L'esperto risponde / Psicologia

Chiara D’Urbano

Psicologa e Psicoterapeuta EMDR, Consultore del Dicastero per il Clero, Perito della Rota Romana e dei Tribunali del Vicariato di Roma, ho studiato presso la Pontificia Università Gregoriana e poi mi sono specializzata in Psicologia clinica e Psicoterapia psicoanalitica. Mi occupo in particolare di formazione e accompagnamento psicoterapeutico della vita sacerdotale e consacrata e di problematiche di coppia. Collaboro nella ricerca e nella docenza con l’Istituto di Studi Superiori sulla Donna. Con l’editrice Città Nuova ho pubblicato tre libri: La pietra della follia, Per sempre o finché dura e Percorsi vocazionali e omosessualità.

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Il posto del dolore

Vorrei capire come distinguere la sofferenza legata al sacrificio, che qualunque vocazione richiede, da quella che invece può segnalare di non essere nel contesto giusto. Oggi si sfugge a qualunque impegno, ma “fin dove” Dio può chiedere la rinuncia a se stessi? Un consacrato

È profondo e delicato l’interrogativo. Lei ha ragione, sia dal punto di vista psicologico che della fede: il limite e la fatica fanno parte del cammino di crescita dell’essere umano.

Un bellissimo studio di André Godin rilegge la vicenda di Saulo di Tarso, mettendo in evidenza come l’autenticità della sua vocazione sta nel totale stravolgimento di vita. Era un uomo colto, già profondamente credente e retto, che seguiva Dio, difendendolo però con violenza. A un certo punto succede qualcosa: Saulo scopre che quel Dio non era come lo aveva immaginato, non era forte e vendicatore, bensì si identificava totalmente con i poveri, gli ultimi, i perseguitati.

Deve essere stato sconvolgente! La caduta da cavallo, tramandata dalla tradizione, è l’immagine metaforica di un processo stra-ordinario di cambiamento dei propri orizzonti, verso altri fino a quel momento del tutto sconosciuti.

Saulo diventa perfino cieco, come a dire che perde la capacità di controllo e gestione della sua vita. Non si potevano trovare immagini più vivide per rappresentare la fatica di Saulo, ora Paolo, il quale non solo scopre che l’Altro ha un volto diverso da quello che finora si era figurato, ma dovrà anche ingegnarsi a trovare nuove strade per corrispondergli.

Si può dire, allora, che la vocazione religiosa da una parte è in linea col desiderio profondo del cuore umano, dall’altra però apre spazi nuovi e questo non avviene in modo “indolore”. Come potrebbe, del resto, un aggressore diventare “spontaneamente” apostolo dell’unità, senza alcuna resistenza interiore?

Qui mi sembra il punto nodale della domanda posta all’inizio. Immagino, infatti, che Paolo ogni giorno avrà dovuto rinnovare la propria adesione a Colui che da poco aveva ri-conosciuto, ma immagino pure che questa lotta non abbia significato per lui la fatica immane di ricominciare ogni giorno e ogni momento da zero, perché una vita del genere sarebbe insopportabile. Dunque una vocazione autentica non è una continua salita.

Paolo sente che quel Dio-uno-con i piccoli è degno di credibilità e questo gli dà energia, volontà, senso totale di vita. Paolo è più felice del vecchio Saulo di Tarso e si spende senza misura per essere come Colui che ha messo al centro della propria esistenza, vivendo secondo l’intuizione ricevuta.

Credo che questi siano i segni di una vocazione autentica: espande l’umanità, non la rattrappisce, non rende la persona più cupa e meno generosa. Ciò non ha nulla a che vedere con il carattere, più aperto o più riservato, né con le difficoltà, maggiori o minori, che ciascuno affronta a causa dei propri tratti personali e della propria storia.

Ha piuttosto a che vedere con il senso di appartenenza: fare mia quella realtà scelta, e darmi tutta ad essa. Come è stato per Paolo. Quali sono i segni concreti per capire che l’appartenenza non si è sviluppata? Chi è sempre molto critico rispetto al proprio ambiente di vita, o ha un umore fuori partitura, perché raramente riesce a sintonizzarsi con l’atmosfera emotiva del gruppo, o chi conteggia il dare e il ricevere. Queste persone forse non sono ancora “cadute da cavallo”, e ciò non ha nulla di moralistico, né di patologico.

Non si tratta di diventare esaltati rispetto alla propria vocazione, né degli iperattivi (anche Saulo lo era), ma di sentire una corrispondenza – “attiva” la chiama Godin – tra i desideri personali e quelli della realtà scelta.

Perciò il soffrire non è necessariamente indice di vocazione realizzata – vedo tante persone che stanno male, convintissime (sbagliando) che il dolore sia proprio il segno della volontà di Dio. Allo stesso tempo, la fatica che si impiega quotidianamente non è indice di una vocazione imperfetta.

C’è un altro segno, a mio parere significativo, per leggere una vocazione e il suo essere autentica: il discernimento comunitario. Ma ne parleremo un’altra volta.

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Vocazioni di serie A e di serie B?

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Ho letto su questa rubrica le considerazioni della consacrata non-italiana, e sull’Osservatore Romano la denuncia coraggiosa sulle suore sfruttate, denuncia che ha fatto il giro del web. Allora le nostre proteste non sono poi così lontane dalla realtà! Una consacrata non-italiana In parrocchia cerco di coinvolgere le suore che sono nel quartiere per darmi una mano nelle catechesi o nella formazione dei laici, ma mi rispondono spesso che non si sentono all’altezza; sono loro stesse che si sentono più a loro agio in ruoli di retroguardia. Un sacerdote


Non credo che serva esattamente una “risposta” a queste riflessioni così significative. Preferisco condividere pensieri vari, allargando lo sguardo, ma cercando di non perdere di vista il tema. Qualche anno fa Francesco rivolgendosi all’Unione dei Superiori Maggiori in Italia, in un discorso poi riportato nell’articolo di Civiltà Cattolica «Svegliate il mondo», ha parlato della formazione come opera artigianale e non poliziesca, della necessità di formare i cuori altrimenti si formano «piccoli mostri» (diceva proprio così!), e di tenere aperti gli occhi sulla cosiddetta «tratta delle novizie», denunciata dai vescovi filippini. È la triste, ma reale situazione, del reclutare vocazioni straniere da inviare in Europa, continente che attraversa un periodo di grave crisi numerica. Nello stesso discorso il Papa si è pure lamentato della consapevolezza, oggi ancora inadeguata, della vocazione dei religiosi-non sacerdoti, alludendo, credo, al fatto che a volte si creano vocazioni di serie A, B, C... Faccio riferimento a quel discorso per dire innanzitutto che situazioni di squilibrio all’interno della Chiesa sono innegabili, e lo sono a più livelli, sia riguardo al rapporto maschile-femminile, sia riguardo al rapporto tra le diverse scelte vocazionali. E poi perché penso che alcune gravissime collusioni siano una responsabilità comune di vescovi, sacerdoti, ma anche delle Congregazioni stesse che non aiutano le proprie sorelle a crescere adeguatamente rendendosi donne libere, veramente adulte, condizioni essenziali per un cammino di fede e vocazionale autentico. Offrire un percorso di studi rischia di rendere le persone “fin troppo autonome”, dicono alcune superiore, ma più a monte la questione riguarda sempre un discernimento adeguato e la necessità imprescindibile di favorire la maturazione personale, aiutando chi non è nel posto giusto a scegliere altro. Non è certo una soluzione quella di lasciare nell’ignoranza i membri di una comunità, eventualità ancora oggi più frequente in ambito femminile che maschile, come del resto non è custodire una vocazione quella di lasciare il giovane/la giovane entro le 4 mura domestiche così non ha “tentazioni”. D’altro canto, riprendendo l’osservazione del sacerdote, spesso sono le consacrate stesse, pur avendo ricevuto strumenti adeguati, a non buttarsi nell’apostolato, a rimanere “come principesse”, diceva una formatrice, “sempre scontente”. Allora… la fraternità non ha “posti fissi” (chi pulisce e chi insegna), ed è possibile solo quando, uomo o donna, mi impegno a valorizzare la sensibilità e i talenti dell’altro, ad oppormi se la dignità del fratello o della sorella è sminuita in qualunque modo, ad incoraggiare e sostenere chi è più timoroso o insicuro nell’abbracciare un compito di cui si sente incapace, solo per stereotipi ormai interiorizzati. Insomma uomini e donne hanno ancora un bel daffare per potersi guardare negli occhi alla pari, perché, come diceva Etty Hillesum «Per umiliare qualcuno si deve essere in due: colui che umilia e colui che è umiliato, e soprattutto che si lascia umiliare» (Diario 1941-1943).
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Quanti problemi per le suore giovani straniere…

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Parliamo di congregazioni interculturali? Tante congregazioni, come nel mio caso, scarseggiano di vocazioni italiane, ma grazie a Dio arrivano dagli altri continenti. È difficile però parlare di interculturalità, è difficile parlare della preparazione di suore giovani che possano prendere delle responsabilità, come anche del passaggio di autorità. Le nostre idee, suggerimenti e proposte sono sempre sottovalutate. Quale futuro abbiamo noi, oltre alle strutture, se non abbiamo voce in capitolo come fossimo incapaci? Una consacrata non italiana        


La domanda è forte, nel senso che esprime tutta la passione con cui è scritta. Le racconto un’esperienza singolare, che faccio ultimamente nell’accompagnare alcuni consacrati non italiani: un tempo, mi pare, l’Italia era una meta ambita, per il tenore di vita che si supponeva migliore rispetto ad altre realtà, per la ricchezza culturale ed artistica del nostro paese e, in particolare, per l’unicità di un luogo come Roma che trasuda arte e storia. Oggi, invece, mi rendo conto che i giovani, dopo aver trascorso un tempo qui da noi, per studio o per apostolato, hanno una gran voglia di tornare nella propria terra, di servire il proprio popolo, anche se la missione è universale, e questo fa pensare a come siano cambiate le prospettive. Bisogna essere onesti, le nostre realtà comunitarie hanno una prevalenza di persone anziane ed è vero ciò che lei dice che le giovani di altri continenti sono vere e proprie missionarie rispetto ad ambienti per nulla facili, proprio per il gap di età talvolta enorme. È anche vero che alcuni anziani non si sono mai aperti all’interculturalità e continuano a guardare con sospetto lo “straniero”. Mentre oggi la vita comunitaria italiana dovrebbe esser grata dell’apporto prezioso e generoso di fratelli e sorelle che vengono spesso da molto lontano, portando un aiuto concreto e una ventata di freschezza davvero indispensabile. Quante liturgie prendono energia e vitalità dai canti e dalla bellezza di una ritualità diversa dalla nostra! Riguardo a quanto lei dice mi consenta, però, un tentativo di equa distribuzione (si fa per dire) delle “colpe” all’interno del gruppo: chi arriva da fuori-Italia soffre quando non si sente integrato, ma poi non sempre al desiderio di partecipare fa seguire un impegno effettivo di collaborazione e progettualità. I giovani e le giovani che chiedono di essere coinvolti nelle responsabilità istituzionali o negli incarichi apostolici, non sempre si buttano attivamente nell’avventura dell’unico carisma: talvolta alla critica non segue la disponibilità a rimboccarsi le maniche per risolvere il problema insieme. Dall’altro lato, però, discriminare le giovani suore per la loro provenienza è veramente grave. Anzi, le dirò di più, uno degli ultimi documenti della Congregazione per la Vita consacrata e le Società di vita apostolica, del 2017, Per vino nuovo otri nuovi, al n. 40 riconosce che la vita consacrata non deve rimanere “impermeabile” nell’incontro con le diverse culture, ma al contrario può diventare un laboratorio dove sensibilità e culture diverse acquistano «forza e significati non conosciuti altrove». La vita in comune è quindi lo spazio privilegiato per un incontro pienamente integrato e reciprocamente arricchente di varietà geografiche! Parole fortissime a cui il documento aggiunge, nello stesso numero, che «nessuna sorella deve essere relegata in uno stato di sudditanza, cosa che si riscontra purtroppo con frequenza». Lo dice a proposito del rapporto superiori/membri, ma è logico estendere questa chiara considerazione ai rapporti interculturali all’interno della comunità. Non ci sarebbe da aggiungere altro: il confronto aperto e costante è vitale, serve un continuo dialogo schietto, negli spazi e nei tempi opportuni, per affrontare le inevitabili criticità del vivere insieme. La comunità basata su un ideale è fatta di persone tutte adulte e tutte allo stesso livello. Ciò che cambiano sono i ruoli, ma questi non sono a vita. Chi è superiora oggi, domani torna a essere una sorella come le altre. Ci vuole tempo ma bisogna parlare, raccontarsi le soddisfazioni di ogni giorno (oltre ai problemi). Esprimere i disagi, farli venire fuori e confrontarli senza recriminazioni sterili, alla lunga paga e costruisce lo stare insieme. Le comunità che vivono separate al loro interno secondo delle caste finiscono per perdere qualunque efficacia missionaria e profetica.  
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Coppie, comunità e tradimenti

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Frequento un centro per anziani. Si passano ore serene, ma mi rendo conto che, nonostante l’età, ci sono molti “tradimenti” di coppia. Per non parlare di quello che succede sui social. È così difficile essere fedeli?


Un’accortezza che mi impegno a mantenere viva nel rispondere è quella di non slittare su toni moraleggianti, che non rientrano nelle mie intenzioni, neppure remote. Non ho delle statistiche in merito alla fedeltà delle coppie oggi rispetto a ieri, senza dubbio però, e credo che la convinzione sia condivisa da tutti noi, l’ambiente digitale ha moltiplicato in maniera esponenziale la possibilità di stabilire nuovi contatti relazionali senza troppa fatica, quindi anche di aprire degli spazi esterni rispetto alla coppia, e di coltivarli con la stessa leggerezza. Talvolta basta poco: un’emoticon inserita opportunamente all’interno di un messaggio – che molto probabilmente il partner “escluso” non approverebbe – può già rappresentare una remota, ma concreta possibilità di ferire l’intimità di coppia. E questa possibilità è trasversale ormai all’età cronologica. Siamo anche d’accordo tuttavia, perché è di immediata evidenza, che non può essere uno strumento esterno ad essere “colpevole” rispetto all’andamento delle coppie, come anche delle comunità. Condivido allora alcune considerazioni: la prima è che non è facile continuare a voler bene, amare e perdonare, cioè non chiudere il rapporto, quando si creano delle tensioni. Non è facile mettersi in discussione in prima persona anziché demandare all’altro la responsabilità di un litigio, trovare il tempo ogni giorno – non una volta al mese – di parlare, confrontarsi, raccontarsi le giornate vissute. Non è mai stato facile, ma oggi le strade alternative all’amore stabile sono molto più a portata di mano e assai poco dispendiose: se il mio partner non mi ascolta cosa ci vuole a raccontare in Rete le mie emozioni, magari ad una folla anonima, o a un nuovo contatto che invece si mostra più disponibile? Questione di un attimo, che poi diventa un secondo attimo e poi un terzo. Rifletto anche che le crisi non sono mai improvvise, ma “preparate” nel tempo con cura. Lo dico ironicamente ma anche realisticamente: si parla spesso di inconscio e ad esso si attribuiscono delle stranezze inspiegabili, mentre in realtà l’inconscio non è né muto né folle, siamo noi piuttosto che non riusciamo a prestargli credito e i segnali di disagio che manda li risolviamo, con aria sufficiente, con un “ma che male c’è!”. Quelle microfratture, inizialmente impercettibili, nella vita di coppia (giovane o anziana) o di comunità, invece, rappresentano una mano tesa verso l’esterno, anziché verso l’interno della famiglia. È un gran bell’impegno vivere insieme, sia in coppia, sia nelle esperienze di vita in comune, ma se siamo spaventati – e lo siamo! – dalla possibilità di disumanizzarci, cioè di perdere la capacità tutta umana di vivere relazioni d’amore in maniera profonda e continuativa, se osserviamo con dolore con quanta facilità “Tutto è scartabile, ciascuno usa e getta, spreca e rompe, sfrutta e spreme finché serve. E poi addio” (Amoris Laetitia, n. 39), se ormai la parola data dall’altro perde la sua potenza perché la fiducia si va sbiadendo… allora non dobbiamo rimanere inermi. Dall’uomo parte il suo smarrimento, dall’uomo parte la sua ripresa. Perciò al “movimento” oggi in corso, si può opporre – parola che normalmente non amo, ma che qui è necessaria – un cammino in direzione diversa, che sono convinta parta da un’attenzione meno anonima all’altro, il marito, la moglie, il fratello, la sorella; e dalla forza che può rappresentare la comunità circostante, che, se non è troppo distratta, può intercettare il malessere che uno dei propri membri vive e sostenerlo, offrendogli ascolto e un confronto solido, quando inizia a perdere l’orientamento.
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Io o noi?

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Abbiamo una sorella che vorrebbe aprire una nuova forma di apostolato. La comunità le ha detto che per ora non ci sono risorse adeguate per sostenere il suo progetto, ma lei ha deciso di andare avanti ulteriormente, convinta di essere così nella volontà di Dio. Una formatrice


Grazie per questa occasione di riflessione, mi dispiace aver dovuto sintetizzare le sue parole, comunque molto chiare e accorate. Mi pare che questo tema apra una sorta di voragine. L’esperienza più frequente delle comunità, almeno in un recente passato, è quello di chiarire subito con la persona che quando si intraprende un’esperienza di vita in comune, l’io diventa gradualmente e definitivamente un “noi”, per cui non ci sono più margini per i carismi personali, se non nella misura in cui rientrino nel progetto comunitario. Le stesse anziane ed anziani raccontano, oggi con simpatia, che una volta fin dall’inizio del percorso le formatrici/i formatori si premuravano di affidare loro compiti che andavano nella direzione opposta delle attitudini personali di gusto e di carattere, magari anche apertamente esplicitate, con l’intento, senza dubbio in buona fede, di non assecondare la natura, considerata quasi un limite anti-vocazionale e di aprire nuovi spazi a Dio. Per cui se c’era una predisposizione a lavorare la terra, la persona veniva mandata a studiare, con tutta la fatica ed il sacrificio immaginabili; e se viceversa ella aveva attitudini più intellettuali, queste venivano “santamente mortificate” in nome di una presunta maggior gloria di Dio. Ora, non credo che questo atteggiamento sia del tutto sbagliato, ma vorrei spiegarmi per non essere fraintesa. Che la comunità diventi il criterio per valutare le intuizioni personali credo sia un aspetto molto bello del vivere insieme, un po’ come in famiglia il marito o la moglie cercano di scegliere, accettare o meno un lavoro, intraprendere o meno un progetto, valutando le esigenze di tutti e confrontandosi l’uno con l’altro, almeno in coppia. Perché lo stesso non dovrebbe accadere nella comunità? Questo aspetto dell’essere “come una famiglia” mi pare che venga spesso messo da parte. Ciò non vuol dire assolutamente che allora l’individuo diventi un numero qualunque in una grande macchina produci-lavoro, ma neppure che perda del tutto il confronto con la sua realtà di appartenenza, e che la comunità debba adeguarsi a “quelle” specifiche esigenze, anche legittime, se per varie ragioni, non è ancora pronta per questo. La vita in comune è anti-economica dal punto di vista della -velocità! È una delle ragioni per cui penso che la comunità non sia per tutti. Non c’è dunque una soluzione o una ricetta esatta, che valga una volta per tutte. Credo con forza però che la vita in comune, se prevista da quella realtà carismatica, diventi parte integrante e non solo ornamentale della scelta individuale, e oggi questa prospettiva è la più a rischio. Ciò d’altra parte significa anche che la comunità, nell’accogliere un membro, si fa responsabilmente carico della sua storia e della sua sensibilità, continuandone a riconoscere sempre l’identità adulta ed autonoma, sforzandosi di essere attenta a ciò che la persona dice, alle idee e ai progetti che ella propone, avendo cura della sua unicità. Il dialogo continuo, paziente, fiducioso, e il coraggio di non chiudersi mai l’uno all’altro, anche quando ciò dovesse creare scontri e non solo confronti, penso siano la strada per trovare di volta in volta delle risposte, senza perdersi – la comunità isola la persona perché “strana” o troppo esigente, e la persona si distacca con rancore dal gruppo, perché non si sente capita – con i tempi sicuramente rallentati dal procedere… insieme e non da soli.
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Perdono e maturità umana

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Se dovesse individuare un aspetto essenziale per vivere meglio insieme quale indicherebbe? Si parla sempre di narcisismo ma in sostanza cosa vuol dire, perché a me sembra una parola senza prospettiva. Un consacrato


Condivido un pensiero sul quale ritorno spesso. Non c’è dubbio che l’umanità sia affamata di contatti e di relazioni. Le stesse chat, col bisogno di stare sempre connessi, esprimono il desiderio di non rimanere soli, di sentire costantemente la presenza di altri attorno. Però… c’è un però. Mi pare che siamo accecati da una sorta di occhio di bue, un grande faro illuminante che segue sempre e solo l’inquadratura di sé. Ecco il narcisismo. Una prospettiva ce l’avrei, una strada che sembra “scontata”, specie ai credenti, ma che non lo è affatto, un percorso anti-narcisista. Il perdono. Che non è una cosa da primi della classe buonisti. Come scriveva C.S. Lewis, «tutti dicono che è una cosa bella perdonare finché non tocca a loro perdonare qualcosa». C’è una grande e meravigliosa rivoluzione negli ultimi decenni: i professionisti della salute mentale, non necessariamente di orientamento religioso, hanno iniziato ad occuparsi di questa “cosa misteriosa” del perdonare come di un’abilità e un punto di forza dell’uomo, utile a migliorare la qualità della propria vita, a potenziare le capacità personali e naturalmente quelle relazionali. Dunque mettiamo da parte per un momento la dimensione religiosa, per non correre il rischio di far scivolare il perdono tra le questioni morali. Mi attengo al piano psicologico e condivido qualche spunto raccolto da vari studi che hanno un fascino enorme. Perdonare è un processo serissimo, adulto e soprattutto che sta ai vertici dell’amore, cioè dell’uscita da sé, espressione massima della maturità umana, prima ancora che di fede. Non è un atto puntuale, come spesso ce lo figuriamo, ma un cammino che devo volere con tutta me stessa, perché non avviene spontaneamente. Lo si potrebbe rappresentare così, anche se mi dispiace per la riduzione: è riuscire a restituire all’altro l’interezza della sua vita, a non vederlo più solo in quel frammento nel quale ci ha procurato una ferita, come se la persona fosse tutta lì, sgravandolo così del peso di essere un “offensore”. E poi perdonare significa anche a dare a noi stessi la possibilità di uscire da quel francobollo di sofferenza nel quale ci siamo fissati come se fosse l’intero della nostra esistenza. Se guardiamo un film non ci fermiamo su un unico fotogramma per un paio d’ore pensando così di aver visto tutta la storia. Mi sembra straordinaria la possibilità di alzarsi la mattina e guardare l’altro senza dover aprire l’archivio dei file delle memorie storiche. Perdonare non equivale a far cadere nell’oblio i ricordi, cosa peraltro impossibile alla mente umana, non vuol dire scansare la giustizia, non è una semplice riappacificazione, né un’accettazione passiva, e neanche un processo semplicemente empatico… è assai di più perché richiede uno sforzo interiore profondo di vera benevolenza, ed è espressione di assoluta gratuità. Non c’è un obbligo a perdonare, non è un dovere e la domanda spontanea “perché io?” aiuta a capire quanto sia un processo che prescinde da colpe e responsabilità. Lo ripeto: è un riappropriarsi della pienezza di vita e delle proprie emozioni, fino a quel momento delegate ad altri (quando si soffre, lo star bene dipende da qualcun altro!), e restituirla nella sua completezza. Negli ambienti di vita comune, comprese le famiglie, c’è tanta gente arrabbiata e appesantita dal rancore. Inutilmente. Gli studi ci dicono che chi è incline al perdono, come attitudine quotidiana e non straordinaria, riferisce minori livelli di stanchezza e depressione, è più ottimista, ha più speranza, e contemporaneamente è più libero da quei vissuti psichici negativi che spesso monopolizzano la mente di chi soffre. Chi non vorrebbe un ambiente di vita comune dove ciascuno è “leggero” e dona leggerezza all’altro?
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I religiosi e i soldi

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Una delle nostre discussioni più frequenti in comunità riguarda la gestione economica individuale e la proposta di alcune di noi di creare degli spazi dentro casa a cui si possa accedere senza dover attendere il momento dei pasti comuni. Una religiosa


La domanda entra in un campo che non è direttamente di mia competenza, però mi pare interessante perciò provo a condividere qualche riflessione pratica. Nell’ultimo convegno promosso dalla Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica dedicato al tema “Pastorale vocazionale e vita consacrata. Orizzonti e speranze”, il card. Stella ha parlato di Gesù come di un uomo che “curava i dettagli”. Veramente originale come considerazione! Degli esempi riportati, io ne ricordo solo alcuni: la ricerca della pecora smarrita non accontentandosi che il resto del gregge fosse comunque integro, il recupero dei pezzi avanzati dopo la moltiplicazione dei pani, per non farli sprecare, la cura degli invitati alle nozze di Cana a cui mancava il vino, cosa che potrebbe essere considerata un lusso superfluo… Mi sono tornate in mente queste considerazioni a proposito della questione a cui la religiosa ha accennato e che, a dire il vero, è condivisa in diversi ambienti di vita maschile e femminile, e cioè che rispettare il valore evangelico, come quello della povertà, non significhi necessariamente trascurare aspetti che possano permettere il benessere delle persone, anche quando sono, appunto, dettagli e non cose essenziali. Racconto l’esempio concreto di un religioso economo, il quale mi diceva che ha sempre voluto garantire tutti i comfort possibili alla propria comunità, per evitare che i frati cercassero altrove i piccoli piaceri, quelli semplici, come uno snack, una birra, un po’ di vino ai pasti… e aggiungeva, sorridendo, che la sua comunità è sempre piena, i religiosi non escono volentieri perché trovano tutto dentro le mura domestiche. Insomma la comunità è davvero “ casa”. Laddove le comunità, pur nel rispetto della povertà abbracciata, hanno cura dei membri, facendo in modo che i propri ambienti siano curati, luminosi, belli (quanto è formativa la bellezza!) e possano essere soddisfatti i piccoli desideri ordinari, non rischiano di costringere le persone ad uscire fuori per star bene. La formazione si rivolge al cuore delle persone per far crescere in loro motivazioni profonde alla scelta di vita che stanno compiendo, nelle sue varie espressioni, tuttavia questo non significa che poi debbano essere precisati tutti gli aspetti della vita comunitaria – non sono questi i dettagli curati da Gesù, mi pare – perché, come sappiamo, la vita consacrata/sacerdotale accoglie persone adulte o che comunque vengono aiutate a diventare tali. Privare una persona adulta di un ambiente il più possibile “naturale” credo sia davvero rischioso. Viceversa quando la persona ha a disposizione – senza ansia da “carestia” con conseguente accaparramento dei beni (osservazione che lo stesso economo mi condivideva) – un minimo di autonomia economica e di confort domestico, è più basso il rischio di squilibri. Del resto, credo che ciascuno debba sviluppare una personale sensibilità vocazionale – riguardo a castità, povertà, obbedienza, vita comunitaria – disegnando un proprio quadro all’interno di un’unica cornice carismatica, non troppo ingombrante.
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