L'esperto risponde / Società

Chiara D’Urbano

Psicologa e Psicoterapeuta EMDR, Consultore del Dicastero per il Clero, Perito della Rota Romana e dei Tribunali del Vicariato di Roma, ho studiato presso la Pontificia Università Gregoriana e poi mi sono specializzata in Psicologia clinica e Psicoterapia psicoanalitica. Mi occupo in particolare di formazione e accompagnamento psicoterapeutico della vita sacerdotale e consacrata e di problematiche di coppia. Collaboro nella ricerca e nella docenza con l’Istituto di Studi Superiori sulla Donna. Con l’editrice Città Nuova ho pubblicato tre libri: La pietra della follia, Per sempre o finché dura e Percorsi vocazionali e omosessualità.

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Vita in comune

Omosessualità e verifica comunitaria

La scorsa volta lei ha fatto cenno che avrebbe affrontato l’argomento dell’omosessualità dal punto di vista comunitario. Attendevo proprio anche questa prospettiva, perché conosco molti fallimenti nell’inserimento di persone omosessuali in comunità. Un lettore

(AP Photo/Tashi Sherpa, file)

Lei ha ragione. In diversi numeri di questa rubrica abbiamo affrontato l’argomento dell’omosessualità legata ai processi vocazionali, soprattutto dalla prospettiva della persona singola. Ora la riflessione si sposta e si concentra in modo particolare sull’ambiente comunitario. Andrebbe distinto il tempo formativo dei primi anni, dalla vita in comune già avviata, ma non possiamo allargare ulteriormente l’argomento, comunque già affrontato qui, come nei testi sul tema dell’omosessualità usciti di recente.

Come premessa aggiungo che non girerò attorno alla «cosa» in quanto i lettori di questa rubrica ormai hanno familiarità con il tema. Per chi fosse in prima lettura, l’approccio potrebbe sembrare fin troppo diretto, e me ne scuso, ma sono diversi mesi che in questo spazio procede uno scambio interessante, dinamico e sempre più approfondito, da cui il mio desiderio di fare un passo avanti.

Stavolta propongo qualche breve vignetta clinica.

1) Carlo è omosessuale. È un religioso prete. Vive con altri confratelli. Ha voluto parlare apertamente di sé solo con qualcuno in casa che sente più “amico”, con cui è in sintonia.

Tra quei fratelli è a proprio agio a parlarne e perfino a scherzare perché il clima è sereno, leggero, perciò anche le questioni toste possono essere affrontate con un po’ di ironia. Non ha motivo, però, di parlarne a tutti – senza nulla togliere all’affetto e alla stima che prova per gli altri – in fondo non ne vede la necessità e non ne sente il desiderio. Non c’entra col selezionare i fratelli: aprire la propria intimità, anche nelle famiglie naturali, non avviene in modo omogeneo e indistinto, ma secondo la sintonia che si crea con un genitore piuttosto che con l’altro, con un fratello, una sorella…

C’è Paolo anziano e Carlo non vuole turbarlo, tra loro c’è un dialogo buono, collaborano anche per diversi aspetti (entrambi di occupano della liturgia), ma Carlo non ritiene opportuna un’apertura di se stesso ulteriore. Sa che per Paolo sarebbe faticoso e doloroso entrare nel tema e non c’è motivo di forzare lo scambio personale. La sintonia è comunque profonda.

C’è Mario che ogni tanto fa battute sui gay e a tavola dice che sicuramente quel tizio che viene in parrocchia è omosessuale – «guarda come si muove!»; molti ridono dell’osservazione e confermano l’impressione, aggiungendo altri dettagli. Carlo non ha paura del loro giudizio, ma non gli va di star lì a discutere sulla questione; del resto una domanda esplicita non c’è mai stata per cui va bene così.

2) È il momento della verifica comunitaria (ogni realtà ha un’espressione specifica per i momenti di confronto di gruppo): si parla delle fatiche personali, uno condivide che sta affrontando un momento duro per la sua fede, in quanto si sono assommate diverse difficoltà. Ha perso il padre di recente e sul lavoro le cose non vanno. Il confronto è profondo e particolarmente intenso. Un bel momento comunitario.

3) Il giorno successivo Carlo e Mario devono partire qualche giorno per una missione. La parrocchia che li ospita dispone di pochi spazi per cui i due confratelli dividono la camera per un paio di giorni. Alla sera hanno alcuni scambi sull’esperienza vissuta durante il giorno. Sono due adulti, le “coordinate” comportamentali sono acquisite dallo stile comunitario a cui appartengono: pudore, rispetto, prudenza.

La mia domanda è: in che modo la dimensione omosessuale di un fratello o di una sorella può interferire nella vita comune?

Sebbene nello scorso numero ne abbia già fatto cenno, qui riporto una tabella a mio parere molto chiara ed efficace (Percorsi vocazionali e omosessualità, p. 31), con cui cerco di fare distinzioni nel vasto mondo della nostra espressione corporea e sessuale. Lo schema sottostante (attinto dallo studioso Dettore) è importante per dire che non bisogna confondere l’orientamento sessuale, inteso complesso affettivo, relazionale ed erotico con un disagio nell’identità di genere, con stranezze comportamentali, con forme istrioniche e cose simili.

L’obiezione: «non mi sento libero di parlare di tutto sapendo che c’è un omosessuale tra i miei fratelli/tra le mie sorelle», intercetta chiaramente un errore di fondo che è proprio quello di confondere tout court piani diversi: orientamento e mascolinità/femminilità.

Tipici e insoddisfatti. Alcune persone con orientamento omosessuale possono essere insoddisfatte della loro corporeità, anche se si comportano secondo la “normale” mascolinità o femminilità. I maschi, più delle femmine di questo gruppo, tendono ad inseguire un ideale maschile fisicamente perfetto, come nel caso del cosiddetto complesso di Adone, i “malati di muscoli”.

Atipici e insoddisfatti. Alcune persone con orientamento omosessuale possono avere espressioni di ruolo difformi dal sesso di appartenenza, ad esempio uomini effeminati e donne molto mascoline, e sono a disagio anche col proprio corpo. Queste, però, sono una minoranza di omosessuali.

Atipici e soddisfatti. Stanno bene nel proprio corpo, ma ne estremizzano l’espressione in modo definito “ultratipico”, ad esempio il gay macho che mette in evidenza caratteristiche maschili quali «barba, pelosità, abiti aggressivi eccetera, ma sono appagati dal loro corpo virile» (D. Dettore, Identità di genere, p. 50).

Tipici e soddisfatti. Ci sono anche, naturalmente, persone con orientamento omosessuale tipiche e soddisfatte che vivono «tranquillamente la propria esistenza senza espressioni di genere varianti o insoddisfazione corporea». Questi, quindi, per dirlo in modo molto semplice e concreto, non sono riconoscibili, conducono una vita soddisfacente e sono persone serene e nella norma culturale

 

Vado al pratico ponendo domande che vorrebbero orientare il processo di crescita comunitaria (sono solo alcune e vengono dalla mia esperienza, per cui non sono valide universalmente, e non hanno la pretesa di essere quelle giuste):

  • La comunità, ente non astratto ma concreto, non credo abbia un “diritto” di conoscere tutto dei suoi membri, semmai ha un desiderio e auspicio che ciò avvenga, perché ciascuno ha trovato un clima che lo consente: possibilità di parlare, confrontarsi, rimanere in toni non polemici, garanzia di riservatezza. Tuttavia, proprio perché ogni comunità è a sé, per arrivare a questo punto di autoconsapevolezza e di libertà la comunità deve fare un cammino verso la direzione di una condivisione fraterna autentica. Non nasce accogliente e libera. E neppure trasparente e matura. C’è questo ambiente? Se sì, in quale modo? Se no, cosa manca?
  • La comunità, a livello locale o generale, si è mai interrogata su quale stile di vita proponga? Le comunità sono organizzate a partire dall’identità eterosessuale (presunta) dei suoi membri. C’è qualcosa che potrebbe confliggere con tale organizzazione qualora un membro fosse omosessuale? Le domande richiedono risposte concrete, che si incarnino cioè in esplicitazioni pratiche e non vaghe.
  • Di fronte alla possibilità, ormai sempre meno remota, che un/una giovane/meno giovane omosessuale chieda di entrare in vita comune, l’ambiente è pronto, è disponibile? O ha delle riserve? Quali sono i suoi parametri di riferimento? È necessario renderli espliciti.

 

Qualunque posizione comunitaria va rispettata, purché ci si metta sempre in discussione e le decisioni sull’eventuale non accoglienza di omosessuali (perché ad esempio la comunità non è pronta, è diffidente, non conosce bene la questione) non siano il punto finale e indiscutibile.

Concludo con alcune considerazioni, alcune non nuove, ma a me care perché significative:

  • L’orientamento sessuale è una parte di un tutto. Attenzione a non ingigantire questa dimensione come la totalità dell’individuo, ma anche a non sopprimerla, perché è il tesoro che la persona porta in sé per poter rispondere alla vita e all’Amore.
  • Tralasciando la questione (di cui non sono competente) di “chi chiama”: Dio, la Chiesa… di fatto la vocazione sacerdotale e/o religiosa ha a che fare con un rapporto fortissimo della persona con Dio e con il Suo popolo. Quella strada, ministeriale o di consacrazione, è considerata la via regale per dare se stessi al massimo, per cercare di vivere al massimo (possibile a ciascuno) il vangelo, per consegnare se stessi al servizio fraterno. La comunità dovrà riflettere su cosa impedisce l’accesso ad un fratello o una sorella omosessuale con queste premesse sempre che, ovviamente, ci siano le condizioni psico-affettive per tale percorso.
  • Infine, facendo mie le parole della teologa Cristina Simonelli (in L. Moia, Chiesa e omosessualità: «la Chiesa è di per sé sempre su un crinale: non siamo pronti del tutto perché il Vangelo ci precede sempre. E tuttavia possiamo e dobbiamo muovere dei passi, senza attendere di essere perfettamente attrezzati». E ancora: «[…] chiedere perdono, delle tante discriminazioni, del disprezzo che va dalle battute sarcastiche all’esclusione, ma anche di un disagio nei confronti della sessualità che agisce trasversalmente».
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Vita in comune

Vita in comune e celibato sono compatibili?

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Dopo gli scandali degli ultimi anni forse sarebbe meglio ripensare, e forse abolire, le comunità di persone “costrette” al celibato. O almeno stabilire dei requisiti psicologici minimi indispensabili. Un laico preoccupato   preti


Direi in modo sintetico: non si può fare un identikit di chi è “adatto”, però ci vuole senz’altro una maturità di base. Un pensiero diffuso è che sia la condizione di celibato a far fallire molte vocazioni, o addirittura a deviarle. Non è così. I due report voluti dalla Conferenza Episcopale Americana, in seguito allo scandalo degli abusi esploso negli Stati Uniti nel 2002, rilevano che in realtà l’antica pratica del celibato, risalente nella Chiesa Cattolica all’XI secolo, non ha nulla a che vedere con la corruzione sessuale che l’ha gravemente ferita, anche perché il picco degli abusi negli anni ’60-’70 e la decrescita a partire dalla fine degli anni ‘80 mostrano come essi siano indipendenti rispetto alla continuità della pratica celibataria. Tuttavia bisogna essere onesti e senza illusioni: vivere insieme non è facile, non basta la buona intenzione di vivere con altri perché questo funzioni e produca benefici. Quando manca una struttura psicologica minima o essa è molto fragile, lo stare insieme moltiplica i problemi, come una grande cassa di risonanza dove l’eco amplifica ogni suono… A riprova di quanto sto dicendo voglio condividere una delle ricerche riguardo all’efficacia dei gruppi di incontro (cf. Yalom, Teoria e pratica della psicoterapia di gruppo) sui cambiamenti personali: lo stare in gruppo è migliorativo sul comportamento e la personalità del singolo? 210 partecipanti a 16 gruppi esperienziali trimestrali, con leader provenienti da 10 Scuole diverse, furono confrontati a 69 soggetti non partecipanti ad alcun gruppo a cui vennero dati questionari da riempire. I risultati furono che, appena dopo il termine dell’esperienza, i primi espressero una valutazione molto positiva dei gruppi di incontro quanto a “piacevolezza”, “costruttività” e “istruttività”; già nel follow up dei 6 mesi seguenti l’entusiasmo era diminuito, ma comunque un terzo di essi (circa il 39%) continuava a percepire un cambiamento positivo moderato o addirittura considerevole, l’8% dei partecipanti invece aveva subito un disagio che si era addirittura protratto per i 6 mesi seguenti la conclusione del gruppo; infine i soggetti di controllo, valutati nelle stesse dimensioni degli altri, mostravano un cambiamento minore sia in positivo che in negativo. Dipendeva forse dalla bravura del leader? Sembrerebbe di no: sebbene il ruolo del leader ed il suo equilibrio – e non la sua scuola di provenienza – influenzino notevolmente l’andamento del gruppo (un leader troppo direttivo genera un gruppo che non riesce a sviluppare autonomia, aritmico, uno troppo liberale genera gruppi confusi), egli non aveva una efficacia diretta sull’individuo. Qual era dunque la nota distintiva rispetto al cambiamento personale e alla sua durata? Ecco il fulcro della risposta: chi aveva la capacità di attribuire significati, di integrare e trasferire in altre situazioni di vita l’esperienza vissuta. Con altro linguaggio: chi aveva capacità di “insight”. Utilizzando questa ricerca per il contesto della vita in comune potremmo dire quindi che affinché la vita insieme possa funzionare è importante il ruolo di chi funge da coach, se è previsto che ci sia, ma è soprattutto una adeguata base di maturità a fare la differenza sostanziale. Se questa manca, anche la migliore esperienza comunitaria avrà un forte impatto sul momento che però di lì a poco scolora…
Vita in comune

Vita in comune, social, famiglia: quali scenari in futuro?

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Mi rincuorano certi dati che rilevano più che una crisi, un cambiamento (meno religiosi ma più diaconi per esempio). Mi preoccupa la crisi dei religiosi in Europa, quindi in Italia. Quante scuole cattoliche stanno chiudendo l'una dopo l'altra per mancanza di vocazioni che portino avanti carismi meravigliosi? Alessandro Pernini

 

I social network non aiutano la comunità, ma incentivano l'individualismo e la propria autocelebrazione, però penso anche che possano essere usati in modo formativo ed edificante, come può essere il tuo articolo "twittato". Ho 28 anni, non sono sposata e non ho figli, ma sto vivendo il mio discernimento vocazionale, ho molti amici coetanei alcuni sposati, alcuni con figli, altri soli e dediti totalmente al lavoro o allo studio, e guardandoli con gli occhi dell'amicizia vedo tanto spaesamento, molta confusione, in pochi sanno ciò che conta veramente nella loro vita, pochi hanno una meta. Penso che oggi ci sia bisogno di puntare sulle famiglie, di sostenerle su tutti i fronti, di considerare tutti i figli come propri e di non lasciarle sole. Credo questa sia la strada per tornare ad apprezzare la vita comune, le comunità e farle essere un focolare di amore per tutti. Rosa   social  


Che siamo tutti protagonisti e non solo spettatori di un vero e proprio cambiamento antropologico è fuori di dubbio: sta mutando ad una velocità impressionante il nostro modo di costruire l’identità, di vivere la corporeità, e di stare in relazione. Pensiamo al maschile e al femminile, la diade più antica dell’umanità: dimensioni che fino a poco tempo fa nessuno avrebbe messo seriamente in discussione, oggi vengono frantumate in una varietà di sfumature e sul profilo Facebook – per ora solo su quello USA – si dispone di parole stravaganti, ben 58, per poter identificare il proprio genere di appartenenza (ma forse mentre scrivo sono già aumentate le opzioni). E se ci spostiamo sui rapporti interpersonali, chi di noi può dire che una conversazione in chat non sia spesso più appetibile di una dal vivo…? Alla domanda se tutto questo sia opera dei social network la risposta è no, peraltro i social ormai fanno parte della nostra vita, anzi si può dire che siano il pianeta del terzo millennio e non ha senso ragionare in termini di demonizzazione. Però siamo onesti: non esiste la “neutralità”, per cui l’uso dei social ha necessariamente un’incidenza nella nostra giornata, nella nostra mente. Ad esempio, più di una Responsabile di comunità mi raccontava sconfortata che al momento della ricreazione, quando cioè ci si dovrebbe incontrare volentieri per stare insieme senza impegni di lavoro, tutte scappano nella loro camera, per navigare, usare skype... Allora diciamo che:
  1. i social non hanno creato, piuttosto hanno colto uno scontento relazionale già in atto e hanno offerto delle risposte che in nessun caso vanno subite per il solo fatto che ormai così va il mondo;
  2. se c’è una domanda, vuol dire che dietro c’è un bisogno. Se si cercano nuove forme relazionali significa che quelle precedenti non funzionavano bene.
Come ne usciamo? Potremmo osare alcune considerazioni come risposte possibili:
  • aver voglia di un’identità chiara, solida e ben costruita non vuol dire tornare ad essere rigidi e fuori tempo. Il ritmo ordinato della vita consacrata o le norme che una famiglia si dà, non sono da disdegnare, anzi sono una bella sfida in questa direzione;
  • i nostri spazi familiari, proprio quelli che a volte dovrebbero essere profezia di comunione, sono segnati da rabbia e risentimenti. È più facile tagliare che ricucire: processi, come quello del perdono, sono anti-economici ma hanno una potenza straordinaria individuale e relazionale, vale la pena scoprirlo o riscoprirlo;
  • se il momento ricreativo di una realtà comunitaria non va a nessuno, forse non sono più attuali le forme proposte per stare insieme, perché magari erano state pensate in un contesto storico ben differente. Oppure: se i pasti diventano un fuggi-fuggi di genitori e figli (nessuno escluso) forse è perché a tavola non si riesce a condividere qualcosa di sé, e andando a monte, non si ha niente da dire perché in fondo non ci si sente veramente famiglia. La vita in comune reclama una umanizzazione che significa: ascolto, dialogo autentico, presenza, tenerezza…
Concludendo: le forme di vita insieme non possono auto-giustificarsi, come mi pare accadesse un tempo, quando si davano per assodate e giuste per il solo fatto di esserci; è urgente recuperare attrattiva perché, come osserva Francesco, la gente arrivi a dire: “vogliamo venire con voi!”.
Vita in comune

Le comunità religiose hanno ancora un futuro?

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Vocazioni in calo, problemi affettivi e un senso di "fatica". Nella nostra società individualistica le forme di vita comunitaria sembrano quasi anacronistiche. O no?   suore


Ricordo un giorno speciale di fine liceo: in uno di quei campi scuola organizzati per far conoscere a ragazzi e ragazze le diverse strade vocazionali, ci portarono in un monastero di clausura. Fu un’occasione folgorante per noi adolescenti qualunque: nonostante l’abito, le grate e l’ingresso buio mettessero un che di soggezione, l’incontro con delle giovani così particolari rese quel pomeriggio indimenticabile. I numerosi volti, allegri e accoglienti, tutti under trenta, provenienti da varie regioni d’Italia, facevano un forte contrasto con l’ambiente austero nel quale ci accoglievano. I miei 17-18 anni non mi permisero di fare le domande giuste per arrivare alle radici della loro scelta di vita, radicale e apparentemente sganciata dalla realtà circostante; quasi certamente ci attenemmo ad un copione banale di curiosità del tipo: «Ma tu puoi fare questo…, puoi fare quello…?». Sta di fatto che da allora mi hanno incuriosito e affascinato, per svariate ragioni, non solo quelle stra-ordinarie realtà divine-umane racchiuse spesso in case monumentali, con prati ben curati dal verde invidiabile, ritmate da campane e preghiere raffinate, ma tutte le forme di vita in comune, fatte di un'umanità eterogenea che condivide la quotidianità, con le innumerevoli fatiche che qualunque convivenza comporta, e sotto la spinta di un medesimo progetto di fede, il “carisma”. I numeri da allora sono scesi: 15/20 giovani che si trovano insieme in un percorso del genere sarebbero eccezionali oggi, almeno in Italia. Dando un’occhiata alle statistiche ufficiali dell’Annuario Pontificio 2016 che riferisce vari report numerici riguardanti la Chiesa cattolica nel mondo, ho trovato dati molto interessanti, che rappresentano uno spaccato significativo del nostro tempo. Uno sguardo generale: nel corso degli ultimi nove anni il numero dei cattolici battezzati nel mondo è cresciuto ad un ritmo superiore (14,1%) a quello della popolazione mondiale nello stesso periodo (10,8%). La presenza cattolica sale, pertanto, al 17,8% nel 2014, dal 17,3% del 2005. In termini assoluti si contano circa 1.272 milioni di cattolici nel 2014 a fronte dei 1.115 milioni del 2005. L’Europa è l’area meno dinamica in assoluto, al contrario dei due continenti emergenti di Asia e Africa. E fin qui forse niente di nuovo. Se proviamo a leggere nello specifico l’andamento delle vocazioni “particolari”, cioè quelle di impegno radicale, attivo ed esplicito nella Chiesa, inizia a delinearsi almeno il contorno di questo millennio, anche da un punto di vista geografico. Sono in aumento, a livello mondiale, (ma non in America del Nord ed in Europa dove invece sono in ribasso) i numeri del clero, cioè dei sacerdoti diocesani e religiosi, da 406.411 nel 2005 sono passati a 415.792 nel 2014, poi il numero grosso modo si stabilizza. Per essere più precisi però, i sacerdoti diocesani presentano un andamento nel complesso crescente rispetto ai sacerdoti del clero religioso che invece, a livello globale, sono piuttosto in calo. Un altro dato importante: meno sacerdoti abbandonano la loro strada; bene, si direbbe che l’attenzione formativa post-conciliare, nel discernimento e nell’accompagnamento, inizi a produrre i suoi frutti. Sono però in aumento i decessi per età avanzata, soprattutto in Europa dove l’indice di natalità è basso mentre quello di invecchiamento è elevato. Ancora un dato molto significativo: diminuiscono religiosi e suore nei tre continenti di America, Europa ed Oceania; in Africa ed in Asia, invece, l’incremento è decisamente sostenuto, intorno al 20% il primo e all’11% il secondo. In altre parole e a grandi linee, la vocazione sacerdotale diocesana ha ancora generalmente presa; sembra invece averne meno, almeno in America del Nord ed Europa, quella alla vita religiosa. Osserviamo allora che l’Europa chiaramente cessa di essere un modello di riferimento quanto a contributo demografico e vocazionale in senso stretto. Tuttavia proprio qui, e nelle regioni dove stanno venendo meno scelte di consacrazione, sta crescendo a ritmo sostenuto il numero dei diaconi permanenti, cioè di uomini sposati che coadiuvano i sacerdoti nell’azione pastorale sul territorio, e ciò «non è certamente riconducibile a motivazioni temporanee e contingenti, ma sembra esprimere nuove e differenti scelte nell’esplicazione dell’attività di diffusione della fede»; in Asia ed Africa questa vocazione invece è ancora poco conosciuta e forse meno “necessaria”. Qualche altra considerazione immediata: appare evidente che alcuni stili di vita hanno ancora appeal sull’uomo contemporaneo, altri invece ne hanno molto meno. Non sarà un caso se le vocazioni più “collettive”, cioè che richiedono il vivere insieme, non sono così numerose nei paesi del benessere materiale dove invece – scorriamo semplicemente i numeri – quelle di carattere più individuale attirano maggiormente. Mi pare inoltre, al di là delle statistiche ufficiali, che alcune forme di consacrazione laica che non richiedono necessariamente la vita comunitaria e forme più “moderne”, per quanto pur sempre di vita consacrata, di convivenza si stiano invece diversificando. Alla base di tutto, oltre alla vocazione personale che è la prima chiave di lettura, c’è probabilmente una fatica generalizzata a vivere insieme, complici i social che hanno potenziato modalità rapide e light di connessione più che di relazione, una moderna e magari giustificata intolleranza verso le strutture eccessivamente rigide, ma anche il bisogno lecito di rinnovare la vita comune che forse deve ritrovare forme più attuali e convincenti, rispetto a quelle del passato, che poi così perfette non erano. Per concludere: la condivisione di vita (religiosa e non) è una scelta controcorrente, ma ha ancora un futuro, secondo me, anzi proprio oggi rappresenta una scelta profetica.  
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