L'esperto risponde / Psicologia

Chiara D’Urbano

Psicologa e Psicoterapeuta EMDR, Consultore del Dicastero per il Clero, Perito della Rota Romana e dei Tribunali del Vicariato di Roma, ho studiato presso la Pontificia Università Gregoriana e poi mi sono specializzata in Psicologia clinica e Psicoterapia psicoanalitica. Mi occupo in particolare di formazione e accompagnamento psicoterapeutico della vita sacerdotale e consacrata e di problematiche di coppia. Collaboro nella ricerca e nella docenza con l’Istituto di Studi Superiori sulla Donna. Con l’editrice Città Nuova ho pubblicato tre libri: La pietra della follia, Per sempre o finché dura e Percorsi vocazionali e omosessualità.

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Il posto del dolore

Vorrei capire come distinguere la sofferenza legata al sacrificio, che qualunque vocazione richiede, da quella che invece può segnalare di non essere nel contesto giusto. Oggi si sfugge a qualunque impegno, ma “fin dove” Dio può chiedere la rinuncia a se stessi? Un consacrato

È profondo e delicato l’interrogativo. Lei ha ragione, sia dal punto di vista psicologico che della fede: il limite e la fatica fanno parte del cammino di crescita dell’essere umano.

Un bellissimo studio di André Godin rilegge la vicenda di Saulo di Tarso, mettendo in evidenza come l’autenticità della sua vocazione sta nel totale stravolgimento di vita. Era un uomo colto, già profondamente credente e retto, che seguiva Dio, difendendolo però con violenza. A un certo punto succede qualcosa: Saulo scopre che quel Dio non era come lo aveva immaginato, non era forte e vendicatore, bensì si identificava totalmente con i poveri, gli ultimi, i perseguitati.

Deve essere stato sconvolgente! La caduta da cavallo, tramandata dalla tradizione, è l’immagine metaforica di un processo stra-ordinario di cambiamento dei propri orizzonti, verso altri fino a quel momento del tutto sconosciuti.

Saulo diventa perfino cieco, come a dire che perde la capacità di controllo e gestione della sua vita. Non si potevano trovare immagini più vivide per rappresentare la fatica di Saulo, ora Paolo, il quale non solo scopre che l’Altro ha un volto diverso da quello che finora si era figurato, ma dovrà anche ingegnarsi a trovare nuove strade per corrispondergli.

Si può dire, allora, che la vocazione religiosa da una parte è in linea col desiderio profondo del cuore umano, dall’altra però apre spazi nuovi e questo non avviene in modo “indolore”. Come potrebbe, del resto, un aggressore diventare “spontaneamente” apostolo dell’unità, senza alcuna resistenza interiore?

Qui mi sembra il punto nodale della domanda posta all’inizio. Immagino, infatti, che Paolo ogni giorno avrà dovuto rinnovare la propria adesione a Colui che da poco aveva ri-conosciuto, ma immagino pure che questa lotta non abbia significato per lui la fatica immane di ricominciare ogni giorno e ogni momento da zero, perché una vita del genere sarebbe insopportabile. Dunque una vocazione autentica non è una continua salita.

Paolo sente che quel Dio-uno-con i piccoli è degno di credibilità e questo gli dà energia, volontà, senso totale di vita. Paolo è più felice del vecchio Saulo di Tarso e si spende senza misura per essere come Colui che ha messo al centro della propria esistenza, vivendo secondo l’intuizione ricevuta.

Credo che questi siano i segni di una vocazione autentica: espande l’umanità, non la rattrappisce, non rende la persona più cupa e meno generosa. Ciò non ha nulla a che vedere con il carattere, più aperto o più riservato, né con le difficoltà, maggiori o minori, che ciascuno affronta a causa dei propri tratti personali e della propria storia.

Ha piuttosto a che vedere con il senso di appartenenza: fare mia quella realtà scelta, e darmi tutta ad essa. Come è stato per Paolo. Quali sono i segni concreti per capire che l’appartenenza non si è sviluppata? Chi è sempre molto critico rispetto al proprio ambiente di vita, o ha un umore fuori partitura, perché raramente riesce a sintonizzarsi con l’atmosfera emotiva del gruppo, o chi conteggia il dare e il ricevere. Queste persone forse non sono ancora “cadute da cavallo”, e ciò non ha nulla di moralistico, né di patologico.

Non si tratta di diventare esaltati rispetto alla propria vocazione, né degli iperattivi (anche Saulo lo era), ma di sentire una corrispondenza – “attiva” la chiama Godin – tra i desideri personali e quelli della realtà scelta.

Perciò il soffrire non è necessariamente indice di vocazione realizzata – vedo tante persone che stanno male, convintissime (sbagliando) che il dolore sia proprio il segno della volontà di Dio. Allo stesso tempo, la fatica che si impiega quotidianamente non è indice di una vocazione imperfetta.

C’è un altro segno, a mio parere significativo, per leggere una vocazione e il suo essere autentica: il discernimento comunitario. Ma ne parleremo un’altra volta.

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Gelosia e invidia in comunità

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Credo di non scandalizzare nessuno dicendo che uno dei problemi che affliggono la vita comunitaria, parlo ovviamente a partire dalla mia esperienza, sono le gelosie che si vengono a creare. Perché una sorella magari studia fuori, può sembrare che abbia possibilità in più delle altre, solo per fare un esempio. Insomma sono convinta che invidia e gelosia siano le piaghe delle nostre realtà di comunità. Una consacrata  A volte penso che sia più facile confidarmi con una persona esterna al mio ambiente che con un confratello. Ho visto confronti e scontri che nascono da una sorta di gelosia tra di noi, sebbene non abbiamo incarichi di potere che “giustifichino” i nostri atteggiamenti diffidenti! Un sacerdote  


Nel linguaggio comune la gelosia è associata a una relazione significativa di amicizia o di amore. Si possono provare sentimenti di gelosia verso un amico da cui ci sentiamo trascurati o verso il partner, quando ci sembra che non ci guardi con gli stessi occhi di un tempo e magari rivolga attenzioni privilegiate a qualcun altro. L’invidia, invece, tra i vizi capitali, riguarda il sentimento di tristezza di fronte al benessere, alla felicità, o al successo altrui. In genere è una condizione che molto difficilmente siamo disposti ad ammettere, perché riconoscere di trovare soddisfazione nella disgrazia dell’altro e di stare male quando questi sta bene è piuttosto imbarazzante. Entrambe queste condizioni interiori, comunque, nascono dal cuore umano e perciò non possono considerarsi estranee neanche all’interno di scelte di vita di speciale appartenenza al Signore, per quanto ciò possa sembrare paradossale.   Sacerdoti e consacrati/e devono fare i conti con la domanda di sentirsi realizzati e al proprio posto, che rappresenta la radice psicologica di sentimenti meno benevoli. Per non vagare con criteri che rischiano di diventare soggettivi, in linea con l’antropologia cristiana utilizzo come termine di confronto il livello di benessere ottimale indicato dal Manuale Diagnostico, condiviso dalla Comunità scientifica internazionale (DSM-5). Utilizzare uno strumento simile non vuol dire spostare su un piano tecnico la riflessione, ma evitare che ciascuno abbia una propria lettura dell’argomento. E poi significa riconoscere che il percorso vocazionale mette in campo tutta l’umanità della persona, che ciascuno è chiamato a conoscere e migliorare. Al «livello 0», quello ideale, la persona «ha un’autostima positiva coerente e autoregolata, che non dipende dai riscontri esterni, non è gelosa o invidiosa. Inoltre «è capace di percepire, tollerare e regolare una gamma completa di emozioni», per cui varia gli stati d’animo in base alle situazioni, senza essere sempre arrabbiata, in conflitto, preoccupata, in competizione… Se poi integriamo il piano dell’identità con quello degli obiettivi di vita, il Manuale mette in campo diversi aspetti: la persona ha una realistica valutazione delle proprie capacità e su queste pianifica e persegue obiettivi ragionevoli (= non idealizza quelli altrui), realizzandosi nei diversi ambiti. Di materiale con cui misurarsi ce n’è già abbastanza.   Si potrebbe obiettare che però, così, il discorso è concentrato solo sulla persona/individuo. E infatti il Manuale integra la dimensione del sé con quella interpersonale. Scelgo solo alcuni passaggi che, a mio parere, costituiscono una potente base di riflessione. La persona «desidera e si impegna in diverse relazioni affettuose, premurose e reciproche», «si adopera per la collaborazione e il bene comune e risponde in modo flessibile alla gamma di idee, di emozioni e comportamenti degli altri». È un testo scientifico a dirlo! Mettendo insieme, allora, i diversi criteri di “buon funzionamento”, credo si possa dire che tra i ministri e i consacrati normalmente si attivano dinamiche di confronto reciproco – e questo è normale e inevitabile –, ma che il confronto può diventare conflittuale e malato, quando l’area di insoddisfazione personale prevale sulle fatiche esistenziali normali. Intendo dire che tutti possiamo migliorare e maturare, ma quando la quota di non-realizzazione di sé è elevata, gelosia e invidia possono diventare distruttive. Aggiungo che tali sentimenti hanno significati diversi a seconda della personalità di base, ad esempio la gelosia può essere legata alla paura di abbandono, al non sentirsi riconosciuto dagli altri, a un senso di fallimento… ma il discorso non può essere approfondito qui   Un’ultima considerazione. L’ambiente circoscritto e stabile, penso ad esempio alle comunità contemplative, ma in fondo a tutte le comunità religiose, e ancora il carrierismo, oggi diffuso anche in ambito vocazionale, e ancora l’incertezza sull’identità dell’essere sacerdote o consacrato nel terzo millennio, sono fattori che possono favorire atteggiamenti di scarsa solidarietà e il bisogno di primeggiare. In fondo il narcisismo di cui oggi parliamo spesso è proprio questo. Nessuno, purtroppo, è immune da un tale clima così seducente, ma anche così divisivo. Concludo, allora, tornando sull’importanza di lavorare su di sé – formatori e responsabili di comunità in modo particolare –, non per «diventare tutti un po’ psicologi», ma perché la profezia delle scelte vocazionali, sta proprio nell’aspetto relazionale e di comunione (che parte da se stessi), a prescindere dal carisma di appartenenza. Ciò che può rappresentare una luce di riferimento, come la stella cometa, sono i laboratori di umanità e fraternità che sacerdoti e consacrati possono offrire alla società, nel loro modo di porsi reciproco e con la gente. Proprio perché il chiamato non sceglie il gruppo di fratelli e sorelle con cui camminare, e l’origine della sua vocazione è oltre se stesso, mi sembra particolarmente significativa la loro testimonianza, spirituale ma anche umana. Testimonianza non di essere migliori di altri o con qualità speciali, ma di fiducia nella possibilità di rapporti fraterni autentici, solidali, il più possibile «buoni».  
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Un chiasso organizzato

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Sono un giovane sacerdote, non so se possiamo dire qualcosa di nuovo sulla nostra condizione di povertà numerica, mi domando, però, se e come possiamo uscire da un clima che oggi sembra buttarci giù, piuttosto che incoraggiare il nostro operato. Mi confronto con altri sacerdoti e con religiose e, di solito, nei nostri scambi prevale – peggio degli anziani! – un vagheggiare il passato, quando avevamo un credito diverso nella società. Non so lei cosa ne pensa di questo, grazie. Un sacerdote   Quando facciamo incontri di formazione per fasce di età, oppure quando ci sono raduni giovanili, mi si riallarga il cuore. Vedo tanti che, come me, vogliono essere aiutati ad andare avanti nel cammino vocazionale e non vogliono cedere alle voci – talvolta da parte delle stesse consorelle – che ci chiedono: «Ma come fai a rimanere lì dentro con tutte quelle anziane dalla mentalità superata? Pensaci bene!» Una novizia.


Non offrirò una risposta “esatta”, piuttosto condivido alcune considerazioni che traggo da voci maschili e femminili sul campo, che cioè vivono l’esperienza vocazionale in prima persona, e quindi non fanno semplicemente teoria. È vero, ormai si parla da tempo della crisi vocazionale, cioè del calo numerico delle vocazioni sacerdotali e di vita religiosa, soprattutto in Europa. «C’è stato un calo del 16% in 30 anni. In cifre assolute, si è passati dai 38 mila sacerdoti diocesani del 1990 ai 32 mila del maggio 2019 […] l’altro dato che non va trascurato è l’età media che è sensibilmente cresciuta: più di 1/3 degli attuali sacerdoti ha oltre settant’anni, quindi c’è un calo di vocazioni e un aumento di età […] e la gente di fede si è sentita un po’ disorientata» (Domenico Agasso a Tv2000). È difficile, se non impossibile, delineare una patogenesi del fenomeno. Smarrimento di fede? Varietà di forme di vite, non solo dicotomiche, matrimonio/vita religiosa? Delusione dei contesti vocazionali? Cambiamento antropo-tecnologico? Credo che ci sia un po’ di tutto ciò. Direi, però, che dovremmo innanzitutto assumere una prospettiva non catastrofica, per cui è necessario riconoscere il problema, ma «come fa Gesù con i discepoli quando stanno davanti al campo nel quale cresce il grano e la zizzania, e i discepoli son preoccupati di togliere la zizzania, Gesù dice: occupatevi del grano […] il problema […] non deve farci perdere la speranza e l’entusiasmo di poter lavorare per il grano che tutti riguarda (don Michele Gianola, direttore Vocazioni CEI, ib.)».   Allora, siamo d’accordo sul dato di realtà, diminuzione numerica a fronte di un aumento dell’età media, ma cerchiamo di osservarlo con uno sguardo fiducioso. Naturalmente l’argomento è complesso e quindi le considerazioni sono altrettanto complesse. Vorrei, però, concentrarmi qui proprio sull’atteggiamento interiore che dovremmo riuscire ad assumere oggi. È una tentazione enorme focalizzarsi solo sui punti oscuri, sui deficit attuali – veri e non immaginari, sia chiaro – perdendo di vista che, ieri come oggi, ci sono testimoni gioiosi e credibili di vocazioni compiute e realizzate, sacerdoti, missionari e consacrate che spendono la loro vita sentendosi realizzati. Felici. Non saprei quantificare se la capacità di amare sia maggiore o minore nel nostro tempo, anche perché ha poco senso: sono convinta che ogni epoca abbia la sua pienezza. Anche la nostra ce l’ha, sebbene si misuri con una sfida importante: riaccendere la bellezza del saper dare la propria vita per sempre (in coppia e nelle vocazioni di speciale appartenenza) e la speranza che il dono di se è possibile e conduce ad una compiutezza anche sul piano umano e non solo spirituale.   Concretamente, come si rende possibile tutto questo? Credo cercando di guarire dalla attuale «cultura del controllo», che impedisce di aprirsi «all’imprevedibile azione dello spirito Santo» e radicarsi in questa apertura (T. Radcliffe, ex Maestro generale dei Domenicani, da: Una verità che disturba). Si tratta, evidentemente, di un atteggiamento interiore da formare e alimentare, in quanto non spontaneo. Bisogna poi, attraverso il coraggio di morire a vecchie consuetudini e a categorie che non reggono i cambiamenti dei tempi, risorgere in forme nuove. In effetti il modo di comprendere e vivere l’essere sacerdote o consacrato ha bisogno di rinnovamento. Ancora Radcliffe scrive che «dare disposizioni per la propria casa non significa fare le pulizie di primavera. Vuol dire prepararsi a morire. E certamente questo è un tempo di morte e resurrezione per la Chiesa. […] Ma di quale tipo di nuovo ordine abbiamo bisogno affinché questa morte e rinascita si compia? Paradossalmente, secondo papa Francesco, ci serve più disordine […] Ai giovani del Paraguay ha raccomandato: «fate chiasso, ma aiutate anche a gestire e organizzare il chiasso che fate. Fate chiasso e organizzatelo bene! Un chiasso che ci dia un cuore libero, un chiasso che ci dia solidarietà, un chiasso che ci dia speranza» (ib.). Anche dal punto di vista psicologico, talvolta è vitale fare disordine per poter acquisire un ordine nuovo. Sistemare una cosa qua e là talvolta è poco efficace.   Riassumendo: quello che possiamo fare, davanti ad analisi nefaste e crisi di speranza, primo è non dare credito a chi vuol convincerci che i credenti spariranno e le vocazioni sacerdotali e a vita religiosa andranno fuori moda! Secondo: non aver paura dei cambiamenti, il cristianesimo non è una religione “sicura”, e quelli che vogliono sicurezza si sgomentano di fronte alle perplessità. Lo dice questo grande domenicano, T. Radcliffe, nel recente Convegno del Pontificio Consiglio per la Nuova Evangelizzazione. In quel medesimo contesto Chiara Amirante racconta la propria folle esperienza col popolo della notte e delle periferie umane, insieme al recupero di tanta umanità disperata. Ho voluto, in questo numero, riportare l’esperienza di uomini e donne reali, che vivono in prima persona atteggiamenti fondamentali di fiducia nell’amore che si dona, perché sono convinta che essi indichino strade concrete di fronte alle perplessità e ai timori che il giovane sacerdote e la novizia esprimono anche a nome di moltissimi altri. E perché danno un contributo fondamentale rispetto all’ansia del futuro che oggi imperversa tra di noi. È chiaro, ci sono situazioni interiori e psicologiche che necessitano di un percorso specifico per cui potrebbe non essere sufficiente incontrare testimonianze vere. Tuttavia queste non sono da trascurare proprio perché ci ricordano che ci sono migliaia di vocazioni felici, mature e vitali, che svolgono con gioia il loro ministero, con amore e grande generosità (cf. Una verità che disturba).
Vita in comune

Ammettere in comunità persone fragili?

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Sono una formatrice di un monastero di clausura. È arrivata da noi una giovane che ha espresso il desiderio di condividere la nostra vita, ma soffre di un disturbo alimentare piuttosto serio, per cui è visibilmente e notevolmente sottopeso e io, anzi noi, siamo preoccupate per questo aspetto. È in gamba, ha fatto un percorso di studi solido ed è ben seguita dal punto di vista medico per cui ora ha un suo equilibrio, ma in seguito? E fino a quando? Il sacerdote che l’accompagna ha obiettato che se non siamo noi ad accogliere una ragazza come lei, chi dovrebbe farlo? E questa sua osservazione ha acuito il nostro sentirci in colpa e confuse. Se lei potesse dirci qualcosa ci sarebbe di aiuto. Grazie.


Non è un argomento nuovo per questa rubrica, ma il suo interrogativo è estremamente importante e quindi mi dà l’opportunità di riprendere la questione. I responsabili di comunità, formatori e formatrici, si pongono spesso l’interrogativo di quale sia la linea di confine per poter ammettere persone che presentano delle vulnerabilità dal punto di vista psico-fisico. È chiaro che una linea netta non esiste, anche perché nessuno di noi può collocarsi esattamente secondo un gradiente preciso di “normalità”. Sulle pareti di Santa Maria della pietà che oggi ospita un “Museo laboratorio per la mente” si può leggere la scritta «da vicino nessuno è normale», di forte impatto, ma anche molto vera. Ora, andando al concreto della questione, credo che non ci siano dubbi sul fatto che la vocazione sia innanzitutto l’intuizione di una proposta di vita messa nel cuore da Dio. Prima di essere una corrispondenza personale, è un’offerta d’amore che si riceve. Tuttavia la vocazione non può racchiudersi solo in questa dualità di presenze. O meglio: quando si parla di vocazione sacerdotale e religiosa c’è un terzo elemento che ne è parte integrante: la Chiesa, attraverso le persone deputate al discernimento o alla valutazione dei candidati (magari la stessa attenzione ci fosse per le coppie che si avviano al matrimonio-sacramento). Non esiste, e non potrebbe sussistere, un sindacato vocazionale che garantisca il diritto ad entrare nel cammino e a poter andare avanti fino alla professione definitiva o all’ordinazione. Esiste, invece, il diritto di chi accompagna – e che non si è dato da solo questo incarico – a verificare alcuni elementi, spirituali ed umani, essenziali per poter procedere e che sono individuati dal diritto canonico, dalle norme di ciascuna realtà, nonché dall’esperienza di chi ha più anni di cammino. Nelle tappe che conducono all’ordinazione sacerdotale tale processo si rende più evidente perché passa anche attraverso un itinerario di studi e indicazioni esplicitate dal diritto e da altri documenti quali, ad esempio, Il dono della vocazione presbiterale. Ratio Fundamentalis Institutionis Sacerdotalis. Penso, comunque che, pur tenendo conto della singolarità di ciascuna vocazione di “speciale appartenenza”, la questione dell’ammissione in comunità e ad emettere la professione debba essere guidata da criteri simili. Il vivere insieme ad altri fratelli e sorelle, nella vita claustrale ed apostolica, l’impegno missionario dentro o fuori le mura domestiche, indicano chiaramente che si tratta di vocazioni aperte ad altri e che non si vivono solo dentro la propria intimità interiore. Non a caso quando l’impegno diventa stabile la cerimonia è pubblica, solenne. I criteri a cui mi riferisco, dal punto di vista psicologico, sono previsti a garanzia innanzitutto del benessere della persona: che non resti schiacciata o frustrata da uno stile che non le corrisponde. E poi a garanzia della comunità che la accoglie e nella quale si inserisce. Come ripeto spesso, la comunità non è deputata a sanare e guarire le vulnerabilità individuali. O meglio: tale miglioramento di sé può considerarsi un effetto “collaterale”, ma non il compito primario della vita in comune, molto semplicemente perché essa non ha gli strumenti per poterlo fare e non è chiamata a tale compito. Non vorrei assolutamente che passasse l’immagine del superuomo o della superdonna in vocazione. È piuttosto un’attenzione di amore valutare, per quanto possibile, se la persona potrà procedere serenamente in quel contesto esistenziale, realizzando se stessa, cioè potendo mettere a frutto tutti i talenti che Dio le ha dato. Ed è ancora un’attenzione d’amore custodire la vita comunitaria perché non si configuri per principio una “croce”, per la presenza di persone che lasciano scarsi margini di possibilità di miglioramento. Aggiungo che certamente ogni famiglia naturale o di vita in comune è attraversata da sacrifici, momenti di desolazione e di fatica, malattie, invalidità sopraggiunte, che si affrontano insieme, nell’unità di affetto, e questo è fuori discussione. Anzi oggi è fondamentale rimettere al centro la famiglia – naturale e spirituale – come luogo di non-scarto del debole e dell’anziano. Però mi sembra chiaro che i piani di riflessione siano diversi. Allora riguardo alla domanda iniziale: una condizione di malessere personale non è di per sé preclusiva di un percorso vocazionale, ma occorre attentamente valutare l’equilibrio generale della persona:
  • come quella difficoltà specifica è vissuta dal soggetto stesso e quale influenza avrebbe sui suoi impegni quotidiani, da quelli più piccoli come l’alzata mattutina a quelli più grandi, se egli/ella è disponibile al confronto e all’aiuto, quanto è tenace, cosa si aspetta dalla comunità,
  • quale impatto avrebbe quella difficoltà nella vita di comunità, cioè se la comunità sarebbe costretta a chiedere a qualcuno dei suoi membri di occuparsi solo di quella persona, perché richiede un’attenzione privilegiata e continua.
Quindi quale peso e centralità abbia il disturbo alimentare nella vita della giovane è da considerare seriamente. Quale peso abbia sull’andamento comunitario anche. Importante è parlare apertamente e onestamente con lui/lei, perché siete voi ad accoglierla e nessuna persona esterna può decidere al vostro posto. Comunque, le realtà carismatiche – e forse anche voi – di solito prevedono diverse forme di condivisione dello spirito del fondatore o della fondatrice, che non richiedono la vita in comune. Per cui, alla persona che ha un sincero desiderio di seguire in modo radicale il Signore, potreste proporre, se è possibile, altre espressioni vocazionali sempre all’interno del vostro carisma. Ogni situazione è a sé, e ogni persona ha una propria storia. Qui ho proposto una riflessione a grandi linee che spero possa averla sollevata dai suoi sensi di colpa che non ha motivo di avere. Purtroppo a volte sacerdoti incauti, pur in perfetta buona fede – oggi meno male sempre meno – confondono a torto le comunità religiose (specialmente quelle femminili) con delle comunità terapeutiche. Concludo con le parole di papa Francesco, che vanno in questa direzione e che leggiamo in un testo intervista: «È una grande sfida per i formatori. Sono sempre esistiti giovani che cercano il sostegno dell’istituzione. Succede anche nei seminari diocesani. Ci sono alcune congregazioni religiose, maschili e femminili, che ancora non si sono rese conto della necessità che c’è oggi di esaminare minuziosamente le vocazioni che si presentano e di fare una buona selezione delle vocazioni che arrivano […] Non si possono ammettere persone che non siano adatte, o persone con problemi abbastanza seri che credono di trovare sostegno agli stessi nella vita consacrata».
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Vita in comune: e gli sposati?

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Sono moglie e madre di tre figli, il più grande è un adolescente, mentre il più piccolo frequenta le scuole elementari. Siamo vicini a una comunità religiosa di cui condividiamo il carisma e alla quale diamo una mano, mio marito e io, aiutando nell’organizzazione degli incontri, nella diffusione dell’intuizione del fondatore e partecipando ad alcuni momenti di vita fraterna. Ora stiamo ragionando sulla possibilità di costituire un ramo laico con altri che, come noi, sentono proprio quel carisma. Tuttavia, da laici, l’impressione che abbiamo è di essere considerati ancora di serie “B”, come se dovessimo guadagnarci la stima e la credibilità. In fondo, credo che l’idea del matrimonio rimanga un «di meno» rispetto a una consacrazione piena. Abbiamo scritto questa breve riflessione a quattro mani con mio marito, e insieme vorremmo da lei qualche considerazione.


La questione è molto attuale e per questo di grande interesse, la ringrazio per averla condivisa qui. Rispondo attraverso un’esperienza concreta, precisando che parto da questa, ma in seguito, nei prossimi numeri, vorrei condividere l’incontro con altre forme carismatiche (che vivono, ad esempio, una compresenza di maschile e femminile). Nessuna di esse rappresenta un “modello” da imitare, ma ciascuna è un tesoro per la Chiesa in quanto con la propria intuizione arricchisce la comprensione del Vangelo e le modalità per viverlo. La presenza dei laici non solo come “esterni”, e quindi in secondo piano rispetto ai consacrati, è stata intuita da Chiara Lubich, una donna vissuta ai nostri tempi, venuta a mancare poco più di dieci anni fa. Pensi che però già un discepolo di Pacomio – siamo nei primi secoli del cristianesimo – spiegava al vescovo Teolofilo di Alessandria, il ruolo dei monaci con queste parole: «Siamo laici senza importanza». Voleva sottolineare, cioè, che la vita monastica non intendeva porsi al di sopra di altre forme di vita.   L’Opera di Maria o Movimento dei Focolari – «focolare» è chiamata ogni comunità maschile o femminile di vita insieme – prevede un modo singolare di coinvolgimento pieno di alcuni laici sposati proprio all’interno delle esperienze comunitarie. I «focolarini sposati», marito e moglie o il singolo coniuge, infatti, possono consacrarsi a Dio nell’Opera, facendone così pienamente parte, pur mantenendo la propria condizione di vita familiare. Il percorso per giungere a questa possibilità di partecipazione completa è stato laborioso e ovviamente oggetto di profonde riflessioni, anche da parte delle autorità ecclesiastiche, per la novità dirompente di una simile formula, e per la sua inevitabile complessità. I focolarini/le focolarine sposati/e sarebbero potuti rimanere come un ramo a sé stante, e per qualche tempo è stato effettivamente così, ma in tal caso – o meglio, nel loro caso – si sarebbe affievolita la forza innovativa dell’intuizione della fondatrice, che li voleva inseriti a tutti gli effetti nei focolari. E infatti il «terzo ramo» (gli sposati) arriva a confluire, giuridicamente ed in modo integrale, nella realtà degli uomini e delle donne consacrati. Oggi non c’è una gerarchia di importanza tra gli uni e gli altri, in quanto la famiglia è la stessa, non c’è un «noi e voi». È la sostanza comune a mettere i membri «interni» tutti sullo stesso piano. È il desiderio e l’impegno a vivere l’amore e la carità, secondo il Vangelo e le «promesse» (gli sposati emettono promesse, i vergini i voti), ad accomunarli, sebbene lo sposato avrà un modo proprio di farlo e difficoltà legate al proprio stato di vita. Non intendo entrare nel dettaglio di come questo si declini concretamente, l’aspetto che piuttosto mi sembra centrale, riprendendo la riflessione iniziale, è la parità di partecipazione al carisma. Non c’è alcuna menomazione, ad esempio, nella distinzione tra voti e promesse (cf. R.P. Cardinali), ma accoglienza integrale nel rispetto che vergini e sposati declinino l’amore coerentemente alla vocazione concreta. Non c’è neppure un appiattimento irrealistico, che annullerebbe nuovamente la preziosità degli sposati (in una sorta di imitazione della vita consacrata) e che avrebbe, peraltro, poco senso, dato che la giornata ordinaria è caratterizzata per gli uni e per gli altri da sfide diverse. La formazione diversificata conduce vergini e sposati entrambi ad una consacrazione, ad un impegno radicale a vivere la spiritualità scelta, ad una partecipazione piena al carisma dell’Opera. Il centro e la base comune è il desiderio di vivere insieme il vangelo, secondo l’intuizione della fondatrice (per lei l’unità tra gli uomini), e secondo la specificità dell’essere in coppia o vergini.   Come dicevo, non si tratta di prendere questo modello – che ho appena abbozzato – o altri e di riprodurli nelle proprie realtà carismatiche, in quanto ciascuna ha una propria storia, una propria identità che non va snaturata ed una comprensione specifica delle parole evangeliche. Mi sembra importante, tuttavia, che nella Chiesa si conoscano le varie sensibilità spirituali, e che si possano aprire spazi di dialogo tra Famiglie diverse perché aiutano a riflettere, a prendere spunti utili, a trovare modalità che rispondano sempre meglio alle esigenze delle persone (consacrati e laici).   Siamo in un’epoca dove questo atteggiamento è estremamente importante, dove uscire dagli spazi circoscritti delle proprie comprensioni è vitale, perché non si spenga la novità di vita che ciascun carisma porta avanti. Tempo fa si guardava con timore allo scambio tra realtà di vita consacrata, come se si creasse una sorta di concorrenza alle vocazioni. Oggi, meno male, il clima è cambiato o almeno sta cambiando. Senza un confronto autentico si rischia di assolutizzare il proprio modello e di non permettergli la crescita e il rinnovamento necessari secondo quanto lo Spirito suggerisce in ogni momento storico. Il timore di diventare più liquidi o ibridi se si scambiano idee, proposte, o passi compiuti nel tempo, sarà facilmente superato da un’esperienza di fraternità che va oltre i confini della propria realtà limitata e soprattutto che arricchisce la vita dei membri e dell’Istituto stesso.  
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La giusta correzione fraterna

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Come dire alle persone cosa non va in loro? Come organizzare momenti di reciproco scambio sui problemi di convivenza? Un formatore  


Come ho anticipato nel precedente numero di questa rubrica riguardo alle calunnie e alla mormorazione ci sono ancora due aspetti da affrontare. Il primo riguarda la convivenza tra persone non scelte tra di loro e che umanamente spesso hanno poco in comune. Non dico una cosa nuova in quanto è un aspetto che mi sembra molto significativo nei processi vocazionali e sul quale, perciò, più volte ritorno. La naturale antipatia può essere uno dei carburanti della maldicenza. È normale ritrovarsi in seminario, in diocesi, in comunità, con fratelli e sorelle che sul piano relazionale sentiamo addirittura “insopportabili”. E non potrebbe essere altrimenti proprio perché non si tratta necessariamente di contesti amicali dove ci sia, cioè, una comunanza di gusti e di sensibilità, ma di contesti innanzitutto trascendenti – suona altisonante, ma è così – e poi anche umani. O quanto meno umano-trascendenti. La fede, infatti, è la prima motivazione dello stare insieme. Più concretamente è la passione per una stessa parola del Vangelo che quel carisma ha colto e ha declinato in una forma specifica. Ciò significa che se da una parte è naturale – non peccaminoso né patologico – che ci siano attrazioni e repulsioni tra fratelli e sorelle all’interno della vita in comune, dall’altra la gestione di sentimenti ed affetti non può fermarsi a quel livello orizzontale. In linea di massima è difficile cambiare gli istinti del mi piace/non mi piace – talvolta succede però! –, ma ciò non rende leciti gruppi esclusivi tra quanti «stanno bene tra di loro» né, tanto meno, chiacchiere distruttive verso quanti non mi piacciono, in modo che prima o poi se ne vadano! Mario, Giorgio, Andrea, Laura, Caterina, Maria, per me possono essere umanamente pesanti ma se cerco di annientarli, parlandone male, mettendo voci negative su di loro, creando zizzania attorno alle loro persone…sto appiattendo paurosamente l’ideale. Un atteggiamento tipicamente infantile o al più adolescenziale, e perfino – mi si passi l’espressione – dal sapore un po’ mafioso. Si può stare insieme, nel percorso vocazionale, solo “spostando” la motivazione dal piano naturale della convivialità, a quello di un Ideale che accomuna. È l’unico vero fondamento della vita in comune.   Riguardo, invece, al clima comunitario, posso dire che la mia esperienza con uomini e donne in percorsi vocazionali è quella di una forte esigenza di rinnovamento soprattutto riguardo alla comunione fraterna. Se fino ad un decennio fa l’autorità gerarchica tendeva ad essere il principale interlocutore e referente dei sacerdoti come dei consacrati, oggi questo non è più sufficiente. C’è un’urgenza di imparare a fare «comunità», anche da parte di chi non è dentro una comunità in senso stretto (ad esempio i sacerdoti diocesani). I giovani in particolare, ma non solo loro, non si accontentano più di un “a tu-per tu” con i superiori/le superiori. Hanno bisogno di rapporti sani anche tra di loro, chiedono di poter imparare a vivere l’amicizia, a vivere la relazione con l’altro sesso, a superare i conflitti, reclamano spazi dove possano esprimere anche le osservazioni critiche. Le comunità sono chiamate a prepararsi a queste sfide del nostro tempo. E qualora, comprensibilmente, non si sentissero pronte o avessero dubbi su come favorire un interscambio prudente e adeguato – non è una terapia di gruppo, lo ripeto – possono in tutta serenità chiedere l’aiuto e il confronto con altre comunità o con esperti esterni, sensibili ai temi vocazionali. Questo ha a che fare con la mormorazione? Credo proprio di sì, in quanto, la tendenza diffusa, in tempi non lontani, era quella di esprimere le cose che non andavano direttamente ed unicamente al responsabile di riferimento. Ho ascoltato molte volte utilizzare il termine «mi ha consegnato» tipicamente militare, per indicare il fratello o la sorella che andava a lamentarsi col superiore, piuttosto che dialogare con l’interessato. Il superiore doveva fare poi salti mortali per poter gestire la cosa senza che venisse fuori il mittente. Ambiguità su ambiguità. Ecco, credo che queste abitudini stiano cambiando e debbano cambiare. Sono adulte le persone che compiono scelte vocazionali e in quanto tali dovrebbero essere messe in condizione di imparare a comunicare, ad esprimere difficoltà, tensioni… Altrimenti tutto questo si trasforma in critiche da corridoio, atteggiamenti divisivi che fanno malissimo al gruppo. Non si tratta di fare terapia all’interno della comunità, proprio no! Anzi quelle realtà che ingenuamente ed in buona fede hanno percorso questa strada hanno avuto grosse difficoltà, successivamente, a ricomporre un clima sereno. Si tratta, invece, di educarsi reciprocamente ad una comunicazione interpersonale sana, assertiva, capace di esprimersi in modo diretto e senza ricorrere a canali subdoli. Penso sia fondamentale, inoltre, considerare che l’obiettivo non è quello di farsi una psicoanalisi reciproca, né diventare censori gli uni degli altri, ma aiutarsi ad amare meglio, a crescere come uomini e donne sempre più disposti al dono di sé. Questo è l’orientamento che può dare senso e direzione agli spazi e ai tempi che ogni gruppo vocazionale, magari con nomi diversi, finalizza alla correzione fraterna in senso evangelico. Ogni comunità pensi seriamente a come farlo. Le realtà che, fin dalla prima formazione, favoriscono un simile processo di confronto interpersonale, mi pare siano quelle più sane e autentiche. Al loro interno, cioè, si respira un clima sereno – pur con tutte le tensioni che ogni famiglia vive – non “mormorante”, né fondato su relazioni formali, come tra semplici «colleghi», o di facciata, come se i membri sfogliassero un galateo delle buone maniere (che non è da disdegnare, ma non basta per fare comunità). Lì non ci sono chiacchiere di corridoio, perché non ce n’è bisogno. Sono convinta – per concludere – che si crei, allora, come un circolo virtuoso: lavorare per costruire fraternità autentiche aiuta la crescita dei singoli membri che, a loro volta, sostengono il processo di crescita della comunità stessa. Il “cambiamento d’epoca”, come direbbe il nostro Papa, lo richiede. La Grande Bellezza delle vocazioni di “speciale appartenenza al Signore” è il loro essere laboratori di comunione, di cui oggi c’è davvero bisogno.
Vita in comune

Calunnie che uccidono

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Passo la maggior parte del mio ascolto ad accogliere le osservazioni pungenti che giovani e meno giovani si fanno l’uno “contro” l’altro. È micidiale per il clima comunitario lo spirito critico esagerato e il parlare alle spalle che spesso arriva alla persona interessata e la ferisce al punto tale che poi ricucire la relazione col gruppo diventa complicatissimo. Vorrei che spendesse qualche parola su questo tema perché mi sembra un’emergenza del nostro tempo, trasversale alla cultura e alle generazioni. Da dove nasce? Come si può affrontare? Un formatore


Non credo di riuscire a rispondere in un'unica puntata della rubrica. Direi, allora, che questa volta introduco gli aspetti psicologici-personali che alimentano le critiche distruttive (in fondo questa è la mormorazione). Nel numero successivo affronterò, invece, l’aspetto naturale dell’antipatia che alimenta la maldicenza (si può orientare diversamente? Se l’altro mi è antipatico che posso farci?), e quello dello stile comunitario (dalla tradizione gerarchica e verticalista ad un nuovo clima relazionale). Inizio raccontando una bella esperienza vissuta in una comunità maschile, nella quale i membri hanno competenze e attività professionali diverse. Ho potuto constatare in prima persona i fatti che sto per condividere. Andrea parla di Luca (nomi di fantasia, per rispetto della privacy) come di «una persona attenta e sensibile». Luca, nello stesso tempo, descrive l’attività che svolge Marcello come «qualcosa di grande livello, che merita di essere vista» e diffonde inviti a partecipare ai vari eventi che coinvolgono le sue opere (Marcello è un artista). Non solo, ma dopo l’evento Luca provvede anche ad inviare, per messaggio, brevi flash di come sono andate le serate del suo confratello. In occasione di una tensione interna, Giorgio, che è parte di quella stessa realtà, riporta che a tavola la sua comunità ha deciso di affrontare apertamente il disagio che sta vivendo e aggiunge che «c’è stima e grande rispetto reciproco, per cui, nonostante le nostre diversità, devo dire che in genere riusciamo a tirar fuori le difficoltà che si creano nel vivere insieme». Rimango colpita da queste che considero testimonianze decisamente positive di vita in comune e di un buon clima relazionale anti-mormorazione. Prima di tutto in quanto si tratta di una realtà maschile, in genere meno “dipendente” dal clima emotivo del gruppo, e più propensa a funzionare con individualità autonome. E poi perché troppo spesso all’interno dei gruppi umani, come fa notare il formatore nelle sue osservazioni, si creano voci di corridoio e parole critiche che raramente vengono rivolte direttamente alla persona interessata, la quale ne viene a conoscenza in modo trasversale, e quindi senz’altro doloroso. Papa Francesco insiste moltissimo sulla mormorazione, come piaga del vivere insieme, e sulla calunnia che uccide come un «cancro diabolico»; l’ultima volta ne ha parlato nella recente udienza del mercoledì 25 settembre. Cosa vuol dire mormorare o peggio calunniare? Tecnicamente il primo termine indica la maldicenza pettegola, il secondo, più pesante, l’attribuzione consapevolmente falsa di una colpa a qualcuno. Ma andiamo al di là di queste distinzioni linguistiche. Mi piace riportare la voce della Comunità scientifica internazionale (DSM-5), che quando parla di personalità che non funzionano al meglio utilizza alcune espressioni che possono esserci di aiuto:
  1. carenza di autonomia e autostima fragile;
  2. senso di minaccia in caso di opinioni divergenti o punti di vista alternativi;
  3. attenzione ipervigile;
  4. sentimenti predominanti, spesso attribuiti ad altri, di odio, di aggressività, o di intenti distruttivi.
  Dunque il punto di partenza della mormorazione è un’insufficiente pace interiore, il non vivere una condizione di benessere e di appagamento rispetto a me stesso. L’obiettivo: trovare una conferma del mio valore, avere rassicurazioni che sono importante e valgo, e nessuno mi può scavalcare. L’occasione: finché l’altro sta dalla mia parte e io non vengo messo in discussione, bene, ma se mi sento minacciato da lui o da lei, perché la pensa diversamente da me, perché ha delle qualità che io non ho e che potrebbero risultare migliori delle mie, allora questo diventa un problema. Anzi, talvolta prima ancora che l’altro possa mettermi in ombra, magari perché è una persona brillante, l’ho già eletto a potenziale nemico. I mezzi: a questo punto devo “passare all’attacco”, demolendo il partner, l’amico/l’amica, il confratello/la consorella, il parroco, quel catechista... cioè “eliminare” chi potrebbe non riconoscere il mio ruolo e la mia importanza in quel contesto (di lavoro o comunitario), oppure chi potrebbe superarmi quanto ad apprezzamento altrui, e quindi farmi sentire marginale. La tecnica migliore per farlo è proprio quella del demolire la persona scomoda. Certo non posso farlo fisicamente, ma posso utilizzare delle tecniche molto più sottili e perverse, in quanto non sono immediatamente visibili e quindi sono ancora più dannose: creando alleanze a mio favore col parlare male dell’altro, mettendo in luce le sue debolezze, le sue contraddizioni (che sempre si possono trovare in ciascuno di noi), e svuotandolo pian piano della sua dignità. Ad esempio: racconto e magari amplifico gli errori che ha commesso in quella determinata situazione, metto in giro alcuni pezzi della sua storia familiare (come dire: “pensa un po’ da dove viene”), diffondendo cose vere o non vere che riguardano suoi aspetti personali, ma manipolati, riadattati per l’occasione, e che in ogni caso non hanno motivo di essere diffusi. È una forma di mormorazione, quindi, anche mettere in giro, estrapolati dal loro contesto, e messi insieme secondo la mia narrazione, pezzi della vita dell’altro che io so bene lo renderebbero meno credibile nell’ambiente in cui viviamo entrambi. Questa è una delle forme più gravi di violenza e di sabotaggio alla vita comunitaria. Come si potrebbe ridurre il rischio che questo accada? Partendo dal dato che comunque chi mormora è una persona scontenta, indico alcuni suggerimenti pratici, che sono nelle nostre possibilità.
  • Potremmo cercare di non accettare il semplice sfogo contro un altro quando questi non è presente – a meno che non abbiamo dei ruoli specifici –, altrimenti ci rendiamo inevitabilmente complici. Non rifiutando l’ascolto, ma magari chiedendo alla persona che ci racconta un fatto meno positivo, di dirlo al diretto interessato perché comunque è più utile. Ed è bene che un altro lo dica anche a noi quando ci troviamo nella stessa situazione. Fa male sentirselo dire, ma ci abitua ad una modalità più sana ed evangelica di comunicare e di affrontare le cose che non vanno.
E anche quando abbiamo degli incarichi di accompagnamento o formazione potremmo aiutare la persona a riflettere sul senso della “confidenza”, che se non attiva la ricerca di una soluzione o di una strategia nuova, forse serve a poco, quando non è dannosa perché lascia nell’aria parole amare.
  • Dovremmo invece essere più diretti – «non è bene parlarne in corridoio», «non è bello che se ne parli in gruppo quando Francesca non c’è!» – quando ascoltiamo parole critiche che vengono spese in contesti allargati.
  • Infine, dovremmo abituarci a valorizzarci reciprocamente. Siamo così abili a dirci le cose negative… Forse non ci viene spontaneo, perciò dobbiamo allenarci a parlare bene di chi ci vive accanto, perché un simile atteggiamento, inizialmente “forzato”, crea un po’ alla volta una forma mentis che consiste nel condividere le ricchezze altrui, come ci auspichiamo l’altro faccia con noi. Lo ripeto: non è immediato come modo di fare, ma può diventare uno stile di vivere insieme se non molliamo alla prima fatica. La testimonianza di quella comunità maschile ci conferma che questo è possibile.
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