che qui è necessaria – un cammino in direzione diversa, che sono convinta parta da un’attenzione meno anonima all’altro, il marito, la moglie, il fratello, la sorella; e dalla forza che può rappresentare la comunità circostante, che, se non è troppo distratta, può intercettare il malessere che uno dei propri membri vive e sostenerlo, offrendogli ascolto e un confronto solido, quando inizia a perdere l’orientamento.
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Io o noi?

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Abbiamo una sorella che vorrebbe aprire una nuova forma di apostolato. La comunità le ha detto che per ora non ci sono risorse adeguate per sostenere il suo progetto, ma lei ha deciso di andare avanti ulteriormente, convinta di essere così nella volontà di Dio. Una formatrice


Grazie per questa occasione di riflessione, mi dispiace aver dovuto sintetizzare le sue parole, comunque molto chiare e accorate. Mi pare che questo tema apra una sorta di voragine. L’esperienza più frequente delle comunità, almeno in un recente passato, è quello di chiarire subito con la persona che quando si intraprende un’esperienza di vita in comune, l’io diventa gradualmente e definitivamente un “noi”, per cui non ci sono più margini per i carismi personali, se non nella misura in cui rientrino nel progetto comunitario. Le stesse anziane ed anziani raccontano, oggi con simpatia, che una volta fin dall’inizio del percorso le formatrici/i formatori si premuravano di affidare loro compiti che andavano nella direzione opposta delle attitudini personali di gusto e di carattere, magari anche apertamente esplicitate, con l’intento, senza dubbio in buona fede, di non assecondare la natura, considerata quasi un limite anti-vocazionale e di aprire nuovi spazi a Dio. Per cui se c’era una predisposizione a lavorare la terra, la persona veniva mandata a studiare, con tutta la fatica ed il sacrificio immaginabili; e se viceversa ella aveva attitudini più intellettuali, queste venivano “santamente mortificate” in nome di una presunta maggior gloria di Dio. Ora, non credo che questo atteggiamento sia del tutto sbagliato, ma vorrei spiegarmi per non essere fraintesa. Che la comunità diventi il criterio per valutare le intuizioni personali credo sia un aspetto molto bello del vivere insieme, un po’ come in famiglia il marito o la moglie cercano di scegliere, accettare o meno un lavoro, intraprendere o meno un progetto, valutando le esigenze di tutti e confrontandosi l’uno con l’altro, almeno in coppia. Perché lo stesso non dovrebbe accadere nella comunità? Questo aspetto dell’essere “come una famiglia” mi pare che venga spesso messo da parte. Ciò non vuol dire assolutamente che allora l’individuo diventi un numero qualunque in una grande macchina produci-lavoro, ma neppure che perda del tutto il confronto con la sua realtà di appartenenza, e che la comunità debba adeguarsi a “quelle” specifiche esigenze, anche legittime, se per varie ragioni, non è ancora pronta per questo. La vita in comune è anti-economica dal punto di vista della -velocità! È una delle ragioni per cui penso che la comunità non sia per tutti. Non c’è dunque una soluzione o una ricetta esatta, che valga una volta per tutte. Credo con forza però che la vita in comune, se prevista da quella realtà carismatica, diventi parte integrante e non solo ornamentale della scelta individuale, e oggi questa prospettiva è la più a rischio. Ciò d’altra parte significa anche che la comunità, nell’accogliere un membro, si fa responsabilmente carico della sua storia e della sua sensibilità, continuandone a riconoscere sempre l’identità adulta ed autonoma, sforzandosi di essere attenta a ciò che la persona dice, alle idee e ai progetti che ella propone, avendo cura della sua unicità. Il dialogo continuo, paziente, fiducioso, e il coraggio di non chiudersi mai l’uno all’altro, anche quando ciò dovesse creare scontri e non solo confronti, penso siano la strada per trovare di volta in volta delle risposte, senza perdersi – la comunità isola la persona perché “strana” o troppo esigente, e la persona si distacca con rancore dal gruppo, perché non si sente capita – con i tempi sicuramente rallentati dal procedere… insieme e non da soli.
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Perdono e maturità umana

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Se dovesse individuare un aspetto essenziale per vivere meglio insieme quale indicherebbe? Si parla sempre di narcisismo ma in sostanza cosa vuol dire, perché a me sembra una parola senza prospettiva. Un consacrato


Condivido un pensiero sul quale ritorno spesso. Non c’è dubbio che l’umanità sia affamata di contatti e di relazioni. Le stesse chat, col bisogno di stare sempre connessi, esprimono il desiderio di non rimanere soli, di sentire costantemente la presenza di altri attorno. Però… c’è un però. Mi pare che siamo accecati da una sorta di occhio di bue, un grande faro illuminante che segue sempre e solo l’inquadratura di sé. Ecco il narcisismo. Una prospettiva ce l’avrei, una strada che sembra “scontata”, specie ai credenti, ma che non lo è affatto, un percorso anti-narcisista. Il perdono. Che non è una cosa da primi della classe buonisti. Come scriveva C.S. Lewis, «tutti dicono che è una cosa bella perdonare finché non tocca a loro perdonare qualcosa». C’è una grande e meravigliosa rivoluzione negli ultimi decenni: i professionisti della salute mentale, non necessariamente di orientamento religioso, hanno iniziato ad occuparsi di questa “cosa misteriosa” del perdonare come di un’abilità e un punto di forza dell’uomo, utile a migliorare la qualità della propria vita, a potenziare le capacità personali e naturalmente quelle relazionali. Dunque mettiamo da parte per un momento la dimensione religiosa, per non correre il rischio di far scivolare il perdono tra le questioni morali. Mi attengo al piano psicologico e condivido qualche spunto raccolto da vari studi che hanno un fascino enorme. Perdonare è un processo serissimo, adulto e soprattutto che sta ai vertici dell’amore, cioè dell’uscita da sé, espressione massima della maturità umana, prima ancora che di fede. Non è un atto puntuale, come spesso ce lo figuriamo, ma un cammino che devo volere con tutta me stessa, perché non avviene spontaneamente. Lo si potrebbe rappresentare così, anche se mi dispiace per la riduzione: è riuscire a restituire all’altro l’interezza della sua vita, a non vederlo più solo in quel frammento nel quale ci ha procurato una ferita, come se la persona fosse tutta lì, sgravandolo così del peso di essere un “offensore”. E poi perdonare significa anche a dare a noi stessi la possibilità di uscire da quel francobollo di sofferenza nel quale ci siamo fissati come se fosse l’intero della nostra esistenza. Se guardiamo un film non ci fermiamo su un unico fotogramma per un paio d’ore pensando così di aver visto tutta la storia. Mi sembra straordinaria la possibilità di alzarsi la mattina e guardare l’altro senza dover aprire l’archivio dei file delle memorie storiche. Perdonare non equivale a far cadere nell’oblio i ricordi, cosa peraltro impossibile alla mente umana, non vuol dire scansare la giustizia, non è una semplice riappacificazione, né un’accettazione passiva, e neanche un processo semplicemente empatico… è assai di più perché richiede uno sforzo interiore profondo di vera benevolenza, ed è espressione di assoluta gratuità. Non c’è un obbligo a perdonare, non è un dovere e la domanda spontanea “perché io?” aiuta a capire quanto sia un processo che prescinde da colpe e responsabilità. Lo ripeto: è un riappropriarsi della pienezza di vita e delle proprie emozioni, fino a quel momento delegate ad altri (quando si soffre, lo star bene dipende da qualcun altro!), e restituirla nella sua completezza. Negli ambienti di vita comune, comprese le famiglie, c’è tanta gente arrabbiata e appesantita dal rancore. Inutilmente. Gli studi ci dicono che chi è incline al perdono, come attitudine quotidiana e non straordinaria, riferisce minori livelli di stanchezza e depressione, è più ottimista, ha più speranza, e contemporaneamente è più libero da quei vissuti psichici negativi che spesso monopolizzano la mente di chi soffre. Chi non vorrebbe un ambiente di vita comune dove ciascuno è “leggero” e dona leggerezza all’altro?
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I religiosi e i soldi

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Una delle nostre discussioni più frequenti in comunità riguarda la gestione economica individuale e la proposta di alcune di noi di creare degli spazi dentro casa a cui si possa accedere senza dover attendere il momento dei pasti comuni. Una religiosa


La domanda entra in un campo che non è direttamente di mia competenza, però mi pare interessante perciò provo a condividere qualche riflessione pratica. Nell’ultimo convegno promosso dalla Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica dedicato al tema “Pastorale vocazionale e vita consacrata. Orizzonti e speranze”, il card. Stella ha parlato di Gesù come di un uomo che “curava i dettagli”. Veramente originale come considerazione! Degli esempi riportati, io ne ricordo solo alcuni: la ricerca della pecora smarrita non accontentandosi che il resto del gregge fosse comunque integro, il recupero dei pezzi avanzati dopo la moltiplicazione dei pani, per non farli sprecare, la cura degli invitati alle nozze di Cana a cui mancava il vino, cosa che potrebbe essere considerata un lusso superfluo… Mi sono tornate in mente queste considerazioni a proposito della questione a cui la religiosa ha accennato e che, a dire il vero, è condivisa in diversi ambienti di vita maschile e femminile, e cioè che rispettare il valore evangelico, come quello della povertà, non significhi necessariamente trascurare aspetti che possano permettere il benessere delle persone, anche quando sono, appunto, dettagli e non cose essenziali. Racconto l’esempio concreto di un religioso economo, il quale mi diceva che ha sempre voluto garantire tutti i comfort possibili alla propria comunità, per evitare che i frati cercassero altrove i piccoli piaceri, quelli semplici, come uno snack, una birra, un po’ di vino ai pasti… e aggiungeva, sorridendo, che la sua comunità è sempre piena, i religiosi non escono volentieri perché trovano tutto dentro le mura domestiche. Insomma la comunità è davvero “ casa”. Laddove le comunità, pur nel rispetto della povertà abbracciata, hanno cura dei membri, facendo in modo che i propri ambienti siano curati, luminosi, belli (quanto è formativa la bellezza!) e possano essere soddisfatti i piccoli desideri ordinari, non rischiano di costringere le persone ad uscire fuori per star bene. La formazione si rivolge al cuore delle persone per far crescere in loro motivazioni profonde alla scelta di vita che stanno compiendo, nelle sue varie espressioni, tuttavia questo non significa che poi debbano essere precisati tutti gli aspetti della vita comunitaria – non sono questi i dettagli curati da Gesù, mi pare – perché, come sappiamo, la vita consacrata/sacerdotale accoglie persone adulte o che comunque vengono aiutate a diventare tali. Privare una persona adulta di un ambiente il più possibile “naturale” credo sia davvero rischioso. Viceversa quando la persona ha a disposizione – senza ansia da “carestia” con conseguente accaparramento dei beni (osservazione che lo stesso economo mi condivideva) – un minimo di autonomia economica e di confort domestico, è più basso il rischio di squilibri. Del resto, credo che ciascuno debba sviluppare una personale sensibilità vocazionale – riguardo a castità, povertà, obbedienza, vita comunitaria – disegnando un proprio quadro all’interno di un’unica cornice carismatica, non troppo ingombrante.
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