Il voto ai “fuorisede”, una domanda di democrazia che richiede una risposta politica

Come voteranno i tanti “fuorisede”, in gran parte giovani studenti e lavoratori delle regioni del Sud Italia, alle prossime elezioni politiche? Un vuoto legislativo che riguarda circa il 10% del corpo elettorale. Varie proposte di legge, per favorire il voto nel luogo di domicilio, sono rimaste al palo. Una priorità per il nuovo Parlamento se davvero si vuole affrontare l’astensionismo
Fuorisede a Milano Foto LaPresse

La provocazione lanciata su Instagram nel mese di agosto da Stefano Maiolica, noto al mondo social con il nome di “un terrone a Milano”, sicuramente dai toni e linguaggi un po’ troppo “sopra le righe”, va però al cuore di un problema che puntualmente, ogni cinque anni, ritorna nel dibattito quando ormai è troppo tardi: come voteranno i tanti “fuorisede”, in gran parte giovani studenti e lavoratori delle regioni del Sud Italia, alle prossime elezioni politiche?

Un vuoto legislativo che riguarda circa il 10% del corpo elettorale e che, al di là dei meri numeri di elettori, tocca alcune fasce sociali e generazionali che per ragioni oggettive rischiano di non poter esercitare il loro diritto costituzionale al voto.

Nonostante le riduzioni significative delle tariffe annunciate dalle compagnie ferroviarie e aeree per quanti vorranno tornare per votare, nella realtà dei fatti per molti sarà impossibile conciliare impegni universitari e lavorativi con i tempi necessari per spostarsi e votare. Per chi frequenta l’università, settembre è tempo di recupero di esami o di avvio di corsi; per chi lavora nel privato, non è sempre scontato poter allontanarsi per uno o due giorni dal lavoro soprattutto in una fase di ripresa come il mese di settembre e lo stesso vale per liberi professionisti e autonomi.

Un paradosso, tutto italiano, che consente oggi agli italiani residenti all’estero di votare legittimamente per corrispondenza e non lo permette a chi si trova fuori dal proprio comune e dalla propria regione di residenza per lavoro o studio. Un numero che negli anni non è affatto diminuito: uno degli ultimi rapporti Svimez parla di più di un milione di persone trasferitosi dal Sud Italia nelle regioni del centro e del nord tra il 2002 e il 2020.

Come tante questioni all’italiana, non risolte nell’ordinario e tramutate in emergenza a ridosso di scadenze, non sono mancate in questi anni proposte per cercare di sanare un gap che segna un’anomalia “democratica” tutta italiana: fatta eccezione per Cipro e Malta, il nostro Paese è l’unico in Europa a non contemplare nemmeno una modalità di voto a disposizione dei fuorisede.

In Parlamento qualcosa si è mosso in questi anni. A maggio 2021, la Commissione Affari costituzionali della Camera ha iniziato l’esame di cinque proposte di legge sul tema, presentate da parlamentari di diversi schieramenti. La prima di queste proposte, che prevedeva sia il voto nel Comune di domicilio previa domanda in via telematica tramite lo Spid sia il voto per corrispondenza, risale al 2019 e solo due anni dopo è approdata in commissione affari costituzionali.

Accanto ai parlamentari, anche la società civile si è mossa con il Collettivo calabrese “Beppe Valarioti”, aggregatore della rete “Voto sano voto da lontano”, che ha spinto per far approdare in Parlamento una proposta di iniziativa popolare redatta dai costituzionalisti Salvatore Curreri e Roberto Bin.

E mentre nel libro bianco “Per la partecipazione dei cittadini, come ridurre l’astensionismo e agevolare il voto”, esito dei lavori della commissione istituita dal ministro per i rapporti con il Parlamento Federico D’Incà, si mette in evidenza chiaramente come la “questione fuorisede” abbia un ruolo decisivo nel tasso sempre più elevato di astensionismo, in particolare del cosiddetto astensionismo involontario, il Ministero dell’Interno ha posto diverse e puntuali criticità rispetto alla possibilità di introdurre sistemi per consentire ai fuorisede di votare nel proprio comune di domicilio.

Tra questi, i possibili ritardi nello spoglio delle schede e il rischio di riconoscibilità del voto. Gli stessi ostacoli, definiti “insormontabili” dal Viminale, che hanno escluso nell’autunno di un anno fa la possibilità di votare a distanza nella tornata di elezioni amministrative che ha riguardato più di milletrecento Comuni e la regione Calabria. Ostacoli che, come sottolineano diverse associazioni e comitati, «sono stati da tempo superati nella maggior parte degli altri Paesi europei, nei quali i cittadini fuori sede possono votare per posta, in un seggio presso il proprio domicilio o anche per delega».

Se è vero, dunque, che la nostra Costituzione pone elementi di maggiore rigidità sulle modalità di voto e le dinamiche burocratiche del sistema Italia non hanno bisogno di presentazioni, il nodo è fondamentalmente politico: come garantire a quasi cinque milioni di cittadini che vivono fuori dal Comune di residenza di votare in condizioni di piena agibilità, senza dover affrontare le odissee dei viaggi della speranza o essere costretti a scegliere tra l’esercizio del principali diritto costituzionale con le realtà concrete del lavoro, dello studio, delle attività professionali?

Ad oggi, per quanto  riguarda i treni, sia Italo che Trenitalia propongono sconti tra il 60% e il 70% a chi rientrerà nel proprio Comune per votare il prossimo 25 settembre. Agevolazioni anche da parte della compagnia area Ita Airways, da FlixBus e dalla Compagnia Italiana di Navigazione.

Non mancano, dunque, sconti e agevolazioni, ma resta un punto discriminante che il prossimo Parlamento dovrebbe affrontare, possibilmente all’inizio e non a ridosso della scadenza di legislatura: c’è una domanda che viene dal basso, una domanda di democrazia da parte di milioni di ragazze e ragazzi che chiedono di poter votare agevolmente lì dove vivono e lavorano.

Di fronte a un tasso di astensionismo che ormai non risparmia neppure le elezioni comunali, tornata dove tendenzialmente si riscontra una maggiore affluenza rispetto alle altre, continuare a tergiversare, a nascondersi dietro i soliti bizantinismi burocratici, e non dare una risposta politica a una domanda di politica, significherebbe indebolire ulteriormente la democrazia del nostro Paese.

 

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