L'esperto risponde / Spiritualità e mistica

Chiara D’Urbano

Psicologa e Psicoterapeuta EMDR, Consultore del Dicastero per il Clero, Perito della Rota Romana e dei Tribunali del Vicariato di Roma, ho studiato presso la Pontificia Università Gregoriana e poi mi sono specializzata in Psicologia clinica e Psicoterapia psicoanalitica. Mi occupo in particolare di formazione e accompagnamento psicoterapeutico della vita sacerdotale e consacrata e di problematiche di coppia. Collaboro nella ricerca e nella docenza con l’Istituto di Studi Superiori sulla Donna. Con l’editrice Città Nuova ho pubblicato tre libri: La pietra della follia, Per sempre o finché dura e Percorsi vocazionali e omosessualità.

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Pastore o funzionario del sacro?

Sono un presbitero di mezza età di una grande diocesi, e seguo fedelmente la vostra rubrica.

Ho deciso di offrire anche io una breve riflessione, sperando che possa contribuire in qualche modo in questo tempo non facile. Ho l’impressione che tra noi preti prevalga un senso di competizione come se dovessimo fare i primi della classe rispetto alla gente o allo stesso Vescovo; insomma alla fine l’impressione è che siamo più colleghi di lavoro (da cui un certo carrierismo) che pastori di una stessa realtà territoriale.

Mi permetto di aggiungere che non mi considero un ingenuo, anche a motivo degli anni di esperienza, ma mi rendo conto che ormai il prete è piuttosto un funzionario, quasi un burocrate piuttosto che un uomo “per la gente”.

Grazie per il suo contributo con cui porta alla luce un disagio molto attuale. Non so se sono in grado di offrire una vera “risposta”, lo consideri piuttosto uno scambio di riflessioni.

A motivo della ben nota crisi vocazionale il numero di sacerdoti e religiosi/e è notevolmente diminuito, e con esso di pari passo, ma in modo inversamente proporzionale, è aumentato il vostro carico di lavoro. Sono testimone – e non credo di dire nulla di nuovo – di sacerdoti giovani e meno giovani carichi di impegni, che forse appaiono gratificanti nei primi anni dopo l’ordinazione quando alimentano il senso di onnipotenza – di cui tutti noi, a turno, siamo vittime – ma che, nel corso del tempo, finiscono per diventare degli oneri enormi.

Forse, come lei accenna con sapienza e insieme discrezione, è necessario ripensare il “modello di prete” nel terzo millennio, perché questa vocazione non si appiattisca all’essere un “burocrate del sacro”, come si autodefinisce un mio amico sacerdote.

Mi vengono in mente alcune considerazioni: ormai abbiamo superato il mito del prete come di un uomo superdotato e sempre disponibile, come se non fosse un essere umano con i suoi limiti e le esigenze più semplici di un ritmo di vita sano.

Però bisogna ancora sfatare il mito del prete inteso come uomo singolo a servizio degli altri.

Una vocazione infatti, anzi qualunque vocazione, anche quella degli sposi, non è mai una vocazione individuale che possa sussistere in se stessa, o che possa appoggiarsi unicamente sulla singola personalità, per quanto eccellente sia.

Ogni vocazione è inserita all’interno di una comunità che dà senso, sostiene, collabora alla buona riuscita della coppia, del sacerdote, dell’uomo e della donna consacrata. Forse lo si dice, ma in modo vago ed ideale, invece ha una valenza estremamente seria e concreta.

Tutti siamo reciprocamente responsabili della vocazione altrui. La vocazione del singolo chiamato da Dio, o della coppia, acquistano significato solo all’interno di un noi comunitario.

Nessuno sarebbe in grado di realizzare compiutamente l’essere marito, l’essere moglie, l’essere genitore, l’essere sacerdote, l’essere religioso senza il sostegno di preghiera, ma anche di presenza, di incoraggiamento e di collaborazione degli altri.

Di fatto accade così, ma come può il sacerdote addossarsi da solo, o al massimo con un “vice”, tutte le attività che ruotano attorno a una parrocchia, o comunque a un servizio di apostolato? Non solo per il grande carico materiale, ma anche per quello emotivo, psicologico ed affettivo.

Lo stesso vale per la famiglia che non può portare avanti da sola la chiamata a vivere l’amore in modo esclusivo e generativo, senza persone intorno che la sostengono e la aiutano a custodire il dono reciproco.

Ciascuno, secondo la propria parte – ma il discorso qui è complesso e articolato perché chiama in causa un serio ripensamento dell’organizzazione della Chiesa –, è chiamato a dare ascolto, ad offrire accoglienza, a prestare attenzione, a portare un aiuto materiale perché l’altro funzioni. E se uno di noi cade durante il cammino, tutti cadiamo con lui o con lei, e siamo in qualche modo responsabili della superficialità che non ci ha permesso di cogliere un eventuale malessere o una necessità importante.

Per la fragilità dell’essere umano attuale, per la complessità del mondo contemporaneo, per la quantità di esigenze che ci sono nel mondo, non possiamo più permetterci di ragionare con le categorie dell’io.

Certo è una mentalità oggi tutt’altro che spontanea, per il narcisismo e l’individualismo diffusissimi, e forse il discorso suona utopico, però ritengo che gli anni di formazione alla vita sacerdotale, a quella religiosa, e a quella familiare, dovrebbero introdurre questo modo di intendere la vocazione. Altrimenti tutto si concentra attorno alle capacità strettamente personali e alle doti di questo o quello.

È chiaro che ciascuno ha delle qualità e delle risorse umane uniche, non si tratta di spersonalizzare l’identità del singolo, tuttavia è la comunità di fede ad accogliere una famiglia che si forma e a collaborare perché la sua vocazione si compia, ed è la comunità di fede ad accogliere e sostenere il sacerdote o il religioso, perché la sua specifica missione si realizzi il meglio possibile.

Questo significa formare la mente e il cuore che la fraternità, la “casa”, è una sola.

Quando si percepisce un ambiente come proprio, si ha cura di ogni suo angolo senza pensare a chi tocchi pulirlo, ad esempio. Dentro casa, moglie, marito e figli si ripartiscono i compiti, perché tutto funzioni al meglio, ma ciascuno vive lo spazio della casa come proprio, e sente di essere responsabile del buon andamento generale.

Questo significa aver maturato un senso di appartenenza alla propria vocazione. Altrimenti si è solo ospiti o eternamente bambini.

La persona adulta, che ha sviluppato un senso di appartenenza alla propria comunità familiare e di fede, si impegna perché questa funzioni bene, vive come propria responsabilità il benessere dei suoi membri, si preoccupa per loro, si accorge se c’è qualcosa che non va.

Se gradualmente facessimo nostra questa prospettiva di fraternità, per tornare alla riflessione iniziale, si smorzerebbe la competizione, il conflitto, il voler primeggiare: che senso ha fare a gara in casa propria? Se l’obiettivo è comune, e il compito è portato avanti insieme, diventa molto meno importante chi lo realizza in quel momento. Ciò significa, almeno questo è ciò che riesco a intuire, far sentire la persona parte di una fraternità più vasta e non caricarla di oneri che, se possono farla sentire in gloria in alcuni momenti, possono anche schiacciarla e farla sentire isolata in molti altri.

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Vocazione e psicologia

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Mi sembra che ormai la psicologia vada di moda dappertutto, anche nel discernimento vocazionale. Ma non si rischia di cadere nell’estremo di delegare tutta la formazione agli psicologi? La vocazione è un’altra cosa, che va valutata con altri metodi. Paolo   Due suore


Questa domanda un po’ provocatoria è molto stimolante! Tempo fa è venuta a studio una donna reduce da una esperienza nella quale si ritrovava di tanto in tanto a recitare preghiere con il suo terapeuta, che le suggeriva anche delle pratiche meditative. La donna ha voluto interrompere il percorso perché non convinta di quella metodologia. Condivido la perplessità di un setting del genere. Il rischio di creare confusione e di non saper riconoscere il proprio spazio di intervento è reale, perciò caro Paolo il suo dubbio è più che legittimo. Non ci sono argomenti preclusi nel percorso psicoterapeutico, e la rabbia quando “Dio non ascolta”, le lunghe sofferenze che la fede non riesce a “risolvere”…tutto ciò che è significativo nella vita personale può essere accompagnato, per cercare insieme dei percorsi di maggiore benessere. Nel mio studio non nascondo le immagini sacre per mantenere un’inesistente neutralità, ma non faccio di certo psico-spiritualità, che sarebbe un obbrobrio deontologico e metodologico. La psicologia non è competente a discernere una vocazione, questo deve essere chiaro, è competente però a valutare come “funzioni” la persona, se sia veramente felice, quale sia la sua maturità, se abbia le risorse per affrontare determinati impegni, non solo nell’attualità ma anche nel futuro, e come potenziarle. Questo è fondamentale! Formatori e formatrici che pensano di poterne fare a meno (oggi grazie a Dio sempre meno) rischiano di accogliere ed incoraggiare persone che purtroppo nel tempo manifestano la loro scontentezza per un percorso che non le realizza. Come diceva un mio docente gesuita di grande esperienza e saggezza, lo scorrere del tempo non è di per sé un criterio formativo, per cui tutto ciò che non viene adeguatamente affrontato ed elaborato rimane lì… Per non scindere i due percorsi, quello umano e quello spirituale, e non delegare tutta la formazione solo all’uno o solo all’altro, sostengo fortemente la necessità e l’utilità di équipe vocazionali, dove cioè ci siano molteplici figure che accompagnano il processo individuale e trovino un modo per confrontarsi tra loro. Rigorosamente però col consenso esplicito del diretto interessato, anzi in sua presenza, e nel rispetto della privacy dei contenuti. È una questione molto delicata e non da tutti condivisa, per il rischio che la persona non sia sufficientemente tutelata nella sua segretezza, pericolo che per quanto mi riguarda non si è mai posto. Alcune realtà formative, perciò, preferiscono tenere del tutto indipendenti le due figure. Io non concordo. Fino ad oggi questa modalità di collaborazione, oltre ad essere stata sempre ben accolta dalle persone in formazione, ha prodotto frutti molto positivi. Innanzitutto perché nessuno può presumere di comprendere da solo l’altro nella sua totalità e complessità, né lo psicologo né l’assistente spirituale, mentre più occhi, più sguardi e più cuori che entrano in contatto con il/la giovane e tra loro, hanno una maggiore probabilità di coglierlo/a nella sua verità, e nel rispetto profondo della sua vita e della sua vocazione. E poi perché la persona sente di essere sostenuta e voluta bene, il suo bene, non di essere “controllata”, e dato che sono in ballo il suo presente e il suo futuro, ne apprezza il vantaggio.
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I consacrati e l’amicizia

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Mi domando se i religiosi sappiano in cosa consiste la vera e profonda amicizia per una persona consacrata al Signore e come formare e vivere questa amicizia - p. Christopher Brackett LC   vita-in-comune


Padre, intanto grazie per la sua domanda che tocca un tema centralissimo dell’esistenza umana: l’amicizia, e Lei aggiunge “profonda” e per “una persona consacrata al Signore”. Cerco di risponderle a partire da quanto ho potuto constatare all’interno del mondo maschile e femminile, tra gli anziani e le anziane, questa volta senza grosse differenze, e che mi ha stupito molto. Oggi si parla tanto delle relazioni light, e i giovani in genere sono considerati quelli più a rischio di essere sedotti dalle nuove dimensioni del mondo della Rete. È vero; tuttavia ho trovato nelle comunità, e non così raramente, anziani piuttosto chiusi, con poche, se non nulle, amicizie, e quando ho chiesto loro come mai avessero così poca confidenza l’uno con l’altro mi hanno risposto che «una volta non era ben vista l’amicizia all’interno delle case religiose». Anzi, hanno aggiunto, «quando si vedevano due persone andare “troppo” d’accordo, e magari parlare tra loro due, tre volte di seguito, si veniva immediatamente richiamati all’ordine». Penso si possa dire che molti di quanti hanno ricevuto la formazione anni fa, hanno vissuto con sospetto le amicizie, dette infatti “particolari”, proprio a sottolinearne la criticità. I giovani, invece, nonostante la Rete, sono più allenati nel dialogo e anche più spontaneamente propensi ai rapporti personali. Credo che questo sia un grande punto di forza su cui far leva: il bisogno di costruire ambienti sempre meno anonimi, dove si possa condividere concretamente una gioia, una preoccupazione, una fatica, magari con qualcuno, più che con altri. Mi pare che queste siano le caratteristiche più belle e più vere dell’amicizia: l’intesa tra persone che hanno in comune non solo un Ideale, ma anche la voglia di conoscersi meglio e di fare qualcosa insieme, cosa peraltro che aiuta a non rimanere incollati alle chat! Ho incontrato tanti giovani che nell’amicizia con un fratello, una sorella più vicina (per simpatia, sensibilità, storia personale, hobby) hanno dato maggiore energia al loro percorso, alla vita fraterna, alla preghiera, perché si sono incoraggiati a vicenda, magari richiamandosi affettuosamente, «oggi non ti ho visto a tavola dov’eri?», oppure «stamattina sei arrivato tardi alla preghiera, tutto bene?». Viceversa ho riscontrato vie di fughe compensatorie, e assai meno “sane”, in quelli più soli o che hanno fatto della castità una sorta di armatura protettiva verso qualunque affetto. Un affetto di amicizia forse infrange l’universalità di amore a cui è chiamato un consacrato? è rischioso? C.S. Lewis scrive ne I quattro amori (mi scuso per la lunga citazione): «Ciò non toglie, tuttavia, che qualunque affetto naturale possa essere smodato. Smodato non significa però “non sufficientemente prudente”, né significa “troppo grande”. Non si tratta di un termine quantitativo; direi anzi che è quasi impossibile amare “troppo” un qualunque essere umano. Potremmo amarlo troppo in proporzione al nostro amore per Dio; ma l’elemento di sproporzione è costituito dalla pochezza del nostro amore per Dio, non dalla grandezza del nostro amore per l’uomo». Perciò, Padre, per vivere l’amicizia in modo adulto, cioè che non chiuda la persona in un rapporto esclusivo, e che la aiuti a percorrere con coerenza e passione la propria strada, penso ci voglia innanzitutto una chiarezza di fondo, quella che noi psicologi chiamiamo “maturità di base”, essenziale anche solo per iniziare un processo vocazionale. E poi la possibilità di un accompagnamento formativo che affianchi serenamente e sostenga la crescita affettiva, senza demonizzare la possibilità di rapporti di amicizia con uomini e donne. Se il formatore vive queste dimensioni come un tabù, con ansia, o solo come fonte di preoccupazione, i giovani perdono l’opportunità di potersi confrontare con qualcuno che abbia più esperienza e di sviluppare quelle doti umane essenziali per loro stessi e per l’impegno verso il quale si preparano.
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Consacrati e Internet: binomio rischioso?

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Papa Francesco ha parlato delle suore chiuse nello loro stanze col pc. Internet e i social riducono la vita in comune? Piera   pc


Fino a poco tempo fa erano soprattutto le realtà maschili a trovarsi coinvolte in questa riflessione, perché l’impronta più individualista – più autonoma se vogliamo dirla in positivo – dei gruppi di uomini favorisce la creazione di spazi alternativi a quelli comunitari. Anche pornografia e alcol sono stati fino a poco tempo fa problematiche prevalentemente maschili, perché di fronte alle difficoltà c’è un’attitudine allo sfogo che nell’uomo è immediata, esplicita e concreta, nella donna è più “contorta” ed elaborata, anche se non per questo meno grave. Due uomini che non vadano d’accordo in genere discutono apertamente, due donne utilizzano strategie passive micidiali. Ora però le cose stanno cambiando, nel senso che anche le comunità femminili si trovano a fare i conti con un uso massiccio dei social e con esperienze di amicizie in rete piuttosto che dentro casa. Certo, all’inizio di un percorso vocazionale alcune accortezze possono essere utili – ad esempio non disporre di mezzi propri, computer o cellullare, soluzione che alcune Congregazioni adottano – ma poi come si procede? Qualche giorno fa ero con un gruppo vivace di giovani consacrate, impegnate e riflettere sulla qualità della loro vita fraterna, perché dopo vari anni di vita insieme si sono rese conto che c’è bisogno di conoscersi “veramente”, cioè oltre la forma di atti compiuti negli stessi orari e sotto lo stesso tetto. Mi hanno colpito, c’è voluto del coraggio per trovarsi insieme un’intera giornata a dirsi apertamente che forse oltre agli studi individuali o alle lezioni accademiche serve un contatto reciproco più umano, più caldo, dove ciascuna si senta riconosciuta, guardata, incoraggiata. Le realtà femminili hanno questo punto di forza: il bisogno di vicinanza, innato in noi donne, spinge a lottare finché non si costruisca un ambiente familiare, e ad intervenire quando magari una sorella comincia ad isolarsi. Gli uomini si lasciano in pace se anche notano che qualcuno di loro inizia a farsi “i fatti suoi”, noi macché…ci diamo il tormento fino a che non ci capiamo qualcosa. È proprio il caso di dire che i limiti talvolta diventano una risorsa! Sentire una giovane chiedere all’altra spiegazioni di comportamenti incomprensibili mi è parso un segno proprio bello di anti-solitudine; rinnovare l’esigenza di non dare per scontate alcune parole, quelle care a Francesco, anche semplicemente di buon appetito o di buongiorno con un sorriso e non a denti stretti, è un atto gigantesco anti-abbrutimento. Quindi la difficoltà non è tanto decidere se e quanto computer può utilizzare ogni suora. L’obiettivo vero è andare in profondità nell’amicizia e nell’accoglienza reciproca in comunità. Ritrovare le ragioni dello stare insieme. Una volta fatto questo, tutto il resto è secondario: ogni comunità si darà le sue regole con Internet, regole condivise (cioè decise insieme) ed applicate con serietà. Come è finita la giornata? Con un doveroso “selfie” di gruppo!
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Anziani in comunità: come invecchiare bene?

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Se guardo alla situazione della vita consacrata nella mia congregazione delle Suore Cistercensi della Carità, rifletto su questo: viviamo un cambio generazionale, dove l’età che più sta soffrendo è l’età di mezzo (50 anni). La vita ci richiede tanti cambiamenti e adattamenti ma… “annacquando” e svilendo la nostra scelta, per seguire le mode spirituali del momento? La mondanità spirituale di cui ci parla Papa Francesco? A mio parere c’è un urgente bisogno di creare ponti, per integrare e armonizzare la vita comunitaria, guardando a queste due sfide: 1.Le suore anziane: Come invecchiare bene? 2.Le suore straniere che vivono con noi in Italia: quale inculturazione, per giungere ad una vera integrazione, umana e spirituale? Perché, molte volte facciamo grandi errori, gli stessi errori dei genitori di oggi: le accogliamo, concedendo troppo, coccolandole e viziandole e poi pretendiamo di recuperare, correggendo e riducendo i troppi “si” detti. Che fare? Madre Patrizia Piva, Superiora Generale [caption id="attachment_61392" align="alignnone" width="300"]Suore in Vaticano Suore in Vaticano[/caption]


Carissima Madre, cercherò di non trascurare i diversi aspetti della sua domanda così ricca, senza però dilungarmi troppo, come invece la sua richiesta meriterebbe. Parto proprio da alcune riflessioni di Francesco, semplici, essenziali e così decise da farci tremare, senza mai essere dure però. Nella meditazione a S. Marta, del 17 novembre 2015 ci racconta la vicenda dell’anziano Eleazaro – lo aveva già fatto qualche anno prima, si vede che è una figura che lo colpisce molto – il quale, in un tempo di persecuzione, per non scendere a compromessi e accettare di mangiare carne suina, sputa il boccone e preferisce «allontanarsi da quanto non è lecito gustare per attaccamento alla vita» (2Mac 6). Gli amici, per risparmiarlo dalla morte, gli propongono di fingere, di bluffare salvando così l’apparenza, ma l’anziano rifiuta, non vuole cedere per coerenza con se stesso e con la propria fede, ma soprattutto perché non vuole confondere i giovani i quali avrebbero potuto pensare che a 90 anni sia lecito cambiare rotta, concedersi delle incoerenze, “ho già fatto abbastanza”. È un condensato di vita ancora attualissimo: siamo continuamente davanti a proposte alternative ai nostri valori, proposte che vengono non da estranei, ma da persone familiari, amici, colleghi, talvolta consorelle/confratelli perfino. Cosa voglio dire? Non io, ma la Scrittura prima e Francesco poi, che le difficoltà legate all’epoca storica ieri come oggi, o gli scarsi numeri delle comunità, non rendono lecito un calo di tensione, un abbassamento dell’ideale, un’operazione di marketing vocazionale: il percorso vocazionale deve mantenere standard altissimi perché non perda il suo valore profetico. Entriamo ancora di più dentro il racconto di Eleazaro: non è la vecchiaia anagrafica in se stessa un modello a cui rivolgere lo sguardo, lo è piuttosto la saggezza maturata negli anni che, crescendo, diventa pronta a dare la vita per non scandalizzare i giovani. L’anzianità di questo tipo si prepara, non si improvvisa! Si diventa anziani, di “quel tipo” verificando con coraggio, ogni giorno, che non si stia lentamente concedendo qualcosa al «trucco della doppia vita»… difficile da conoscere ma che si insinua nell’animo umano e mano a mano se ne impossessa… «lentamente distrugge, degrada la stoffa e poi quella stoffa diventa inutilizzabile» (17/11/’15). E i giovani, le giovani? Leggiamo insieme queste altre parole di Francesco: «Alcune congregazioni fanno l’esperimento della “inseminazione artificiale”. Che cosa fanno? Accolgono…: “Ma sì, vieni, vieni, vieni…”. E poi i problemi che ci sono lì dentro… No. Si deve accogliere con serietà! Si deve discernere bene se questa è una vera vocazione e aiutarla a crescere» (01/02/’16). Non si tratta di utilizzare misure severe, ci mancherebbe, le persone sono tutte adulte e ciascuna ha una propria dignità vocazionale, inoltre la comunità non è un arruolamento nell’esercito. Tuttavia siccome è alto il rischio di abbassare gli standard per poter riparare al calo numerico delle comunità religiose maschili e femminili, è fondamentale che il discernimento sia serio. Discernere vuol dire verificare se quella persona è nella strada giusta che la conduce ad essere felice, «diventare consacrati non significa salire uno, due, tre scalini nella società» (01/02/’16). L’integrazione parte innanzitutto da qui (mi riservo però di approfondire ulteriormente questo aspetto), da persone serene che sono al posto giusto, questo vale per tutti, dovunque. Non può avvenire una vera integrazione – dove cioè l’etnia di provenienza non si traduce in distanza o differenze di ruoli e trattamenti – se gli uomini e le donne di quella comunità non si sentano profondamente appartenenti alla realtà scelta. «La profezia è dire – con la vita – alla gente che c’è una strada di felicità, di grandezza, una strada che ti riempie di gioia» (ib).  
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Consacrati: ieri e oggi

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Qual è la vera vita consacrata, quella che si viveva prima o quella di oggi? Sr. Maria   comboni


Vorrei risponderle ribaltando la domanda…cosa vuol dire “vera vita consacrata”, ma poi si direbbe che gli psicologi rispondono domandando! Prevengo il rischio… Una questione non da poco. Se per “prima” intende una realtà più numerosa, più strutturata e più disciplinata, le rispondo semplicemente: meglio ora, senza dubbio. Nonostante sembri che prima tutto funzionasse meglio, credo – non solo per innato ottimismo – che oggi siamo in un momento importantissimo della storia umana. Di fronte a cambiamenti epocali, amplificati come ben sappiamo dalla potenza straordinaria della Rete, le coppie, le famiglie, le realtà di vita in comune, i sacerdoti, si trovano a dover ri-motivare le proprie scelte, per capire come renderle più vere – parola che lei usa sr. Maria – cioè autentiche. Essere autentico/a significa avere il coraggio di capire quali sono le cose essenziali nelle quali credo, per poi cercare di viverle. I tempi sono cambiati? Bene! È il momento giusto per ripensare cosa ritengo valido e come incarnarlo nell’oggi. Immaginiamo che una coppia giovane o meno giovane si ponga in questa ottica di lavorare sull’autenticità: le domande riguarderebbero COSA si cerca stando insieme, CHE TIPO DI COPPIA si vuol essere, QUALI MEZZI si utilizzano per realizzare le precedenti risposte. Lo stesso vale per la vita sacerdotale, religiosa e per qualunque scelta di vita in comune: PERCHE’ quella forma e non un’altra? QUALE MODELLO di riferimento ho in mente? QUALI strumenti uso per cercare di realizzarlo? Sono COERENTI al progetto di vita? Suggerimenti verso la costruzione di scelte sempre più autentiche mi vengono da un convegno appena concluso, su Formazione e Prevenzione (organizzato dall’Arcidiocesi di Firenze, in collaborazione con la Facoltà Teologica dell’Italia Centrale e la Pontificia Università Gregoriana). Un primo suggerimento riguarda la qualità relazionale: complici anche approcci psicologici che hanno favorito una logica individualistica «innanzitutto devo star bene io e di conseguenza staranno bene gli altri», questa può essere carente anche laddove ci sia un preciso obiettivo vocazionale. Uno dei relatori, mons. Dal Molin, ricordava le parole del papa in un discorso tenuto alla Cei lo scorso anno: «Il nostro primo compito è quello di costruire comunità, l’attitudine alla relazione è quindi un criterio decisivo di discernimento vocazionale». E un altro autorevole intervento faceva notare – lo dico con parole mie – come invece il messaggio implicito degli ambienti formativi (in senso ampio, e non solo seminariali) è: guai a venir meno ad un esame, mentre pazienza se si manca ad un pasto assieme, o ad un momento di festa. In altre parole nelle persone si fa inconsapevolmente strada l'idea che la formazione accademica e la capacità intellettuale abbiano più valore della competenza umana-relazionale. L'autenticità si gioca invece su questa attenzione a non creare grandi teste, ma piccoli cuori. Infine, sr. Maria, sono state di grande impatto le parole di un sacerdote formatore nel seminario di Milano, valide anche per altri contesti. Le riporto più o meno letteralmente: la formazione può “favorire il congelamento” dei compiti evolutivi (S. Guarinelli), lasciando le persone ad uno stadio infantile e non responsabilizzante. Una vita diventa invece vera quando le persone sono aiutate ad “adultizzarsi”, ad assumere quella scelta di vita come propria fino in fondo. E in questo processo di verità oggi abbiamo più consapevolezza di ieri e quindi maggiori opportunità di diventare autentici.
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Interessa ancora la vita consacrata?

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Una provocazione. Perché la vita consacrata non esercita più il suo appeal alle nostre latitudini? Colpa del benessere, della maggiore istruzione e di migliori condizioni di vita? Sr. Enza   [caption id="attachment_62014" align="alignnone" width="300"]Suore Suore[/caption]


Interessante la provocazione di sr. Enza. La raccolgo e provo a rispondere. La diminuzione dell’appeal della vita in comune, specie quella religiosa, credo sia dovuta innanzitutto al grosso cambiamento avvenuto col Vaticano II. La Lumen Gentium infatti ha aperto una prospettiva nuovissima: la santità alla portata di tutti, e non solo di quelle vocazioni di speciale appartenenza al Signore. È come dire che la vita consacrata non è più l’unica o almeno la “migliore” strada per vivere il vangelo, religiosi e sposi acquistano la stessa dignità. Colpo di scena quindi. Le vie si diversificano e se vivo quella che ho scelto dando tutta me stessa, l’Amore diventa possibile anche per me. Non basta. C’è poi la questione ancora aperta dell’urgenza di un rinnovamento di forme di vita nate in altri contesti storici e sociali, e quella femminile più di quella maschile risente di antichi retaggi culturali. Alcune esperienze di vita religiosa non sembrano attraenti, perché hanno un serio bisogno di aggiornamento, con tutta la fatica che questo richiede, tenendo conto che ci sono generazioni nostalgiche dei “tempi che furono”, a fianco delle nuove che invece scalpitano (e per nuove intendo anche la fascia dei/delle 40enni), e che il processo comunque è articolato. Prendiamo il carisma: diversi religiosi si sentono allo stretto nel dover leggere la vita e le regole date dal Fondatore/dalla Fondatrice vissuti in un altro secolo e che hanno quindi un “linguaggio” ormai superato, non solo perché la lingua si è evoluta, ma anche perché lo stile che propongono non è più attuabile. Il modo di pregare ad esempio: le pratiche devozionali, che molte Congregazioni mantengono in vita in modo massiccio, e che pure in origine avevano il loro senso, risultano oggi poco sopportabili, alla luce di tutto il rinnovamento liturgico iniziato col Concilio. E così per altri aspetti della vita in comune, come l’obbedienza. Come incarnarla in questo terzo millennio in cui i ragazzi iniziano a respirare autonomia praticamente da quando vengono al mondo? Come formare persone adulte e responsabili della propria vocazione? Non è più abbastanza attraente neppure per i suoi membri un'esperienza di cui non si comprendano pienamente il significato ed il valore, perché sganciata dalla realtà locale e dai bisogni dell’umanità circostante. Difficile dunque che possa contagiare altri. Infine, e qui vado un po’ fuori dal mio campo di competenza, da credente penso che si sia pure infiacchito il senso profondo delle nostre scelte di fede, che riguardino il matrimonio, come la vita religiosa. In fondo: cosa stiamo cercando? Sr. Enza ha ragione: il benessere e il mito della libertà hanno indebolito la nostra capacità di dono, per cui la coppia può scivolare verso forme di individualismo a due, e la vita consacrata verso forme di agio e comodità, depotenziando così la sua forza profetica. Ferma restando quindi la necessità innegabile che le forme di vita in comune ripensino ciò che di vero e valido possa rimanere in piedi delle proprie consuetudini, e quello che invece urge cambiare, dovremmo rianimarci tutti a mettere fuoco nelle nostre strade. L’ideale deve rimanere forte, “la profezia del Regno non è negoziabile”, tuonerebbe il nostro Papa! Le scelte ibride non sanno di un bel niente.
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