L'esperto risponde / Società

Chiara D’Urbano

Psicologa e Psicoterapeuta EMDR, Consultore del Dicastero per il Clero, Perito della Rota Romana e dei Tribunali del Vicariato di Roma, ho studiato presso la Pontificia Università Gregoriana e poi mi sono specializzata in Psicologia clinica e Psicoterapia psicoanalitica. Mi occupo in particolare di formazione e accompagnamento psicoterapeutico della vita sacerdotale e consacrata e di problematiche di coppia. Collaboro nella ricerca e nella docenza con l’Istituto di Studi Superiori sulla Donna. Con l’editrice Città Nuova ho pubblicato tre libri: La pietra della follia, Per sempre o finché dura e Percorsi vocazionali e omosessualità.

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Vita in comune

Omosessuale in comunità

Gent.ma Chiara, ho inviato il suo articolo ad alcuni amici per avviare un dialogo sull’argomento che lei ha affrontato nella sua rubrica (Omossessualità: le parole pesano). Prima ancora di questo confronto, voglio farle arrivare la mia reazione personale. […] Credo che l’ingresso di una persona di “orientamento omosessuale” in una comunità che prevede una convivenza fra soggetti dello stesso sesso, possa essere considerato come mera eccezione, un caso d’accademia che serve a riaffermare che nessun prodigio è impossibile all’Amore. […]

Secondo me, quanto ha scritto, non tiene in dovuta considerazione (almeno nella stessa considerazione) il bene della comunità quanto il bene della persona che ha un “orientamento omosessuale”. […] Io penso sinceramente che sarebbe un tradimento degli ideali comuni entrare in una comunità che prevede la convivenza fra persone dello stesso sesso, non rivelando la propria omosessualità almeno a tutte le persone con cui si convive, oltre che ai propri responsabili. Tenere nascosto l’orientamento sessuale significa non potere di fatto condividere gli occhi con cui si guarda il mondo, vivere nella falsità. Soffrire non potendo manifestare i propri gusti, la propria umanità.

[…] Rischiando, dico che non è per niente prudente accettare in una comunità che prevede la convivenza fra soggetti consacrati dello stesso sesso persone di “orientamento omosessuale”. “. (Non credo si tratti di una posizione discriminatoria. Personalmente non giudico il valore delle persone a seconda del loro orientamento sessuale). In tutti i casi che conosco in cui è avvenuta questa decisione ha generato dolore nella comunità e dolore nelle persone. […] Secondo me deve essere una regola (non giuridica ma di buon senso) che le persone vicine e conviventi debbano conoscere l’orientamento sessuale di chi sta accanto a loro.

L’orientamento sessuale non è una caduta morale, un peccato da confessare, una cosa del foro interno. È una condizione dell’essere. Non si può entrare in una comunità senza condividere i tratti essenziali del proprio essere, sarebbe una contraddizione in termini, il tradimento di un patto: io rivelo a voi me stesso, voi rivelate a me voi stessi, perché vogliamo essere una cosa sola, una comunità, un corpo vivo. […]

Il modo di procedere del suo ragionare sulla questione, a mio parere, agisce sotto l’influenza di una certa cultura che mette al centro l’individuo credendo di mettere al centro la persona. […] La concessione del proprio sé agli altri rimane indispensabile quando si decide di legarsi così strettamente ad altri. […] Quando mi unisco in un vincolo stretto, di famiglia, non rischio solo me stesso. Qualcuno rischia con me, almeno quanto me.

(David Crigger/Bristol Herald Courier via AP)

Gent.mo lettore, innanzitutto una parola di stupore grato e ammirato per l’accuratezza della sua lettura, e per aver raccolto il mio invito a portare avanti una riflessione onesta e critica, e non solo “adesiva”. Mi rammarico che il suo testo, ben più ampio, non possa essere riportato interamente per ragioni di spazio, ma cercherò di non perdere nessun contenuto di quanto lei condivide, nel caso qualcosa sfuggisse sarebbe solo per la vastità dell’argomento.

In questo numero condivido uno spaccato del rapporto individuo-comunità, mentre nel prossimo numero approfondirò nello specifico la prospettiva comunitaria.

Un po’ di teoria e un po’ di pratica, senza alcuna pretesa né di verità assoluta (ci mancherebbe), né che sia la prospettiva migliore. È la mia, frutto di studio, ricerca ed esperienza di tanti anni, anche accanto alle comunità di vita consacrata, che, da credente, stimo profondamente.

La vita in comune è una realtà umano-trascendente di persone adulte che sono accomunate da un Ideale, via privilegiata per una compiutezza di sé, anch’essa umano-trascendente. Seminario e/o realtà comunitaria diventano l’intuizione di un percorso che la persona percepisce come significativo, come luogo di incontro con Dio e di espressione massima delle proprie risorse e talenti. Parliamo volentieri di famiglia, in quanto è la categoria antropologica più affine.

Eppure la realtà carismatica non coincide esattamente con la famiglia umana: i membri si ritrovano inizialmente come “estranei”, entrando già adulti, almeno cronologicamente, con storie di vita diverse alle spalle. Insieme, essi compiono un cammino di fraternità da costruire e custodire quotidianamente.

Quindi:

  1. il ritrovarsi accomunati da un carisma, da una “chiamata”, attiva una dinamica originalissima di rapporto personale con Dio e nello stesso tempo di apertura all’altro, mio fratello, mia sorella, in un ritmo dal sapore unico di io-noi, dove nessuno dei due poli può esaurirsi in se stesso. Sono «io» a vivere un rapporto con Dio, e siamo «noi» a camminare e a costruire una fraternità carismatica, a coltivare «un sogno comune», come lei scrive in un passaggio molto bello della sua lettera.
  2. La comunità non è un blocco già pronto in cui si entra, è qualcosa da far nascere e portare avanti, è un processo. Sì, la comunità è un processo di espansione di sé, un laboratorio di umanità, veramente riuscita quando i membri riescono ad aprirsi, a condividere dimensioni profonde, ad essere autentici. In questo sono pienamente d’accordo con lei.

 

Però occorre arrivarci. Devono esserci condizioni, anche umane, che consentano l’apertura di sé. Occorre un clima accogliente, sereno, non giudicante (e non solo di facciata) – che coinvolge i responsabili e i fratelli e le sorelle – dove questa consegna di se stessi sia libera e desiderata dalla persona stessa, anzi un’esigenza profonda, quasi un’urgenza personale e non certo una regola né giuridica, ma neppure di buon senso.

Quando questo non accade – la persona non rivela in toto «chi è» – siamo onesti, è responsabilità solo della persona? E la comunità che parte ha? Quando un figlio omosessuale non riesce a parlare liberamente dentro casa e rivela se stesso fuori delle mura domestiche piuttosto che dentro la famiglia, siamo certi che sia una negligenza tutta sua? Credo doverosa la domanda e ineludibile.

Sarebbe bello e auspicabile, direbbe p. Giuseppe Piva – gesuita che da anni si occupa di Esercizi spirituali e di accompagnamento «di frontiera» –, se fosse «una cosa normale» che la persona omosessuale potesse comunicare se stessa ed il proprio orientamento ai suoi confratelli/consorelle fin dall’inizio, ma di fatto questo non accade e non può accadere (aggiungo io).

Gli ambienti formativi e comunitari, infatti, non sempre sono pronti, disponibili e preparati a questo. C’è ancora paura, sospetto, imbarazzo di fronte all’omosessuale, uomo o donna, che creano reticenza, diffidenza, e scissione in chi entra tra ciò che può dire e ciò che non può dire. È giusto riconoscerlo e dirselo in comunità. Se ne parla mai di questo? Come accoglieremmo un fratello o sorella omosessuale? Siamo pronti a farlo?

Quando il clima domestico lo consentisse, allora certamente dovrebbe essere desiderio e bisogno della persona parlare di se stessa, anche perché è un’esperienza stupenda potersi aprire in casa propria e sentire un’accoglienza serena e benevola. Domandiamoci se davvero ci siano le condizioni comunitarie di fiducia per farlo, e quale violenza sarebbe il forzare con un obbligo la propria intimità. Riflettiamo su come rendere i nostri ambienti, famiglia, seminario, comunità, spazi dove sul serio ciascuno è se stesso e viene accompagnato – a partire da quello che è, orientamento incluso – a crescere nella verità e nel dono di sé, senza ingenuità o menzogna. I nostri ambienti sono ancora troppo impacciati su questo.

Un altro aspetto che mi sta a cuore riprendere, e chiedo scusa se sarò diretta e purtroppo rapida: l’omosessualità non coincide con una difficoltà di «identità di genere», il sentirsi maschio o femmina. E neppure con una difficoltà di continenza affettiva e/o sessuale. La invito – con semplicità, dato che a mia volta cito un altro studioso – a dare un’occhiata alla tabella proposta da Dettore su eterosessuali ed omosessuali «tipici e soddisfatti» (Percorsi vocazionali e omosessualità, Città Nuova 2020, pp. 30-31), coloro, cioè, che non presentano difficoltà di accettazione del ruolo di genere, né di corporeità.

In altre parole: stanno bene con se stessi e non sono «riconoscibili» come omosessuali. Dare, quindi, per inteso che l’omosessualità in qualche modo falsi le dinamiche relazionali, mi pare presupponga un qualche scompenso di genere, quanto meno. Le dinamiche relazionali sono falsate anche da quelle competitive, di gelosie e pettegolezzi, non certo legate alla dimensione omosessuale (cito ancora, a braccio, le parole di p. Piva sj).

L’orientamento omosessuale è un aspetto importante della persona, eccome, dice qualcosa di lei, del suo desiderare, essere attratta, amare, ma ciò non equivale a falsare le dinamiche interne ad un ambiente.

Esiste, del resto, a monte, un codice non scritto di rispetto, prudenza, discrezione nel vivere insieme, proprio dell’essere adulti-consacrati-chiamati da Dio. Non ci si prende per mano, non si dorme nello stesso letto e possibilmente nella stessa camera, non si gira nudi per casa. Tanto per essere chiari. C’è (o ci dovrebbe essere) un decoro nel vestire, nel parlare, nel mangiare, nel vivere un apostolato. Credo che la stessa dignità sia doverosa anche in famiglia: è bene che un padre o una madre conservino il pudore del proprio corpo davanti ai figli.

Allora, e nuovamente, per concludere: magari si potesse raggiungere una trasparenza di apertura di sé, in modo che gli scambi, le interazioni, la crescita del gruppo fossero fondati su una base di franchezza e autenticità, ma questo non si può supporre in partenza, né obbligare. Se nel tempo dovessi scoprire che un fratello con cui ho vissuto è omosessuale e me lo rivela solo dopo anni di amicizia, una domanda su cosa di me non gli abbia permesso questa condivisione me la porrei. A livello individuale e comunitario. Come dire: peccato non aver messo Mario nelle condizioni di essere quello che è.

Quando Mario o Francesca riescono, invece, a parlare in casa della propria omosessualità, quale ricchezza emergerà per tutti. Che opportunità preziosissima di lavorare insieme come comunità, di crescere nella comprensione reciproca e nella verità dei figli di Dio chiamati alla pienezza dell’amore celibe e casto. Quale forza avrà quel gruppo che saprà costruire e offrire un clima di fiducia e stima reciproca, condizioni essenziali per il self-disclosure (l’apertura totale di sé) e poi l’integrare la specialità e la peculiarità di ciascuno come un tesoro irrinunciabile per essere una fraternità vera che cammina verso il sogno comune.

 

 

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Vita in comune

Lui, lei e il cuore

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A volte subentra il timore che nei rapporti interpersonali tra uomo e donna prevalga la componente “più umana” a scapito di quella soprannaturale. Come mantenere la propria specificità di genere e sviluppare quel “capolavoro” che è ciascuno personalmente nel Dono di sé all’altro, per il Bene della Comunità stessa? Un consacrato


Senza dubbio ha toccato un tema molto caldo. Le scelte celibatarie e quelle matrimoniali, infatti, devono fare i conti con l’alterità dell’altro sesso, non solo negli anni giovanili, quando il cuore e il corpo sono particolarmente sensibili al bisogno di contatto fisico e affettivo, ma anche durante tutto il corso della vita. Pare che il grande teologo canadese, Bernard Lonergan, religioso, si fosse innamorato durante gli anni dell’anzianità, forse quando non si aspettava più che, dopo un lungo e fedele percorso vocazionale, il suo cuore potesse coinvolgersi ancora. Non c’è un’età in cui si è immuni dal vivere l’esperienza del sentirsi profondamente attratti da un altro. Qualche consacrato, a volte, tenta di escludere il contatto con l’altro sesso, circoscrivendolo allo stretto indispensabile, per paura di eventuali coinvolgimenti. Eppure durezza e rigidità non possono essere considerate le vie ottimali di “prevenzione” di cadute. La paura non è mai una buona consigliera. Credo, piuttosto, che debbano entrare in campo innanzitutto le motivazioni di fondo, che vanno rinegoziate continuamente nel corso della vita. Questo vale per i consacrati, come per gli sposi, che durante tutta la vita possono trovarsi nell’occasione di “perdere la testa” e innamorarsi. Purtroppo non ci sono strategie sicure per evitarlo! Però vale la pena rendersi sempre consapevoli – è un impegno costante e non sempre scontato – che se sono una donna sposata e vivo un’unione stabile con mio marito, quando esco e incontro un’altra persona esterna alla coppia siamo sempre in due (mio marito ed io). Anche quando sono di fatto da sola, lavoro, prego, mi ritrovo con gli amici non solo in quanto “io”, ma in quanto “noi”. E questo noi passa sia attraverso le scelte quotidiane, per cui organizzo la mia giornata tenendo conto che ho un partner, sia attraverso il linguaggio, il corpo e perfino l’abbigliamento. Il mio modo di vestire, di parlare, di mettere in gioco il mio corpo rivela chi sono e com’è la mia vita sentimentale di coppia. Oggi queste attenzioni sembrano superate, ma non lo sono affatto. Ugualmente, come persona consacrata mi rapporto con l’altro essendo cosciente che appartengo a una vocazione che mi rende fratello, sorella, amico, amica universale, perché ho scelto Cristo in una fedeltà a lui anche fisica, che comprende la dimensione relazionale-sessuale. Non escludo gli altri, ma ho un “ordine” di amore. Anche questa relazione con Cristo, così profonda e vera sebbene impalpabile ai sensi umani (la fede è spesso una gran fatica), si esprime e passa attraverso la gestualità, il modo di scrivere messaggi – perché non aprano lo spazio ad ambiguità e doppiezze –, il modo di stare insieme all’altro, uomo o donna. Tutto questo dice moltissimo di me e della mia vocazione. Vorrei aggiungere una convinzione: la crisi, quella che ci fa mettere fortemente in dubbio la nostra scelta vocazionale, non arriva all’improvviso. Si “prepara” attraverso micro-fratture, percepite dalla coscienza – come diceva qualcuno l’inconscio non è del tutto muto, anzi ha le sue strade per esprimere che qualcosa in fondo non va come dovrebbe –, ma che tendiamo a rimuovere perché troppo scomode. E spesso, quando decidiamo di prestare attenzione a quei segnali labili, ma allo stesso tempo forti, qualcosa è già successo dentro di noi, il varco interiore è già molto profondo, e il cuore è entrato in confusione. Voglio dire, e non ha nulla di moralistico, che è essenziale formare, curare e consolidare la propria vocazione, in coppia come in comunità, non chiudendosi all’alterità di genere, per cui tutto diventa un tabù o una fonte di tentazione, non lasciandosi sommergere dagli scrupoli e rendendo innaturale la vita, che si nutre e si alimenta di rapporti e di amicizie. Anzi, dobbiamo stare dentro a tutto ciò che ci circonda, saper stare sul serio dentro le relazioni, ma sapendo che tutto di noi dice chi siamo e a chi apparteniamo. Siamo onesti: questo passa anche all’esterno. Perciò, per concludere: quando il rapporto tra due persone rischia di coinvolgere la dimensione affettiva ed erotica, la relazione diventa meravigliosamente piena e insieme meravigliosamente libera solo tenendo conto che dietro ciascuno dei due c’è un marito, una moglie, una comunità, una realtà carismatica, altrimenti è fortemente probabile che l’intimità che nasce tra i due porti fuori strada.
Vita in comune

Giovani consacrate: speranze e delusioni

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Oggi la parola GIOVANI è una di quelle più pronunciate. Io sono giovane in comunità e lavoro nel mondo giovanile. Tanti giovani si sentono giudicati, criticati, svalutati dagli adulti. Abbiamo bisogno di figure di riferimento che ci ispirano sicurezza, sulle cui spalle possiamo piangere, figure che si abbassano al nostro livello per insegnarci qualcosa e aiutarci a diventare qualcuno. Abbiamo bisogno di NO ben motivati, di persone che riescano ad aprirci gli occhi. Abbiamo bisogno di alternative, di nuove proposte ed esperienze da vivere di fronte a certi divieti... Tante volte ci manca questo. Il mondo adulto chiede ai giovani ciò che non è capace di donare. Allora sorge la domanda: se gli adulti hanno ricevuto tanto, perché non sono capaci di trasmettere altrettanto? Perché non ci danno la possibilità di una crescita sana come l’hanno avuta loro? In cosa hanno sbagliato nel corso degli anni? Grazie della disponibilità. Una giovane suora


Innanzitutto grazie per questa accorata riflessione di grande spessore antropologico, che qui potrebbe bastare da sola. Però lei, da giovane consacrata, pone domande alle quali volentieri cerco di rispondere. Certamente la società attuale è segnata da «un’adultescenza» senza precedenti: gli adulti non vogliono crescere (una volta si chiamava Sindrome di Peter Pan), mentre i bambini sono costretti, anche grazie alla Rete, a prendere presto contatto con aspetti della vita non ancora alla loro portata, come la sessualità. Questo accade perché lo stile di vita dei nostri giorni rende difficile ai genitori essere presenti e ascoltare i figli, rinunciando così al ruolo adulto che dovrebbe mediare fra innocenza infantile e mondo «dei grandi»; i figli, perciò, si aggiustano per conto proprio. Tempo ridotto, folli corse quotidiane (che riguardano anche la vita consacrata!), rinuncia a trasmettere valori: il genitore/formatore non cresciuto abbastanza vorrebbe recuperare la giovinezza perduta (sic!), oppure si sente impreparato a paternità e maternità, per cui abdica al suo compito naturale di introdurre alla vita, di accogliere e affiancare la crescita dei giovani, oggi davvero complessa. La vita consacrata mi pare viva in parte le stesse dinamiche, ma con un dinamismo proprio. Nelle realtà comunitarie c’è un grosso scarto tra «decani» e nuove generazioni. I primi talvolta hanno conosciuto il fondatore, la fondatrice, o comunque hanno vissuto anni diversi da quelli odierni, e dunque si sentono smarriti dai cambiamenti in corso, per cui cercano di difendere con i denti quello che invece può e deve evolvere. Le nuove generazioni, invece, arrivano piene di entusiasmo, ma anche fragili emotivamente; da una parte vorrebbero vedere le loro idee prese in considerazione nelle riflessioni comunitarie, dall’altra sono carichi di angosce, paure e ricerca di senso. Non è facile il dialogo tra le generazioni, anche perché i grandi non sempre hanno strumenti adeguati per affiancare il mondo giovanile. Nessuna delle due «metà», anziani e giovani, ha la verità globale o le risposte giuste. Da entrambe le parti ci sono paure, timore di inadeguatezza e del giudizio altrui. La paura, però, crea solo «nemici». In questo gli adulti hanno la responsabilità maggiore: sia genitori che formatori devono prendere coscienza del proprio ruolo, per essere non autoritari, ma autorevoli. Quindi presenti, portatori di una parola significativa, capaci di affiancare senza schiacciare e senza imporsi con la forza, senza sostituirsi a chi è in formazione lasciandolo in una condizione perennemente infantile. Infine portatori di speranza, oggi debolissima anche negli adulti. Posso dirle, però, che oggi in genere ci sono una consapevolezza e un’apertura nuova verso l’accompagnamento attento, qualificato e personalizzato, in famiglia come in comunità. Rimane vero che, purtroppo, nella vita consacrata (soprattutto femminile) si tende a dar voce e responsabilità solo agli over 50, come se i giovani non crescessero mai. Ma anche qui qualcosa sta cambiando, c’è voglia di dialogo e confronto inter-generazionale. Il Sinodo dei giovani è stato un esempio in questo senso. Vorrei concludere chiedendole di avere pazienza, perché i processi comunitari richiedono più tempo di quelli personali, ma portano frutti assai più grandi.
Vita in comune

Regole soffocanti o necessarie?

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La ringrazio molto per la rubrica «L’identità di un carisma». Vorrei aggiungere alcune considerazioni. Penso che dobbiamo avere cura di non fare delle norme e delle regole «il nemico». Ritengo che le norme servano a far più bella la nostra consacrazione al Signore e mi sembra che oggi ci sia una facile tentazione di buttare via qualcosa che sicuramente è esigente e che richiede molta libertà interiore di vivere il nostro carisma nella sua totalità, senza paura. Un Rettore


Grazie Padre per questo suo commento, il senso della rubrica vuole essere proprio il confronto tra prospettive diverse e Lei avrebbe molto da dire per il servizio che svolge. Le propongo alcune risonanze alle sue considerazioni sul valore delle norme. Una prima, più generica, riguarda la crisi dell’autorevolezza, della capacità di offrire orizzonti di senso e di saper dire, soprattutto alle nuove generazioni, che l’essere umano non è onnipotente. Non avere alcun limite non è indice di forza, piuttosto è la strada verso una fragilità che può degenerare in confusione e depressione. In un mondo dove tutto è possibile, e non c’è percezione di confini, non c’è posto neppure per la speranza. Se l’uomo è onnipotente non ha più niente da attendere e migliorare. Durante la due giorni di Loppianolab, un laboratorio di economia, cultura, comunicazione e formazione (www.loppianolab.it), una ragazza che ha partecipato al pre-sinodo raccontava del grido disperato che i giovani rivolgono agli adulti perché si facciano sentire nelle loro vite come punti di riferimento e non come presenze-fantasma (lo dico con parole mie). Perciò Lei ha ragione nel dire che la crisi attuale investe “le norme” in senso ampio. In poche parole: le norme sono necessarie per la salute mentale e spirituale. Tuttavia, come Papa Francesco ci ricorda nell’Amoris Laetitia al numero 304 «È meschino soffermarsi a considerare solo se l’agire di una persona risponda o meno a una legge o a una norma generale, perché questo non basta a discernere e ad assicurare una piena fedeltà a Dio nell’esistenza concreta di un essere umano». E prega caldamente, nello stesso numero, di ricordare l’insegnamento di San Tommaso: «Sebbene nelle cose generali vi sia una certa necessità, quanto più si scende alle cose particolari, tanto più si trova indeterminazione. […] È vero che le norme generali presentano un bene che non si deve mai disattendere né trascurare, ma nella loro formulazione non possono abbracciare assolutamente tutte le situazioni particolari». E viceversa, il particolare non può essere elevato a livello di norma. Mi sembra un passaggio molto importante dell’Esortazione apostolica che può essere applicata in diversi campi. L’equilibrio tra la persona singola e le regole generali è sempre molto difficile, ma non si può rinunciare a cercarlo, di volta in volta, per ogni singola vocazione. Per questo l’accompagnamento ed il discernimento sono arti che richiedono competenza, una sufficiente maturità psicologica, e certamente una solida vita interiore e di preghiera. Senza questi fattori, tutti indispensabili, i rischi sono molteplici: chi accompagna, spaventato di fronte alle richieste o comunque alla varietà delle persone in vocazione, potrebbe livellare le diversità per non avere troppi grattacapi. Oppure potrebbe utilizzare se stesso come criterio per valutare quello che è giusto o sbagliato, o ancora applicare rigidamente «quello che è scritto», senza riuscire a tener conto della storia e dell’identità singola. È chiaro che in questi casi la ricchezza dei diversi talenti si perde e la comunità tende ad appiattirsi, perde la sua forza vitale, e diventa un pensionato non attraente. O anche, e purtroppo non è infrequente, diventa un ambiente dove le persone non hanno mai acquisito quel minimo di autonomia che la persona adulta sana dovrebbe avere, anche in vista dei futuri impegni pastorali e apostolici. Oggi più che mai, anche per la complessità delle nuove generazioni, è proprio necessaria un’attenzione nuova, che era mancata in passato. Credo, allora, che la norma dovrebbe essere come la propria casa, che offre un tetto che ripara dal freddo, dalla pioggia, dal sole cocente, e mura che custodiscono l’intimità del proprio nucleo familiare. Se, però, le pareti diventano troppo blindate, allora non ci si sente più a casa, si diventa, anzi, perfino estranei in quell’ambiente, lo si abita malvolentieri e non se ne ha più cura. Magari sarebbe bello se le persone più anziane raccontassero a quelle più giovani come alcune regole sono nate, ne spiegassero il valore ed il senso, narrando le loro esperienze di vita. Qualora, però, nell’oggi, queste non fossero più così utili, si dovrebbe avere il coraggio di guardare avanti.
Vita in comune

Vita in comune è contaminarsi

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In una settimana dove le buone pratiche sono al centro dell’attenzione, mi piacerebbe avere un esempio concreto di cosa questo voglia dire nella vita in comune.


La richiesta mi piace molto. Un numero questo di oggi un po’ diverso dallo stile consueto. In estrema sintesi direi: “contaminarsi” è la sfida dei nostri tempi: mantenere un’identità solida e chiara, ma saperla confrontare, senza timore di perdersi. Detto così può sembrare vago e teorico. Perciò riporto fresca fresca un’esperienza recente. Nella cornice di S. Croce in Gerusalemme, in un sabato pomeriggio qualunque, un gruppo di giovani che fanno esperienza di vita comunitaria, uomini e donne, in formazione o già con una scelta “per sempre”, si sono aperti a dire qualcosa della loro vocazione. Si sono resi disponibili – di fronte a un pubblico di un centinaio di persone, composto di altri giovani, consacrati e laici, famiglie, formatori e superiori –, a dialogare con tutta l’emozione che si può immaginare. Questo per dire cosa? Siamo nel tempo dove solo insieme si può “lasciare un segno” convincente e pieno di significato in un millennio affamato di relazioni, e insieme fragilissimo proprio nel costruirle e mantenerle. Nessuno di questi 6 giovani era lì a titolo personale, ma come comunità di fratelli e sorelle che condividono un carisma: Legionari di Cristo, Pie Discepole, Focolarine, Cistercensi della carità. Nomi e volti concreti, che raccontano di una famiglia di appartenenza e si dispongono a riflettere con altri: che stiamo facendo? Dove stiamo andando? Cosa possiamo migliorare? E il pubblico ha partecipato, intervenendo direttamente, più e più volte con tante voci diverse. Da quella, solo per citarne qualcuna, di Simonetta, psichiatra, direttrice dell’Opera don Guanella, a chi conosce anche per missione e impegno la vita consacrata, come p. Donato e p. Ignazio, a Maria, che vive e accompagna la realtà formativa, a Francesco, seminarista in cammino. In una parola, il pomeriggio è stata un’esperienza di comunione. L’unica testimonianza che rimane oltre i contenuti, come più di qualcuno ha notato. Nessun eroe, nessuna esperienza “perfetta” o già compiuta, persone “ordinarie”, ma con la voglia di realizzare un Grande Ideale di vita in un’esperienza di vita in comune. Messaggio di fondo: la felicità nella vita consacrata, è possibile, ma va costruita giorno per giorno. La parola “felicità” di solito suscita sguardi perplessi, perché troppo corrosa. Va bene, allora e proviamo a dirlo in un altro modo: disegno di Dio, pienezza e realizzazione umana coincidono. Dicono la stessa cosa! Dio vuole un’umanità piena. L’umano pieno è chi sa donare se stesso e sa far felici gli altri, come accade tra gli sposi. Penso anche alla squadra dietro e oltre il momento finale di un pomeriggio così. Nomi concreti e insieme discreti, anche in questo caso, Luca, Aurora, Giulio, Elena, Sara, che fanno squadra per rendere possibile un momento simile. Dietro le quinte, o sul campo. Insieme. Nuovamente. Il segno, l’unico credibile del nostro tempo. Un happy end? Perché no? La profezia del terzo millennio è la voce dei giovani che tra tante possibili strade scelgono di cercare Cristo con altri, in comunità. Si lasciano aiutare perché questo sia possibile. Si raccontano perché chi accompagna legga con loro i segni della vocazione, qui o altrove. Ci sono aspetti da ripensare, è vero, i giovani di oggi ormai hanno complessità nuove rispetto a qualche anno fa. Alcune categorie di ieri, non sono più efficaci. Ma le nuove generazioni hanno sete di autenticità. Di Ideali solidi. Di coerenza delle realtà nelle quali entrano. Sono portatori di speranza. Una bella provocazione che tocca tutti noi. E questa ricerca mette in gioco, per un aiuto reciproco, insieme, laici e consacrati, celibi e coppie.
Vita in comune

L’identità di un carisma

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La ringrazio per il suo servizio e il suo coraggio nell’approcciarsi alla Vita Consacrata. Questa Vita Consacrata femminile (che è molto diversa da quella maschile, se ancora possiamo usare questi due aggettivi), è una vita meravigliosa, ma oggi viene bersagliata e minacciata in mille modi, molto spesso non solo dal mondo nella sua mondanità, ma anche dagli stessi consacrati e dallo stesso mondo ecclesiale. Non è sempre così chiara la nostra identità, il nostro ruolo e il nostro posto in seno alla Chiesa. Non possiamo rischiare di diventare qualcosa di ibrido e indefinito, come donne non dobbiamo scimmiottare nessuno, occorre invece recuperare tutta la nostra femminilità per essere donne di Dio, madri, sorelle, amiche, cittadine di questo tempo. Mi rendo conto, come consacrata e anche come Madre Generale di una Congregazione religiosa, che dobbiamo trovare il coraggio di entrare e avviare in maniera più decisa e determinata un processo di rinnovamento e svecchiamento. Ma come gettarci dentro questo percorso di svecchiamento, per far risplendere tutto il bello della vita che abbiamo scelto, come non perdere lo spirito missionario ed evangelico? Come non tradire la nostra storia, il carisma, le tradizioni che ci hanno animato nel tempo, ma rimanendo donne felici? Come non diventare prigioniere delle nostre strutture, testardamente trincerate per difendere casa, opere, pastorali che forse vanno riviste, rivalutate, ripensate in modo nuovo. In tutto questo non vorrei solo trovare risposte, ma accendere desideri. Una Responsabile Generale


La ringrazio per le sue riflessioni appassionate ed attuali. Approfitto delle sue testuali parole «non vorrei solo trovare risposte» per offrirle considerazioni più che soluzioni. Credo che la vita consacrata, femminile e maschile, abbia la possibilità non solo di “sopravvivere”, ma di portare un contributo enorme nel nostro tempo. Solo però se affronta con coraggio il ripensamento delle proprie strutture, delle opere di apostolato e dello stile relazionale all’interno della comunità, oltre che delle modalità di discernimento, ma quest’ultimo è un tema a sé. Le parlo con schiettezza, grazie alla fiducia che Lei mi rimanda. Qualche pennellata. Mi sembra importante che ciascuna realtà carismatica definisca cosa è essenziale e cosa non lo è della propria identità, ad esempio alcuni aspetti del vivere insieme, il tipo di missione (a chi è rivolta e come), quale sia il “cuore” del carisma. Devono essere pochi punti, sintetici e chiari. Uno dei limiti che finora ha gravato sulle realtà di vita consacrata è che l’identità ha finito per coincidere con una marea di micro-dettagli che hanno cucito le persone in spazi assai ridotti di crescita, finendo per soffocare la vitalità dei gruppi. Più volte ho potuto constatare come anche gli aspetti concreti della vita ordinaria (come apparecchiare, per dirne uno) erano letteralmente normati secondo delle consuetudini, sicuramente valide, ma non dogmatiche, e che impedivano di utilizzare quel minimo di buon senso personale e soggettivo per svolgere una semplice mansione. L’iper-regolazione di tutto favorisce l’infantilismo, riduce la creatività delle persone, e tende a deresponsabilizzare, tanto «è già tutto deciso e io non posso fare niente altro che eseguire». Lo stesso pericolo di non stimolare la crescita adulta dei membri di comunità si corre quando si porta avanti l’idea, tanto illusoria quanto scorretta anche dal punto di vista psicologico, che ci sia un’unica modalità di vivere l’intuizione carismatica del Fondatore/della Fondatrice. Chi l’ha detto? Il Fondatore, la Fondatrice era uno/a, e non poteva certo prevedere tutte le possibili sfumature individuali. Del resto ciò che lui o lei ha ascoltato dallo Spirito Santo è stato filtrato dall’umanità della sua specifica persona. Dunque non perdere le singole individualità è fondamentale. Manca ancora un pezzo. Oggi il pericolo maggiore che corrono le comunità è sul versante opposto, e cioè che le singole individualità, con la pretesa di portare avanti le proprie intuizioni, si sentano oltre anche quelle coordinate essenziali, per cui le realtà di vita insieme assomigliano ad ostelli e mense di passaggio. Che fine fa il senso di appartenenza? Dove lo si ritrova? Per questo ritengo essenziale comprendere ciò che davvero è importante per sentirsi parte di quella famiglia e ciò che invece è legato al tempo, a consuetudini che non sono più utili, a generazioni che ormai si vanno trasformando. Come farlo? Sarebbe utile, penso, innanzitutto studiare in modo attivo ed attualizzante le proprie fonti carismatiche, anche rispetto ai primi collaboratori del progetto spirituale. Per poi delineare insieme, comunitariamente, la cornice della propria vita cioè le coordinate ampie ed essenziali che sono rappresentative di quella Organizzazione a Movente Ideale e che accomunano le persone che ne fanno parte, oltre le quali il senso di appartenenza si annacqua e perde di significato. Le faccio l’esempio della coppia sposata: vivere insieme, svegliarsi e addormentarsi insieme, salvo eccezioni, rappresenta un aspetto non solo “pratico” ma significativo dell’essere marito e moglie. All’interno della cornice si devono poi poter costruire percorsi vocazionali a misura personale. E così la coppia lungo il giorno porta avanti il proprio lavoro e diversi contatti relazionali, ma questo non tradisce l’identità matrimoniale. Il coraggio e l’impegno a studiare, riflettere e dialogare insieme, facendosi anche aiutare da figure esterne e quindi meno coinvolte emotivamente, credo possano “rilanciare” la vita consacrata, che sicuramente attraversa tempi non facili, perché ha potenzialità meravigliose e uniche di cui il mondo ha estremo bisogno. Nella prossima rubrica approfondirò le differenze tra realtà femminili e maschili (è vero però che ormai si vanno sfumando) e come, in pratica, si possano delineare più nel concreto cornice e dettagli della vita comunitaria.
Vita in comune

La comunità antidoto agli abusi

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Giornali e tv sono pieni di notizie e polemiche sullo scandalo degli abusi nella Chiesa cattolica. Che ne pensa?


Accolgo volentieri la sua richiesta. L’argomento è complesso, per cui nel breve spazio di questa rubrica mi limiterò a trattarne solo un aspetto. Credo valga la pena riflettere su un dato riportato nello studio commissionato dalla Conferenza Episcopale Americana, The Nature and Scope of Sexual Abuse of Minors by Catholic Priests and Deacons in the United State 1950-2002, poi ripreso nel successivo The Causes and Context of Sexual Abuse of Minors by Catholic Priests in the United States, 1950-2010: i preti abusanti sono per la maggioranza diocesani (69%). Quelli religiosi, che vivono in una realtà comunitaria, sono invece meno della metà del totale. Inoltre, nel 40% dei casi, il primo abuso avviene tra i 30 e i 39 anni di età. Ora, sebbene sia chiaro che non esiste un determinismo assoluto (causa-effetto) nei processi umani, né un unico fattore che possa essere identificato all’origine di una devianza, i numeri riportati fanno riflettere. Lo stesso documento Causes and Context osserva che il prete diocesano spesso vive da solo nella propria parrocchia, o tutt’al più con un altro sacerdote. Talvolta è isolato geograficamente e la maggior parte degli abusi avviene nella sua residenza. Ciò che colpisce è proprio l’aspetto della solitudine, non dal punto di vista del celibato, argomento molto “caro” a chi tenta di screditarlo collegando questa scelta alla corruzione sessuale, ma in quanto rimando alla povertà di relazioni umane che spesso caratterizza la vita del prete diocesano, al di fuori della sua attività ministeriale. L’assenza di una famiglia propria, infatti, rende estremamente importante che il sacerdote costruisca rapporti paritari, cioè non solo di “servizio” parrocchiale o pastorale. Come rapporti paritari si intendono prima di tutto l’amicizia e l’aiuto reciproco, senza i quali anche l’essere umano più equilibrato, a lungo andare, rischia di perdere il proprio orientamento, schiacciato dagli oneri pastorali e privo di ricarica affettiva. Non bisogna dimenticare che l’umanità è la base indispensabile sulla quale la grazia opera e di cui non può e non vuole fare a meno. Si potrebbe dire che quanto più l’umanità è solida ed armoniosa, tanto meglio l’opera di Dio può procedere. Etty Hillesum, morta nei campi di concentramento all’età di 27 anni, scriveva, con un’immagine molto singolare, ma anche molto efficace: «Non basta predicarti, mio Dio […] bisogna aprirti la via […]. Ti prometto, ti prometto che cercherò sempre di trovarti una casa e un ricovero. In fondo è una buffa immagine: io mi metto in cammino e cerco un tetto per te» (Diario, 1941-1943). Credo sia un’espressione bellissima. L’umanità che si offre a Dio e si dona ai fratelli e alle sorelle, rimane fragile, bisognosa degli altri. E meno male, sarebbe davvero triste l’autosufficienza. Dio ha bisogno che gli uomini e le donne si diano una mano, e che gli diano una mano! Neppure lui vuole essere autosufficiente. Il documento Cause and Context, inoltre, ricorda che il sacerdote diocesano è spesso privo di confronti nella vita quotidiana, a differenza di quello che ha una comunità di fratelli intorno. Non è un dettaglio. La possibilità di raccontare “come è andata oggi”, di pregare insieme, di avere qualcuno che si preoccupa se un tu manchi a tavola, crea una dimensione familiare fondamentale per l’equilibrio psicoaffettivo di chi ha fatto una scelta vocazionale. Un amico sacerdote mi diceva quanto era importante per lui sapere che c’erano dei fratelli intorno che lo “guardavano” e, in caso di bisogno, potevano afferrarlo per i capelli e tirarlo fuori dal fango. Il dono di sé può perseverare ed avere meno occasioni di caduta solo se vissuto all’interno di un contesto umano fraterno, dove, cioè, ci siano scambi quotidiani, fatti di incontri anche semplici, ma costanti, che rendono più leggeri gli impegni parrocchiali e le preoccupazioni che normalmente le persone riversano sul sacerdote. È fondamentale che fin dagli anni formativi si insista sulla necessità che il sacerdote, una volta uscito dalla confortante struttura del seminario, abbia sempre vicino dei punti di riferimento – il documento Cause and Context parla di “supervisione” – e magari, dove possibile, costituisca una fraternità con altri sacerdoti con cui condividere alcuni momenti della giornata. Oggi, soprattutto i giovani preti, quelli più a rischio di sentirsi soli e rimanere schiacciati dal lavoro (burn out), lo stanno comprendendo, per cui sempre più spesso creano piccoli gruppi di vita insieme. La comunità di per sé non può impedire cadute ed espressioni fragili dell’umanità dei propri membri, tuttavia può rappresentare una fortissima prevenzione, comunicando calore, vicinanza, solidarietà, attenzione all’altro. Anche noi laici, spesso distratti, siamo importanti: possiamo far sentire i sacerdoti accolti, rispettati e stimati. Credo che avere una comunità intorno, laici e consacrati, sia “vincente” per rendere più umane e meno solitarie le nostre giornate.
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