L'esperto risponde / Educazione

Ezio Aceti

Laureato in psicologia, consigliere dell’Ordine degli psicologi della Lombardia, esperto in psicologia evolutiva e scolastica, è nella redazione del giornalino Big Bambini in giro. ha pubblicato per Città Nuova: I linguaggi del corpo (2007); Comunicare fuori e dentro la famiglia (nuova ed. 2012), Crescer(ci) (2010); Mio figlio disabile (2011); con Giuseppe Milan, L’epoca delle speranze possibili. Adolescenti oggi (2010); Educare al sacro (2011); Mio figlio disabile (2011); Nonni oggi (2013); Crescere è una straordinaria avventura (2016); con Stefania Cagliani, Ad amare ci si educa (2017).

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Educazione

L’insegnante è un modello

La scuola è spesso in crisi: insegnanti e studenti faticano a trovare una intesa, e soprattutto la disciplina e l’attenzione sono merce sempre più rara. Quale deve essere secondo lei il corretto rapporto insegnanti-studenti? Ludovica di Foligno

Carissima Ludovica, la tua domanda pone al centro il rapporto fra docenti e studenti. È necessario allora porre l’attenzione sul valore educativo della scuola. Oggi, per fare l’insegnante, non basta più conoscere la propria materia, ma è necessaria una preparazione relazionale che l’università non sempre fornisce.

Infatti, mentre un tempo il paradigma che muoveva i rapporti nella società era caratterizzato dalla norma e dalle regole, spesso vissute e imposte in modo rigido e autoritario, oggi tutto è cambiato.

Il filosofo Galimberti, nella sua analisi sulla società contemporanea, dice che in questi ultimi quarant’anni, con l’esplosione dei mass media e l’invasione delle emozioni, sono avvenuti molti più cambiamenti che non nei 1970 anni di prima.

Una volta il professore veniva rispettato e spesso era temuto. Oggi ci si muove all’interno di mille emozioni e gli aspetti relazionali affettivi sono sempre più importanti nel processo formativo. Ogni professore deve sapere che è un educatore.

Un tempo l’insegnante era distaccato e il rapporto non era obbligatorio. In pochi anni, invece, si è passati da un rapporto troppo distaccato e distante, caratterizzato spesso da un autoritarismo esagerato, a un’interazione dove quasi non c’è più distinzione tra docente e studenti. L’esplosione delle emozioni ha travolto anche il confine etico-morale che deve caratterizzare la convivenza in classe.

Il rapporto quindi deve essere al centro del processo formativo. Un rapporto di stima e dialogo, concentrato su autorevolezza e rispetto. Essere insegnanti oggi comporta una serie di abilità e sensibilità che non sempre vengono prese in considerazione dagli organi competenti e dai dirigenti. Purtroppo le ristrettezze economiche e politiche non sempre favorevoli alla scuola determinano una poca considerazione di questa agenzia educativa che, insieme alla famiglia, è il vero tessuto connettivo della società italiana.

Avere educatori preparati professionalmente e umanamente comporta investire risorse non solo per la preparazione scientifica, ma anche per la preparazione umana ed emotiva, che favorisca la maturità di chi si appresta a un compito bellissimo e delicato come quello dell’insegnamento.

L’insegnante deve avere quell’autorevolezza che permette agli studenti non solo di imparare, ma anche di stimare il modello di persona che ha di fronte.

L’autorevolezza si conquista con ingredienti particolari:

1) la professionalità. Il docente ha il dovere morale di trasmettere il proprio sapere.

2) il rispetto e la serietà dell’impegno. L’insegnante deve essere un modello da imitare per i propri allievi.

3) lo stile fraterno. Il professore deve avere la pazienza del pedagogo, consapevole di avere a che fare con giovani in crescita.

Quindi occorre cominciare dalla consapevolezza che in classe l’aspetto relazionale è centrale. Per essere bravi insegnanti non basta più conoscere la materia, ma si deve instaurare un rapporto pedagogicamente corretto con gli studenti, dove chi sa di più si abbassa come un piano inclinato verso chi conosce meno e lo aiuta, mediante una relazione positiva e chiara, a conoscere le cose, il mondo e la vita.

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Psicologia

La paura del bambino immigrato

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Sono rimasta turbata dalle foto dei bambini immigrati, soli dietro le sbarre perché allontanati dai genitori, alla frontiera tra Messico e Usa. Laura


Vorrei parlarvi di quello che prova un bambino immigrato. Non avete mai provato ad essere bambini immigrati? Non avete mai provato a sentire il cuore, le emozioni, le lacrime, invadervi improvvisamente e… sentirvi inermi, soli? Tutto questo e forse di più è quello che prova un bambino immigrato. Forse non vi rendete conto di quello che un bambino immigrato vive. Un bambino immigrato ha paura. Paura. Paura che il suo papà e la sua mamma vengano portati via. Paura che Il viaggio nel deserto e nel mare porti nel luogo della morte. Paura perché chi si prende cura di lui continua a bestemmiare, a gridare, a urlare, a denigrare. Quando erano a casa loro, c’erano le bombe, le pistole, i carichi di morte… e aveva paura. Ora che sta viaggiando con i propri genitori ha paura. Se è solo ha paura di trovare… paura. Una paura che lo accompagna maledettamente… a meno che non trovi un sorriso, qualcuno che se ne frega di tutto e si interessa solo di lui. E non fatemi ridere sul fatto che ci invadono, che ci tolgono il lavoro, che ci… quanti che ci… Se Cristo tornasse fra noi, rovescerebbe tutte le ipocrisie dei benpensanti che fabbricano bombe e li danno ai popoli padri di questi bambini… Se Cristo tornasse griderebbe contro tutti quegli ipocriti che dicono di aiutarli a casa loro: ma quale casa? La loro casa è la nostra casa. E la nostra casa dovrebbe essere la loro. Se Cristo tornasse fra noi sarebbe quel bambino immigrato e morirebbe con i loro genitori. Se Cristo tornasse fra noi sarebbe Francesco che, come voce nel deserto, grida a tutti le paure di questi bambini… E per favore, non lasciamoli soli.
Psicologia

La morte del fratellino

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Di fronte alla morte prematura del mio secondo figlio (aveva solo tre giorni), l’altro figlio Carlo di 5 anni mi ha chiesto: «Quando si muore?». Franca


I bambini necessitano di una spiegazione chiara e determinata di fronte alla morte, in modo che con le nostre parole possiamo dare loro il senso della vita. Ai bambini bisogna rispondere che «si muore quando si ha finito di vivere». Questo può sembrare drammatico ai loro occhi, ma non è così. Questa verità profonda rassicura tutti quei bambini che stanno attraversando il momento dell’ansia della morte. E al piccolo Carlo si può dire che il fratellino se n’è andato in fretta, prima di vivere e di invecchiare. Noi che lo aspettavamo abbiamo sofferto… ma lui che ha finito di vivere così in fretta ora aiuterà la nostra famiglia. Le parole dette a un bambino hanno un valore simbolico importante, sia perché i genitori per i piccoli rappresentano dio in terra, l’assoluto, sia perché le parole per loro hanno lo stesso significato della vita e fungono da simbolo per la realtà In questo modo il fratellino che se n’è andato farà sempre parte della famiglia, non nella tristezza, ma nella vita simbolica. Nella testa del piccolo Carlo, con le nostre parole, noi permettiamo al fratellino di vivere per sempre, perché è stato amato nei mesi della gestazione e sino alla nascita. La cosa importante non è la vita fisica, ma che un essere umano, il quale aveva preso corpo da due persone che si amano e sono legate dal desiderio, ha potuto nascere ed è andato via presto. Ha finito di vivere prima che gli altri se ne accorgessero. La rappresentazione simbolica è ciò che accompagna la vita e va al di là del tempo. A volte raccontiamo ai bambini storie strane sulla morte, oppure neghiamo loro la verità temendo chissà quali conseguenze. Tutta la nostra vita, sia che siamo credenti sia che non lo siamo, dimostra che c’è una Realtà più grande del nostro corpo, una Realtà che magari non possiamo conoscere fino in fondo, ma che in qualche modo possiamo avvicinare. Intuiamo che questa Realtà è fuori dal tempo e dallo spazio. Ci avviciniamo ad essa con l’arte, con la musica, con la pittura, con la bellezza oppure, come nel caso del nostro piccolo Carlo, con la morte del fratellino. Naturalmente, se siamo credenti, possiamo dare un nome a questa Realtà e dire che il fratellino ora è con Gesù, per cui lo possiamo pregare e gli possiamo sempre chiedere di darci una mano. Ma la morte è una realtà che sta li a dimostrare a tutti che il corpo è solo il simbolo di qualcosa di più grande. Sta a noi far partecipi i nostri figli, aprendo loro l’incontro con questa Realtà che è il mistero della vita. Vale la pena viverla bene, per avvicinarci nel modo migliore alla nostra morte.
Psicologia

Prendere su di sé l’ansia del bambino

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Mia figlia di 4 mesi quando è in braccio a un estraneo piange, perché? Angela di Treviso


La domanda mi dà l’opportunità di accennare brevemente a ciò che un bambino vive nei primi mesi di vita. Se potessimo rivivere l’esperienza che fa ogni bambino nel primo anno della sua esistenza, scopriremmo quanto l’amore e l’attaccamento al Bene siano i cardini basilari della vita. Prendiamo ad esempio il momento della nascita. Grandi psicologi infantili come Winnicott, Montessori, Klein e Dolto, sono concordi nel ritenere questo evento come un momento carico di angoscia dovuta al passaggio dal pianeta caldo e accogliente dell’utero materno al mondo esterno, che costringe subito il neonato al respiro. Il respiro è talvolta drammatico, un bruciore che entra nei polmoni perché il neonato non sa respirare e l’aria all’inizio… “brucia”. Quando il bambino manifesta disagio col pianto, allora subito qualcuno lo accoglie, qualcuno prende la sua angoscia e lo accudisce. È importante che questo momento avvenga alla presenza della persona che sarà il “tutto” per il bambino: la madre. Questo prendere su di sé l’ansia del piccolo è il prototipo di ogni amore, di ogni cura. Un’attenzione e una cura che da questo momento accompagnerà il bambino in tutti i momenti della vita. In particolare l’allattamento e la soddisfazione della fame gli faranno sperimentare il piacere. È grazie a questi momenti, e al continuo appagamento degli istinti del bambino, che la madre rappresenterà il Bene. Sì, il Bene che pian piano il bambino porterà dentro di sé. Come ha affermato lo psicoanalista Franco Fornari (1921-1985), è un «bene che si può prendere e dal quale si può essere presi, cioè un prendere insieme, un con-prendere». Grazie al riflesso ereditario presente nel bambino, cioè quell’automatismo biologico che lo porta ad introdurre in sé stesso la realtà esterna, la madre verrà portata dentro di sé, come fonte di ogni bene. È stato lo psicologo John Bowlby (1907-1990) a descrivere in modo sistematico l’importanza della presenza di una madre Buona. Sosteneva che «l’attaccamento è parte integrante del comportamento umano, dalla culla alla tomba». La teoria dell’attaccamento, inserita nell’ottica sistemica, etologica ed evoluzionista, propone un nuovo modello psicopatologico, in grado di dare indicazioni generali su come la personalità di un individuo cominci ad organizzarsi fin dai primi anni di vita. L’esperienza del piacere produce nel bambino la nascita di un fantasma buono, di una presenza buona. Quando poi il piccolo si impadronisce della percezione del mondo esterno, specialmente con lo sviluppo della visione, egli cerca, per così dire, una presenza buona interna in un qualcosa che sta fuori di lui: la madre, il seno della madre. Succede poi che, soprattutto dopo un po’ di mesi, quando è con estranei il bambino prende coscienza dell’assenza della madre e piange in modo disperato. Occorre rispettare i tempi del bambino, il quale sperimenterà che la madre va e viene, che la madre compare e scompare, e che i momenti di abbandono verranno successivamente ricompensati con la presenza. Man mano che crescerà troverà alcuni oggetti che sostituiranno la madre: l’orsacchiotto di peluche, il ciuccio, il bambolotto. Saranno i giocattoli a sostituire la madre, accompagnando il bambino verso luoghi o persone sconosciute.  
Psicologia

La morte dei nonni

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I miei figli adorano i loro nonni e ciò mi rende felice… ma mi chiedo, e poi? Quando non ci saranno più? Una mamma


Se i nonni non ci fossero bisognerebbe inventarli! Oggi sono sempre più importanti, non solo per il sostegno economico che possono offrire a figli, ma soprattutto per il supporto psicologico ed emotivo che assicurano ai nipoti. È stata Melania Klein (1882-1960), psicoanalista infantile discepola di Freud, a sostenere in modo determinante il ruolo dei nonni. Ella affida loro un compito importante: dare un apporto significativo alla costruzione di un mondo interiore dei bambini buono e gratificante, lontano dagli inevitabili conflitti che legano genitori e figli. I nonni, infatti, attraverso le loro relazioni positive con i nipoti, contribuiscono in modo determinante a una percezione positiva della vita. In più aiutano i bambini a controllare le emozioni contrastanti che possono percepire durante i momenti di frustrazione. I nonni rappresentano anche la continuità degli affetti, il tempo che passa e che testimonia l’amore disinteressato che gli uomini sono in grado di donare. I bambini infatti percepiscono la disponibilità dei nonni come un eden dal quale trarre tutto quanto possibile, e comprendono che la vita è fondamentalmente buona per cui possono interiorizzare il mondo come esperienza gratificante e sicura. [caption id="attachment_60607" align="alignleft" width="195"]Nonni oggi (Città Nuova editrice) Nonni oggi (Città Nuova editrice)[/caption] Certo, tutti noi sappiamo che in realtà non è proprio così, ma abbiamo gli strumenti per comprenderlo mediante una logica razionale. Siamo infatti in grado di scegliere il bene anche quando vediamo bene e male convivere intorno a noi. Il bambino, invece, con la sua logica egocentrica, fa fatica a comprendere le due facce della medaglia e percepisce le cose o come tutte buone o come tutte cattive. Ecco allora i nonni che, con le loro cure e la loro disponibilità disinteressata, contribuiscono a donare ai bambini una percezione positiva della vita. Da parte loro, naturalmente, i nonni devono essere in grado di superare ed elaborare il senso di esclusione che talora possono avvertire, quando magari vengono un po’ emarginati. Devono accettare la differenza generazionale con i propri figli e all’occasione farsi da parte, per permettere a figli e nipoti di avere una loro relazione autonoma e responsabile. Quando invece la vita dei nonni arriva al tramonto, è importante che i genitori non lascino i nipoti senza spiegazione, per timore di chissà quale sofferenza. I nipoti hanno il diritto di sentire che i nonni vivono nel loro cuore perché i genitori hanno mantenuto viva la loro partenza da questo mondo. Ecco perché i genitori possono sempre dire ai bambini, anche se piccoli: «Il nonno è morto, lo vuoi salutare?». Vedrete che i bambini risponderanno: «Sì». Ho visto alcuni nipoti baciare la fronte fredda della nonna e dire «Ciao nonna, ciao». Vi garantisco che quella nonna vivrà per sempre nel loro cuore, e continuerà a vigilare su di loro mediante l’incoraggiamento emotivo che continuerà a farsi sentire.
Psicologia

Il tempo dei bambini

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Oggi non abbiamo più tempo, ogni cosa ci scivola addosso. Solo i bambini sembrano viverlo ancora in modo intenso… non sarà che dobbiamo ridiventare bambini? Alfredo


Ho provato a immaginarmi come vive il tempo un bambino. Probabilmente ragionerebbe cosi: «tutto è bello, tutto è importante, tutto è vita, tutto è me. Ogni avvenimento per me è unico, eterno, come se ci fosse solo quella cosa li. Cinque minuti per me sono come cinque ore. Quando piango mi sento disperato, come se non finisse mai il mio dolore. Quando rido mi sento come nella piena felicità, fino a farmi male la pancia dal troppo ridere». Infatti provate a dire a un bambino agitato: «Adesso vai nella tua stanzetta e stai lì cinque minuti per calmarti», vedrete che dopo venti secondi il bambino vuole uscire dalla stanza per ritornare da voi. Gli studi sulla prima infanzia testimoniano che i piccoli sono completamente immersi e radicati nell’istante presente. Ecco perché Gesù ci ammonisce dicendoci di essere come bambini, cioè di essere pienamente fiduciosi dell’amore del Padre che ci ama ora, nel tempo, come fossimo unici. Il prima e il dopo, per i bambini, hanno valore in quanto sono vissuti nell’istante che sta trascorrendo. Il tempo vissuto dal piccolo è strettamente collegato alle risposte d’amore primarie che la mamma offre. Donald Winnicott, il famoso psicologo infantile, si riferisce alle preoccupazioni primarie che la madre esprime quando il bambino piange o ride, ritenendo tutto ciò come risposta immediata alle sollecitazioni del piccolo. Quante volte abbiamo visto piccoli dapprima piangere in modo disperato per un giocattolo che si è rotto, e subito dopo ridere a crepapelle per il solletico della mamma sotto il piedino. Il piccolo infatti, per la sua incapacità di collegare gli eventi, per la sua memoria ancora vergine, per la sua totale dipendenza dall’adulto, percepisce le cose e gli avvenimenti come eterni, infiniti, perenni e li vive con tutto se stesso, con la serietà profonda che le cose meritano. Questo vivere il tempo come assoluto può aiutarci a considerare le cose e la vita nel loro vero significato: opportunità per vivere fino in fondo e per dare senso a ciò che facciamo. Aveva ragione Simone Weil, la famosa filosofa francese, quando affermava che la realtà più intelligente fra gli esseri umani è l’attenzione, perché in questo modo si è sempre fuori di sé e concentrati nel presente, con le persone e le cose. Del resto anche la famosa pedagoga italiana Maria Montessori, quando parlava del bambino, diceva che questi era il padre dell’umanità, perché costringe noi a essere veri, autentici, disponibili alla sua innocenza totalmente vissuta nel presente. E la mistica buddista e il sufismo islamico ci insegnano a considerare l’attimo presente come prezioso e unico per vivere in armonia con noi e con il creato. In questo modo, il tempo assume i colori dell’eternità e si tinge di storia vissuta facendoci comprendere quanto sia importante non sciuparlo. Se cerchiamo invece di averne la massima cura, mediante la nostra volontà, e di viverlo in donazione, realizziamo lo scopo principale per cui ci è stato dato il tempo: costruire la famiglia universale.
Psicologia

Degrado tv

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Il talk show “L’isola dei famosi” mi sembra un grande imbroglio, cosa ne pensa? Uno spettatore tv


Sì. Ci risiamo con l’ennesimo spettacolo illusionista e falso: è degradante se proprio “i famosi” ci presentano banalità e frivolezze di ogni genere. Il pensiero egocentrico si esalta, presenta il peggio di sé in una allegoria narcisista che buca gli schermi e comprime i cuori. Alla fine di ogni puntata il risultato è sempre lo stesso: nausea, tristezza e sfiducia verso l’essere umano. Tanto che alla fine si salva chi è riuscito a eliminare tutti. Insomma è più bravo chi riesce a eliminare tutti gli altri. D’altronde è proprio la filosofia di fondo che è menzognera, e costringe le persone a esprimere il peggio di sé. Forse sono eccessivamente critico, ma è ora di finirla di lamentarci del degrado espressivo e comunicativo del giovani e della loro superficialità quando noi adulti presentiamo loro spettacoli così degradanti. Quanto sono vere le parole del grande filosofo Paul Ricoeur quando, prevedendo quello che sarebbe successo, nel futuro diceva: temo che arriverà il tempo in cui non ci sarà più il bene e il male, dove lo stesso tempo dedicato al Grande Fratello sarà uguale a quello dedicato al problema della fame nel mondo. Per fortuna papa Francesco ci ricorda sempre l’essenziale, cosa è veramente importante per la vita. I giovani lo stanno ad ascoltare perché, nonostante i tentativi di addormentare le loro coscienze, l’anelito di verità e di luce alberga sempre nel loro cuore
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