L'esperto risponde / Famiglia

Ezio Aceti

Laureato in psicologia, consigliere dell’Ordine degli psicologi della Lombardia, esperto in psicologia evolutiva e scolastica, è nella redazione del giornalino Big Bambini in giro. ha pubblicato per Città Nuova: I linguaggi del corpo (2007); Comunicare fuori e dentro la famiglia (nuova ed. 2012), Crescer(ci) (2010); Mio figlio disabile (2011); con Giuseppe Milan, L’epoca delle speranze possibili. Adolescenti oggi (2010); Educare al sacro (2011); Mio figlio disabile (2011); Nonni oggi (2013); Crescere è una straordinaria avventura (2016); con Stefania Cagliani, Ad amare ci si educa (2017).

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Società

I bambini e la morte nel tempo del Coronavirus

Cosa dire ai bambini in questo scenario di morte quotidiana a causa del Covid-19? Una mamma molto preoccupata

 

Premessa
L’esperienza che stiamo vivendo in questi giorni di pandemia da Coronavirus è faticosa, difficile, a volte drammatica. Per la prima volta dopo tanti anni, ci troviamo a che fare con la realtà più assurda e drammatica della storia: la morte quasi improvvisa, quotidiana.

Molti adulti trovano difficile parlare ai bambini della morte di un animale e fanno fatica a trovare le parole immaginando la sofferenza del bambino. Figuriamoci poi parlare della morte di una persona cara e conosciuta dal bambino. Come parlare ai bambini della morte?

Cosa dire loro quando questa realtà riguarda il nonno, la nonna, la zia, lo zio o, in rari casi, la mamma o il papà? Per rispondere, permettetemi di fare un po’ di storia.

Nel Medioevo
Nei dipinti del medioevo è frequente trovare raffigurazioni ove monaci, religiosi e santi portano un teschio nella mano o lo stesso teschio appare depositato sopra un comodino, per ricordare che la morte è sempre nostra compagna.

La morte era uno degli argomenti più usuali durante le predicazioni e questo non tanto per incutere paura e riluttanza, ma per ammonire circa il comportamento della vita. Insomma la morte, nel suo dramma, incitava a vivere bene, con responsabilità e attenzione.

In questo modo il ricordo della morte e del dolore aveva un significato terapeutico: aiutava non solo a sopportare le avversità, ma anche a cercare di dare il meglio in ogni circostanza avversa.

Occorre poi ricordare che la morte era di casa, in seguito alle malattie, alle epidemie e alle guerre. I bambini assistevano alla morte in modo diretto e non solo vedevano morire molte persone, ma partecipavano al lutto con tutta la famiglia e i parenti anche per vari giorni. Nessuno quindi, nel Medioevo, si scandalizzava della morte e i bambini la consideravano come la realtà più naturale, della quale era ovvio parlare e discutere.

Epoca moderna
Con la rivoluzione scientifica e la modernità, il benessere e lo sviluppo della tecnica hanno permesso non solo la cura e la guarigione di molte malattie, ma soprattutto la paura della morte si è allontanata sempre più dalla vita. Si è cominciato a non parlare quasi più di questa esperienza ai bambini perché ritenuti incapaci di comprendere o per preservali dalla sofferenza.

Sappiamo che la media di vita nei paesi sviluppati è passata dai 50 anni del secolo scorso agli 80 di questo secolo e le proiezioni ci dicono che non è più un miraggio arrivare preso ai 100 anni.

Se tutto ciò è un bene e occorre sempre incoraggiare la ricerca scientifica per debellare le malattie più invalidanti e permettere una vecchiaia salutare, è importante però ricordarsi sempre che la morte non è scomparsa. In questo mondo non scomparirà mai. Insomma morire fa parte dell’esistenza ed è bene considerarla con tutto ciò che questo comporta.

E poi la morte non riguarda solo la vecchiaia, ma tutte le età. Da ciò si deduce il diritto inequivocabile di ogni persona a sapere e conoscere le verità della vita. Così è per la morte.

Il grande poeta libanese KhalilGibran (Bsarre 1833 – New York 1931) scrisse: «Vorreste conoscere il segreto della morte. Ma come trovarlo se non cercandolo nel cuore della vita?».

E poi, se la morte rappresenta il dolore più grande, specchio di tutti i dolori, il trovare parole, emozioni, sentimenti appropriati può essere di enorme aiuto per tutti, soprattutto per i bambini.

Oggi, adesso
In questo giorni la morte è quotidiana. Ci è stata sbattuta in faccia. Tante famiglie l’hanno subita, vissuta. Soprattutto, non hanno il tempo di piangere i loro cari… neanche il funerale è permesso… sembra quasi impossibile il ricordo! Si ha paura a descriverla. Si ha l’impressione che sia ingiusto morire. Morire in questo modo!

La morte sembra dare uno schiaffo all’onnipotenza della tecnica e della ricerca. Eppure è importante parlarne… Parlarne ai bambini.

I bambini
I bambini hanno diritto alla sincerità. Se qualcuno è malato o sta morendo è meglio essere sinceri. Occorre considerare che i bambini amano i grandi che gli vogliono bene. Se chi ci ama è silenzioso e cerca di nascondere le cose, i piccoli si sentono smarriti e fanno fatica a comprendere ciò che sta succedendo. Fingere che vada tutto bene e nascondere la verità è molto più triste per i bambini che dire loro cosa sta succedendo.

Allora occorre introdurre nel percorso educativo il concetto della morte e parlarne con i bambini. Questo è importante, sia da parte dei genitori che successivamente, durante le attività scolastiche, a partire dall’infanzia. Parlare della morte delle persone care, anche se è doloroso e faticoso, può aiutare i bambini a evocare i ricordi e dà a noi l’occasione di valorizzare il bene che quel parente ha lasciato. È importante utilizzare parole vere, che danno un senso compiuto a quanto sta succedendo.

Parole e gesti
Tutto quello che diciamo ai bambini deve essere vero e rispettoso dello sviluppo evolutivo. Quando sono piccoli è sufficiente una frase. Dai sette anni si possono utilizzare parole e azioni. L’importante che quello che diciamo sia sempre accompagnato dal sostegno o da un rito che in qualche modo aiuti a ricordare.

Anche in situazioni tragiche, come la morte della mamma o del papà, si può dire: «Di solito si muore da grandi… la mamma è morta giovane… possiamo pregare… andrà tutto bene». Certo le reazioni dei bambini potranno essere le più diverse: rabbia, impotenza, nostalgia, tristezza, pianto, senso di colpa. È fondamentale che i bambini possano manifestare quello che provano e trovino adulti che possano empatizzare con loro e comprendano il loro vissuto.

È poi importante proporre un rito regolare, come la preghiera o il pensiero quotidiano, per mantenere vivo il ricordo che ci dà la possibilità di parlare delle cose belle e importanti della vita.

Gesù e la morte
Nonostante tutto quanto abbiamo detto, occorre ricordare che la morte è comunque assurda e nemica dell’uomo. Non ha senso morire. Nessun senso.

A meno che la morte, nella sua tragicità, rappresenti un passaggio per una dimensione più grande. E papa Francesco, solo di fronte al mondo, ha manifestato il cuore di tanti chiedendo a Dio di proteggerci. È questo quello che Gesù è venuto a fare. È venuto a sconfiggere il pungiglione della morte che, anche se ci colpisce, non ha più il veleno della fine ma, con Cristo, può essere foriera di una vita più grande.

Una vita che, se circondata dall’amore verso gli altri, dalle parole di senso verso le sofferenze, e dall’aiuto verso tutti i bambini nella sincerità, verrà raccolta da Cristo per portarla nel seno del Padre. Questo è quello che occorre dire ai bambini!

Permettetemi di chiudere con un grazie a tutti quanti si stano prodigando per la cura e l’assistenza… insieme ad una particolare vicinanza e preghiera per chi ha perso i cari. Che Dio li tenga tutti stretti a sé… e li abbracci da parte nostra.

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Psicologia

I bambini, il corpo e gli affetti in tempo di pandemia

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Si torna a scuola. A causa della pandemia, però, stiamo insegnando ai bambini tante cose sbagliate: la paura del contatto fisico con l’altro, la pulizia ossessiva delle mani, l’impossibilità di ridere e giocare insieme. Quali conseguenze avrà sulla loro psiche?


Quello che sta succedendo in queste settimane, lentamente ha ripercussioni sulla nostra vita sociale e personale. Prima della pandemia eravamo abituati a programmare la giornata, il tempo lo sentivamo al nostro servizio potendo spostarci e muoverci senza problemi. Questo ci dava la sensazione di governare la realtà e le cose. Ora non è più cosi, cambia la nostra vita di relazione. Dobbiamo stare attenti a tutto e a tutti. Sembra che sia la realtà a determinarci in modo preponderante. Per non parlare poi delle relazioni affettive e amicali. I rituali abitudinari delle manifestazioni degli affetti come la stretta di mano, il bacio, l ‘abbraccio, le carezze, sembrano quasi completamente scomparsi, sostituiti dal saluto col gomito o con la mano sul cuore. Tutto questo porta psicologicamente molti di noi a vivere sospesi, sempre sul chi va là, un po’ impauriti, quasi dandoci la sensazione di non essere mai a posto e di vivere in una terra straniera. L’io sembra indebolito e non manifesta più, come una volta, il proprio essere. Soprattutto la dimensione fisica e corporea ha subito uno smacco, perché costretta a ritirarsi, a starsene in un angolo, in attesa che la tempesta passi, che il virus venga definitivamente sconfitto. Chi ne soffre di più è il corpo. Si, perché col pensiero ce ne facciamo una ragione, mentre il corpo vorrebbe esplodere, manifestare fino in fondo la gioia di essere fratelli e sorelle, ma non può. Questo digiuno fisico, concreto, ci fa comprendere quanto sia importante e prezioso il nostro corpo. Esso non è solo la sede delle reazioni fisiche, ma il luogo concreto ove manifestiamo chi siamo! La psicologia dell’inconscio ha approfondito in modo sistematico il linguaggio dei corpi, arrivando a testimoniare come esso esprima, con i suoi movimenti e i suoi gesti, la realtà più profonda di noi. Gli studi hanno scoperto come ogni gesto, ogni sguardo assumono un significato, diverso e profondo, e fanno parte degli usi e costumi di ogni popolo e civiltà. I nostri figli, poi, abituati a esprimere in modo predominante la vicinanza amicale con i segni del corpo, sono sicuramente contratti e soffrono di questa limitazione. Insomma la pandemia ha messo in crisi, soprattutto nelle giovani generazioni, modalità relazionali ormai consolidate. Cosa fare? Nell’attesa che in qualche modo il virus venga sconfitto, è necessario, per quanto possibile, sostituire il corpo con lo sguardo o altre manifestazioni che non eravamo abituati a utilizzare, come la mano sul cuore, il sorriso, la strizzata d’occhi e soprattutto il linguaggio, la parola. Facciamo in modo che il linguaggio sia sempre meno volgare e spavaldo, che diventi invece sempre più civile e caloroso, carico di premure e di affetto. Meglio abbondare con parole d’affetto e di sostegno che con continue lamentele e denigrazioni. Allora il “buon giorno” a scuola, il sorriso, l’interesse sincero per come va, insomma l’attenzione ad altre piccole premure, anche se non sostituiscono in modo completo l’abbraccio e il bacio amicale, possono comunque farci sentire insieme nel vivere e farci riconquistare la terra, la nostra terra, dove abitiamo come veri figli di Dio e fratelli fra noi. Tutto ciò nell’attesa di abbracciarci tutti di nuovo, perché, nonostante le fatiche, questo è il desiderio struggente in ciascuno di noi. Un abbraccio di cuore a tutti voi.  
Società

Primo giorno di scuola ai tempi del Covid

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Sono molto preoccupata per il ritorno a scuola. Ascoltando la tv, l’impressione è di una gran confusione… Come saranno accolti i bambini? Una mamma


Il primo giorno di scuola è sempre stato per bambini e ragazzi un momento importante, per vari motivi dovuti soprattutto alla novità, alla curiosità e alle attese. Infatti le emozioni che bambini e ragazzi vivono sono molteplici, a seguito di vari fattori:
  • desiderio di incontrare gli amici o i nuovi compagni dopo le vacanze
  • novità (soprattutto per i bambini di prima elementare, della scuola dell’infanzia e i ragazzi di prima media) per le nuove conoscenze, accompagnata da un certo timore e da varie attese.
  • tensione determinata dalla paura di “fare brutta figura”, per la consapevolezza del giudizio degli altri che incomincia ad essere importante, soprattutto per i ragazzi delle medie.
  • timore e curiosità rivolta alle nuove insegnanti, che comunque rimangono sempre figure adulte di riferimento verso le quali render conto.
Sappiamo che per moltissimi anni è stato così e soprattutto la pedagogia moderna è andata sempre più raffinandosi, strutturando momenti di accoglienza particolari con attenzioni pedagogiche ai bisogni dei bambini e dei ragazzi. Ma… oggi c’è il coronavirus, questo piccolo, minuscolo nemico col quale dobbiamo fare i conti. E che conti! Assistiamo alla televisione ad un fermento, un subbuglio, un’agitazione per garantire in salute e sicurezza l’inizio dell’anno scolastico. Tutto ciò è corretto, perché è necessario tutelare la sicurezza e la salute di tutti. Ma, chiediamoci, per i bambini e i ragazzi come sarà questo primo giorno al tempo del coronavirus? Sappiamo che la tensione è molto alta in quanto i ragazzi vengono da un periodo di assenza che ha interrotto i rapporti diretti. In più, il desiderio di incontrarsi è fortissimo e le aspettative molteplici, mentre le raccomandazioni dei genitori sui rischi del contagio e sulla prudenza che devono mantenere rimbombano nelle loro teste. Per non parlare delle insegnanti che, pur con le loro caratteristiche specifiche, sono tutte alle prese con un carico d’ansia di gran lunga maggiore rispetto agli anni precedenti, dovuto a:
  • Il timore del contagio
  • La responsabilità nei confronti dei bambini
  • La paura di portare il contagio ad altri e anche ai loro famigliari
  Insomma si può ben dire che la tensione è alta, particolarmente alta. Chiediamoci: cosa fare? Cosa è giusto per i bambini e per i ragazzi? Come strutturare l’accoglienza? È stato Konrand Lorenz (1903-1989), premio Nobel per l’etologia ad aprirci la strada sull’importanza dei primi contatti, delle prime relazioni scoprendo e studiando quel fenomeno particolare da lui chiamato imprinting. L’imprinting è quella prima esperienza che si struttura durante l’incontro e che tende a mantenersi a lungo e a determinare gran parte del resto della relazione. Curare bene l’imprinting allora significa, nel nostro caso, curare bene questa prima relazione. Gli studi di psicologia evolutiva inoltre ci confermano che, per quanto riguarda i bambini e i ragazzi, è importante che questo primo giorno soddisfi tre bisogni fondamentali:
  1. accoglienza: i bambini devono sentirsi accolti e ben-voluti. Devono sentire che, nonostante tutto, è bello stare insieme. A questo proposito è importante esporre all’interno della scuola, della classe, un cartello, un disegno, una frase accogliente e soprattutto l’appello iniziale deve durare molto, in quanto è bene che l’insegnante chieda al bambino come è andata, come sta… insomma che i ragazzi si sentano accolti nel loro vissuto.
  2. responsabilità: i bambini e i ragazzi hanno il diritto di sapere la verità. Sarà importante parlare del Coronavirus con parole adeguate, facendo riferimento alla scienza. È importante però che questo venga fatto una volta sola, ripeto una volta sola. Questo per evitare di aumentare la tensione e soprattutto , dire ai ragazzi che se vorranno potranno chiedere tutto quanto ritengono giusto sapere.
  3. motivazione: i bambini e i ragazzi devono sentire che ci si fida di loro e che loro sapranno far bene. Devono sentire che in loro c’è la capacità di impegnarsi, di raggiungere dei risultati e che, se per caso sbaglieranno, potranno sempre recuperare.
Tutto ciò dovrà essere fatto lasciando spazio alla fantasia e all’inventiva delle insegnanti. Per realizzare tutto questo, l’insegnate ha uno strumento, lo strumento più importante degli esseri umani: la parola. L’utilizzo corretto della parola è di estrema importanza per la riuscita della relazione e del rapporto. Parlare è importante perché aiuta ad elaborare l’ansia e a trovare forza e risposta dentro di se. Il parlare allora dovrà contenere tre concetti che corrispondono ai tre bisogni dei bambini e dei ragazzi:
  • l’empatia, che corrisponde all’accoglienza. Il bambino deve sentire che l’insegnante è con lui, che lo comprende. Questo lo può manifestare dicendo: sono molto contenta di cominciare con voi… e va detto anche se magari c’è un po’ di trepidazione, di tensione.
  • la realtà, che corrisponde alla responsabilità. Descrivere quello che sta succedendo senza allarmismi e nella verità, ma lasciando liberi di fare domande.
  • il sostegno, che corrisponde alla motivazione. È il più importante perché dimostra che l’insegnante si fida delle capacita dell’alunno e invita l’alunno ad entrare dentro di se e a scoprire le sue risorse. L’insegnante può terminare quanto sta dicendo affermando: «sono sicura che voi saprete come fare, che troverete voi il modo giusto di rapportarvi e di stare a scuola, che ve la caverete».
  Se faremo così allora forse si riuscirà nell’intento fondamentale in questo periodo: quello di non togliere la paura, ma dare la possibilità di gestirla in modo intelligente e semplice.
Società

La persona carcerata

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Va bene la fraternità, ma non pensa che i responsabili di delitti terribili meritino il carcere a vita?  


Mi è capitato varie volte di andare nelle carceri per visitare i detenuti. In qualità di psicologo ho parlato loro della sofferenza e del riscatto. Ho avuto con loro anche vari colloqui personali. Dai loro racconti ho potuto comprendere un forte senso di colpa per quanto commesso. Insieme a una fatica per trovare la forza per riscattarsi, dovuta spesso al luogo deprimente e inumano ove vivevano. Di solito negli articoli che scrivo, non mi occupo di politica in senso stretto. Ma se la politica più alta riguarda il governo della città, dello Stato e delle Istituzioni, allora questo vuol essere un articolo politico. Costatiamo che alcune istanze portate avanti dai Radicali, inerenti il loro impegno continuamente prodigato in favore dei carcerati, sono importanti per un Paese che vuol mettere al centro il vivere civile. Il sovraffollamento delle carceri, la vita che molti detenuti conducono in luoghi spesso fatiscenti e insufficienti, sono un segno preoccupante per una società che si professa civile. E per favore smettiamola con la retorica: «Tutti in galera e buttiamo via la chiave». Forse non ci rendiamo conto della disumanità di questi luoghi. E non mi riferisco al personale carcerario, al quale va tutta la nostra stima per il loro duro lavoro. Mi riferisco, invece, a queste strutture vecchie, e ai metodi rieducativi ancora troppo inadeguati. Anche se tutti, in questo periodo, siamo allo prese con una pandemia che ci coinvolge, non dimentichiamoci di loro, delle persone in carcere. Mi sembra che sia importante una vera riforma carceraria, che preveda non solo pene e luoghi alternativi alla prigione, ma anche spazi e metodi che siano in grado di aiutare queste persone nel riscatto sociale, nel loro desiderio più profondo di tornare a essere persone libere. Perché sempre la vita merita di essere vissuta, sempre.
Società

Elogio della fragilità

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Certi giorni, per il susseguirsi di avvenimenti negativi, mi sento proprio niente e perdo la speranza. Lei come fa a mantenerla?


Forse ci eravamo illusi: di fronte all’enorme progresso determinato dalla scienza e dalla tecnica, con le innumerevoli scoperte che hanno permesso una miglior vita sul nostro pianeta, abbiamo pensato che la felicità era a portata di mano. Forse ci sentiamo fortemente scoraggiati adesso che un semplice virus, circolando in modo silenzioso e nascosto, causa innumerevoli vittime e problemi giganteschi in termini di convivenza e di socialità. Eppure è sempre grazie alla scienza e alla tecnica che possiamo trovare il modo di riappropriarci del nostro convivere, cercando non solo di evitare il peggio e di alleviare l’enorme sofferenza che la pandemia sta procurando, ma anche di trovare il vaccino necessario, con la speranza di una definitiva vittoria. L’esperienza ci rende coscienti che altre minacce e altri problemi potranno affacciarsi all’orizzonte, ove la scienza e la tecnica potranno soccombere e ricevere ulteriori sconfitte. Insomma la vita ci dice che la fragilità fa parte del nostro sistema di vita e quindi è importante imparare a conviverci. Anzi, l’essere umano è tale anche grazie alla sua fragilità. È stato il grande poeta e filosofo spagnolo Fernando Rielo a ricordarci che «l’essere umano è una persona finita aperta all’infinito». La storia ci insegna che siamo “finiti”, limitati, fragili, e contemporaneamente desiderosi di vincere, di progredire, di vivere nel migliore dei modi possibili. Tutto ciò è straordinario e tragico allo stesso modo. Straordinario in quanto si intuiscono le enormi possibilità in mano alla persona e quanto ancora potrà scoprire e progredire. Tragico perché molte altre sconfitte e sofferenze si affacceranno all’orizzonte in una lotta senza limiti. Di fronte a tutto questo, forse è importante mantenere un profilo umile e intelligente, in grado di aiutarci a vivere bene il tempo che ci viene offerto. È importante, a mio avviso, non inorgoglirci troppo per le scoperte e le conoscenze, sapendo che tutto è provvisorio, ma al contempo non deprimerci per le sconfitte che sono da mettere in contro. Ecco perché il rapporto con Dio ci può aiutare. Tale rapporto non schiaccia la nostra vita, ma ci aiuta a cogliere l’essenziale e la strada nel percorso: amare fino in fondo tutto e tutti, con particolare predilezione verso i più fragili. Al contempo sapere che Qualcuno ci ama e ci aspetta, pur con tutte le nostre fatiche, per realizzare il desiderio struggente di felicità nascosto in ciascuno. Scopriremo in questo modo che la fragilità può diventare la molla per scoperte più grandi, per altruismi maggiori, per andare verso una maggior uguaglianza e solidarietà fra tutti. E non è questo il desiderio di Dio: diventare sempre più la Sua famiglia?
Società

Il limite

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Altri giovanissimi morti per un mix di droghe a Terni. La cronaca di ogni giorno non lascia tregua. Come aiutare i nostri ragazzi? Una mamma


Flavio e Gianluca, 15 e 16 anni, due ragazzi adolescenti morti per abuso di droga venduta loro da un 41enne, a sua volta facente uso di metadone. È l’ennesima tragedia che porta con se ragazzi pieni di vita, considerati perfettamente normali, brave persone, impegnate anche nel volontariato. Sale allora un grido: perché? Il fatto è che la schiera di ragazzi che compiono gesti irrazionali e tragici è molto lunga. Se molti anni fa trasgredire era un tentativo di entrare nel mondo dei grandi, e per lo più si trattava di sfidare l’autorità, la famiglia, gli insegnanti perché troppo oppressivi, oggi non è più così. Oggi non è l’oppressione la causa della trasgressione adolescenziale. Oggi più che trasgredire i ragazzi sono alle prese con le mille emozioni provenienti dal benessere, e tendono a vivere senza limiti, senza freni, ritenendosi spesso onnipotenti, e protesi verso una vita senza ostacoli. Anzi oggigiorno le difficoltà, i limiti, vengono ritenute facenti parte di un altro mondo, il mondo dei perdenti e degli sfigati. Eppure, noi adulti sappiamo che le difficoltà sono un ingrediente fondamentale per vivere. Infatti le difficoltà e i limiti non sono negativi, perché aiutano i ragazzi a:
  • misurarsi con le risorse presenti in loro per cercare di svilupparle.
  • comprendere le difficoltà, personali e degli altri.
  • scoprire che le emozioni sono energia da vivere non necessariamente contro la propria persona, pensando che tanto non succede niente.
  Tutto questo succede perché manca l’adulto all’altezza del compito educativo che le esigenze moderne richiedono, e cioè un adulto:
  • in grado di dire “no” ai ragazzi, per tutelarli da esperienze contro se stessi,
  • che per primo impara a vivere le frustrazioni come energia per la crescita, e aiuta i ragazzi a comprendere la fatica di vivere.
  • che si interessa ai ragazzi per sostenerli, ammonirli, riprenderli, incoraggiarli, deciso ad opporsi contro ogni pericolo e violenza.
  • disposto a perder tempo con loro per dare testimonianza della vita, che necessita sempre di essere vissuta al meglio.
  Insomma un adulto che testimoni quanto sia tragico buttar via il dono della vita, che è unica e irripetibile per ciascuno.  
Società

Perché si uccidono i figli?

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Davanti a certi episodi di cronaca nera si rimane senza parole… il male è intorno a noi… ma perché si arriva a questi eccessi, addirittura a uccidere i propri figli?  


Mario, padre di Diego ed Elena, gemelli di 12 anni, consuma la più grande tragedia, uccide i figli e poi si toglie la vita. Sembra per vendicarsi della moglie che voleva lasciarlo, tanto che le lascia scritto: “non li rivedrai mai più”. Eppure con i figli pare avesse un buon rapporto, era conosciuto come un buon padre, attento ai loro bisogni. Ciò è straziante e angoscioso, pieno di tutto quanto di depressivo si possa immaginare. Alcuni psichiatri si sono cimentati nel cercare di interpretare il gesto folle. C’è chi vede la causa nella lucida malattia mentale del padre. Qualcun altro cerca causa nella profonda immaturità del padre, incapace di gestire la relazione con la moglie. Di fronte alla crisi emotiva e affettiva, si vendica commettendo l’insano gesto. Si fa fatica a commentare un episodio del genere. Sembra che il nostro cuore non abbia spazio per accogliere questa tragedia. Pare che l’unico vincitore sia il male, questo nemico accovacciato dentro di noi, che spesso ci aggredisce coi suoi pensieri nefasti, ai quali concediamo spazio. Certo, nessuna giustificazione al male. Ma chi è esente da questo? Ricordiamoci Pascal quando dice: “l’uomo a volte è una bestia, altre è un angelo”. Ecco perché occorre una giustizia, alla fine una giustizia ci deve essere, non tanto e non solo quella di noi esseri umani, ma quella di Dio, che conosce l’intimo di ciascuno. Come credenti, mentre ci uniamo al dolore della madre, e auspichiamo per i gemelli la vera vita che quaggiù è finita troppo presto, impegniamoci con tutte le nostre forze affinché ogni persona impari a gestire le proprie emozioni, anche le più negative. E impari a gestirle con una formazione umana e sociale costante, insieme alla confidenza semplice e umile in Dio, in grado di rendere giustizia di tutto. Di tutto.
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