Mi domando se i religiosi sappiano in cosa consiste la vera e profonda amicizia per una persona consacrata al Signore e come formare e vivere questa amicizia – p. Christopher Brackett LC
Psicologa e Psicoterapeuta EMDR, Consultore del Dicastero per il Clero, Perito della Rota Romana e dei Tribunali del Vicariato di Roma, ho studiato presso la Pontificia Università Gregoriana e poi mi sono specializzata in Psicologia clinica e Psicoterapia psicoanalitica. Mi occupo in particolare di formazione e accompagnamento psicoterapeutico della vita sacerdotale e consacrata e di problematiche di coppia. Collaboro nella ricerca e nella docenza con l’Istituto di Studi Superiori sulla Donna. Con l’editrice Città Nuova ho pubblicato tre libri: La pietra della follia, Per sempre o finché dura e Percorsi vocazionali e omosessualità.
Mi domando se i religiosi sappiano in cosa consiste la vera e profonda amicizia per una persona consacrata al Signore e come formare e vivere questa amicizia – p. Christopher Brackett LC
Padre, intanto grazie per la sua domanda che tocca un tema centralissimo dell’esistenza umana: l’amicizia, e Lei aggiunge “profonda” e per “una persona consacrata al Signore”.
Cerco di risponderle a partire da quanto ho potuto constatare all’interno del mondo maschile e femminile, tra gli anziani e le anziane, questa volta senza grosse differenze, e che mi ha stupito molto.
Oggi si parla tanto delle relazioni light, e i giovani in genere sono considerati quelli più a rischio di essere sedotti dalle nuove dimensioni del mondo della Rete. È vero; tuttavia ho trovato nelle comunità, e non così raramente, anziani piuttosto chiusi, con poche, se non nulle, amicizie, e quando ho chiesto loro come mai avessero così poca confidenza l’uno con l’altro mi hanno risposto che «una volta non era ben vista l’amicizia all’interno delle case religiose». Anzi, hanno aggiunto, «quando si vedevano due persone andare “troppo” d’accordo, e magari parlare tra loro due, tre volte di seguito, si veniva immediatamente richiamati all’ordine».
Penso si possa dire che molti di quanti hanno ricevuto la formazione anni fa, hanno vissuto con sospetto le amicizie, dette infatti “particolari”, proprio a sottolinearne la criticità.
I giovani, invece, nonostante la Rete, sono più allenati nel dialogo e anche più spontaneamente propensi ai rapporti personali.
Credo che questo sia un grande punto di forza su cui far leva: il bisogno di costruire ambienti sempre meno anonimi, dove si possa condividere concretamente una gioia, una preoccupazione, una fatica, magari con qualcuno, più che con altri. Mi pare che queste siano le caratteristiche più belle e più vere dell’amicizia: l’intesa tra persone che hanno in comune non solo un Ideale, ma anche la voglia di conoscersi meglio e di fare qualcosa insieme, cosa peraltro che aiuta a non rimanere incollati alle chat!
Ho incontrato tanti giovani che nell’amicizia con un fratello, una sorella più vicina (per simpatia, sensibilità, storia personale, hobby) hanno dato maggiore energia al loro percorso, alla vita fraterna, alla preghiera, perché si sono incoraggiati a vicenda, magari richiamandosi affettuosamente, «oggi non ti ho visto a tavola dov’eri?», oppure «stamattina sei arrivato tardi alla preghiera, tutto bene?».
Viceversa ho riscontrato vie di fughe compensatorie, e assai meno “sane”, in quelli più soli o che hanno fatto della castità una sorta di armatura protettiva verso qualunque affetto. Un affetto di amicizia forse infrange l’universalità di amore a cui è chiamato un consacrato? è rischioso?
C.S. Lewis scrive ne I quattro amori (mi scuso per la lunga citazione): «Ciò non toglie, tuttavia, che qualunque affetto naturale possa essere smodato. Smodato non significa però “non sufficientemente prudente”, né significa “troppo grande”. Non si tratta di un termine quantitativo; direi anzi che è quasi impossibile amare “troppo” un qualunque essere umano. Potremmo amarlo troppo in proporzione al nostro amore per Dio; ma l’elemento di sproporzione è costituito dalla pochezza del nostro amore per Dio, non dalla grandezza del nostro amore per l’uomo».
Perciò, Padre, per vivere l’amicizia in modo adulto, cioè che non chiuda la persona in un rapporto esclusivo, e che la aiuti a percorrere con coerenza e passione la propria strada, penso ci voglia innanzitutto una chiarezza di fondo, quella che noi psicologi chiamiamo “maturità di base”, essenziale anche solo per iniziare un processo vocazionale.
E poi la possibilità di un accompagnamento formativo che affianchi serenamente e sostenga la crescita affettiva, senza demonizzare la possibilità di rapporti di amicizia con uomini e donne. Se il formatore vive queste dimensioni come un tabù, con ansia, o solo come fonte di preoccupazione, i giovani perdono l’opportunità di potersi confrontare con qualcuno che abbia più esperienza e di sviluppare quelle doti umane essenziali per loro stessi e per l’impegno verso il quale si preparano.
Sono un “giovane adulto” in cammino all’interno di una comunità religiosa; alcuni di noi scelgono anche il sacerdozio, altri rimangono fratelli laici. Sono già da diversi anni inserito in questo percorso, ed eccomi a mettere in discussione l’orientamento della mia vocazione. Sto valutando, cioè, con chi mi accompagna, la solidità del mio desiderio missionario che significherebbe cambiare espressione carismatica. Come può immaginare, non è facile. Non è facile neppure trovare chi possa prendere in considerazione questi dubbi quando ormai la formazione iniziale sta terminando e quindi si dà per scontato che quella persona porterà a termine la decisione in linea col cammino intrapreso. Scegliere una figura esterna all’ambiente non è ben visto. Sceglierla interna all’ambiente non mi dà sicurezza di essere seguito con cuore libero, per una sorta di “conflitto di interessi”. Sto banalizzando, ma spero di avere qualche indicazione in merito. Grazie per questo originale spazio-amico. Dopo anni di insegnamento, come religiosa, vivo un desiderio fortissimo di dedicarmi alla missione. Mi è stato detto che i poveri sono intorno a me, che non occorre andare lontano…sì certo questo lo so, non sono fresca di vocazione. Quando scelsi la Congregazione dove sono ora, sinceramente non mi sono posta la domanda sul carisma specifico, erano le religiose conosciute ad ispirarmi, e non l’apostolato, solo conseguenza dell’ambiente a me caro. Sono stata molto bene fino ad oggi, non rinnego nulla e rifarei tutto, ma ora non sono più in pace. Sono ben seguita, per cui mi sento fortunata, e immagino con dolore il momento in cui dovrò prendere distanza dalle mie sorelle perché noi non abbiamo esperienze missionarie. In fondo però non è ancora camminare con Dio, come scriveva Etty Hillesum?
La pandemia ha reso più manifeste alcune fragilità in diversi di noi, fragilità che forse già esistevano ma che ora si rendono più evidenti. Come fare per imparare ad integrare nella nostra vita personale e nella vita comunitaria le debolezze proprie e altrui? Alle volte mi sembra che come comunità ci vediamo più nel dover essere, che nel guardare la realtà della persona, tenendo conto del suo percorso e dei processi che vive in un contesto in continuo cambiamento. Ci può dire come fare a contenere situazioni di malattia psichiatrica in una comunità? E badare anche alla salute delle persone che convivono con lei? Una consacrata, responsabile di comunità
Sono un seminarista religioso, e mi piacerebbe se nella vostra rubrica dedicata alla vocazione potesse trovare risposta il mio interrogativo sul grado di condivisione a cui noi in formazione siamo tenuti gli uni con gli altri. Se faccio un percorso esterno di psicoterapia, se esco col permesso del mio formatore per incontrare un amico, o per andare qualche giorno fuori, a volte, mi infastidisce la curiosità invadente di altri che mi chiedono dove vado, cosa faccio e come mai non ero in casa. È doveroso che io sia aperto tout court con gli altri? E un domani che termino la formazione finisce questo “obbligo” di dire proprio tutto? Non credo che sia questo il fare comunità, anche perché non con tutti ho la stessa confidenza.
Sono un religioso, e svolgo il servizio di assistente spirituale e animatore nella mia comunità. Noto che generalmente, un po’ in tutti i libri o articoli e testimonianze si parla molto della problematica relativa ai candidati alla chiamata sacerdotale o religiosa o di preti gay, ma quasi mai del versante femminile. Molte ragazze/donne vivono questa realtà ma sembra molto più difficile trovare materiale-testimonianze che aiutino a comprendere, che delineino dei percorsi anche in ambito vocazionale. La tendenza omosessuale può esistere anche nei monasteri o case religiose, ma a parte scandali di abusi sembra davvero poco considerata. Anche sul versante di pubblicazioni di psicologia/spiritualità vedo un interesse quasi esclusivo sul maschile. Fr. M.
Sono un formatore di seminario. Seguo la vostra rubrica già da qualche anno. È uno spazio originale e molto utile perché è pratico, con domande e risposte. Qui, però, non pongo esattamente una domanda, direi piuttosto che propongo una riflessione alla vostra attenzione. Mi colpiscono tutte quelle vicende che nella Chiesa creano divisioni, anche all’interno della stessa famiglia religiosa. Non sono mai stato direttamente coinvolto in nessuna di queste, ma sono spaventato dai conflitti interni che mi fanno veramente paura, anche nei nostri ambienti. È così facile cadere nei “partiti”, creare alleati e nemici…proprio noi! Mi interroga anche lo spirito critico degli ultimi anni da parte di giovani e meno giovani verso il servizio dell’autorità, ma anche tra fratelli e sorelle. Qui, allora, porto la preoccupazione e insieme il desiderio di voler evitare il rumore di ambienti divisi.
Sono un formatore e mi confronto spesso con altri che hanno un ruolo di accompagnamento, sia uomini che donne. Ci scambiamo esperienze, parliamo di alcuni giovani (non necessariamente per età) che arrivano nelle nostre realtà vocazionali e l’interrogativo forte riguarda l’aiuto che possiamo dare loro. La responsabilità è grande: siamo chiamati a camminare e capire insieme se si trovano nel posto giusto. E chi può dirlo? A volte non ci troviamo neppure d’accordo come equipe formativa, per cui rimane il grosso dilemma di mandare avanti o meno una persona su cui non concordiamo. Ma la domanda si pone anche di fronte a fratelli e sorelle già da anni nel ministero o in comunità che mettono in discussione la loro vocazione… come aiutarli, e semmai come rendere più certa possibile una valutazione? Quali indicatori ci possono segnalare che ci sono buone possibilità di riuscita vocazionale e quali invece il contrario? La domanda è molteplice e complicata, ma la pongo in accordo con altri formatori e formatrici che stanno insieme a me che scrivo.