Verso l’unità  della comunità: il ruolo dei leaders

Nunziatura Apostolica, Port-au-Prince, 24 marzo 2004

Prendo la parola avendo come unica autorità la fiducia degli amici che mi hanno proposto questo intervento.

Sottolineo che non ho la pretesa di insegnare alcunché: il rispetto che ho per questo Paese e per questo popolo non mi permette di sostituirmi alle riflessioni e alle decisioni che solo gli haitiani possono prendere su se stessi.

Aggiungo che ho provato a fare qualche cosa per questo Paese, e spero di avere dato un piccolo contributo; ma devo dire che, principalmente, da questo Paese ho ricevuto, in termini di fiducia, di amicizia, di conoscenza. Il mio pensiero, a contatto con la realtà e la storia di Haiti, si è aperto ad un orizzonte prima sconosciuto, dandomi un arricchimento personale e professionale.

Come co-presidente del Movimento politico per l’unità, fondato da Chiara Lubich, compio molti viaggi e ho l’opportunità di conoscere molte diverse realtà politiche nel mondo; posso provare a trasmettere Loro qualche cosa delle nuove esperienze che in diversi Paesi del mondo si stanno facendo sul terreno del rinnovamento politico, e alcune idee-forza che guidano tali esperienze.

Devo dire anzitutto, proprio sulla base di questa visione internazionale delle situazioni politiche, che Haiti è un caso unico. In questi quattro anni della mia frequentazione di Haiti, ho sentito più volte sulla bocca degli amici il desiderio di essere un “Paese normale”, con uno Stato normale, istituzioni normali, sicurezza pubblica, certezza del diritto, partecipazione politica, servizi sociali. Condivido questa esigenza: la normalità del funzionamento istituzionale è una necessità di ogni comunità politica, che presuppone una organizzazione minima capace di garantire l’effettivo esercizio dei diritti civili, politici e sociali.

Ma su questi requisiti, che ogni Paese deve possedere, si innesta poi la particolarità di un popolo, della sua storia e della sua identità. Nessun Paese è come un altro. E Haiti, in modo straordinario, vive una sua particolarità: la sua storia non ha uguali. Di più: nel corso del Congresso internazionale tenuto qui a Port-au-Prince nel 2002, dedicato a Le vie della fraternità nella politica e nell’economia, ci è sembrato di poter intravedere una “missione storica” di Haiti, legata alla sua lotta per l’emancipazione, e all’idea di fraternità, che tanta parte ha avuto in quella lotta. Nel corso di questa riflessione, riprenderò alcune delle idee enunciate nel 2002, proprio riguardo alla fraternità. La prospettiva della fraternità è centrale nel Movimento di cui faccio parte; ed è essa ad animare alcune fra le esperienze più interessanti di rinnovamento della politica.

Questo è un momento di estrema importanza per la vita del Paese. E il titolo scelto per questa riflessione ne rivela il perché: dobbiamo riflettere sulla comunità e sui suoi leaders, in una situazione nella quale abbiamo molti leaders, ma non una comunità. La comunità di riferimento per leader politico, infatti, è la comunità politica. Ed è proprio ciò che, oggi, Haiti non è; l’indipendenza haitiana, 200 anni fa, ha posto le prime condizioni per uno sviluppo della comunità politica che non si è realizzato, come una promessa non mantenuta. La storia haitiana ha prodotto più personalità individuali che comunità; ha prodotto capi che, spesso, si sono cibati della comunità anziché servirla. Il compito attuale è quello di fondare la comunità politica: ciò significa una vera e propria ri-fondazione della Nazione. Ma le esperienze storiche di molti Paesi ci dicono che, per essere dei fondatori, sono necessari alcuni requisiti, alcune risorse, alcune scelte.

 

 

1. Requisiti

 

Vocazione personale

Il requisito di partenza, dal quale tutto il resto si sviluppa, consiste in questo: il vero politico è colui che risponde a una vocazione. La vocazione, come dice il termine latino dal quale proviene, è una chiamata; l’uomo di fede può avvertirla anche come una chiamata personale di Dio; in ogni caso, tutti rispondono ad una chiamata che viene da un bisogno del loro popolo, da una debolezza che chiede soccorso, da un diritto umano violato. Rispondere alla chiamata significa assumersi una responsabilità: e colui che è responsabile può anche esercitare un ruolo di potere e di comando, ma essere responsabile significa, alla fine, essere chiamato a rispondere, dover rendere conto: è colui che ha chiamato che ha il compito di giudicare e di decidere; il politico, che è stato chiamato, viene misurato e giudicato da colui che lo ha eletto, dal popolo, dai cittadini.

La vocazione politica di coloro che devono svolgere un compito di fondazione assume allora un aspetto particolare, che è presente nei compiti di tutti i politici, ma che nei fondatori diventa essenziale: i fondatori devono creare colui al quale risponderanno, colui che li dovrà giudicare: devono creare il popolo non come comunità etnica, culturale o religiosa, ma come insieme dei cittadini effettivamente sovrani, come comunità politica.

La politica inizia dunque da una vocazione specifica. E’ anche un mestiere, perché esige professionalità; ma se faccio politica, devo essere certo di avere questa vocazione, ed essere disposto a renderne conto a chi mi ha chiamato; altrimenti, posso fare altri mestieri; c’è una nobiltà anche nel fare il professore, il pagliaccio, il macellaio o il becchino; posso provenire da queste professioni quando entro in politica; ma me ne devo spogliare per assumerne un’altra. Quello che mi è chiesto in politica non è né insegnare, né far ridere, né macellare, né seppellire.

 

Riconoscere gli altri

Una prima conseguenza di questo punto, è che devo riconoscere una vera vocazione non solo in me, ma anche negli altri politici, anche in quelli che non la pensano come me. E’, questo, un aspetto decisivo, ma spesso dimenticato un po’ dappertutto, specialmente quando la nostra attenzione è completamente assorbita dai compiti del presente. Ma è anche vero che, quando si è sofferto così a lungo, bisogna cercare di avere uno sguardo lungo, che parte da lontano e che guarda lontano, e cercare di capire, per quando possibile, la trama di un disegno storico, anche se coperto da mille sofferenze e quasi soffocato. Bisognerebbe, io credo, se all’uomo fosse possibile, avere lo sguardo di Dio, per abbracciare nel suo insieme la storia e il destino di un popolo. Possiamo, però, almeno, provare ad allargare il nostro pensiero, a sollevarci per un momento dai conflitti presenti, per interrogarci sul significato più profondo dei fenomeni.

Ci rendiamo conto, così, che nessun grande movimento politico, nessuna grande idea, nascono per caso, ma sorgono e si sviluppano come espressione di una esigenza, come risposta ad un bisogno storico di un popolo; la vocazione non chiama solo i singoli, ma riunisce i movimenti, crea i soggetti collettivi. Colui che ha avvertito dentro di sé una chiamata di Dio nel fare politica, è consapevole che Dio, attraverso la persona di colui che è stato chiamato, vuole di re una Sua Parola all’umanità. Ma anche l’altro politico, allora, è una Parola che Dio vuole pronunciare; e così l’altro movimento storico, l’altra corrente di pensiero politico: sono tutte Parole attraverso le quali Dio vuole pronunciare il suo discorso nell’umanità di oggi: solo se queste Parole si incontrano e si mettono insieme in maniera armonica, il discorso di Dio può dispiegarsi. In altri termini, devo riconoscere la ragione per la quale anche il mio avversario politico esiste, devo accettarla e rispettarla: fare politica significa comporre un discorso unitario che diventa la risposta ai diversi bisogni, alle diverse vocazioni, che hanno chiamato i politici al loro impegno.

 

Politica e unità

C’è infatti un legame profondo tra l’unità e la politica. La politica parte da una unità di origine, che consiste nell’appartenenza alla stessa comunità politica: dibattiamo, ci confrontiamo, opponiamo l’un l’altro una diversità di idee e di interessi, proprio perché apparteniamo alla stessa comunità, e ciò che ci unisce è più forte di ciò che ci divide; altrimenti, non saremmo avversari, saremmo nemici. E’ la stessa comunità, che vuole rimanere unita, che ci chiede di comporre in unità le differenze, si risolvere i conflitti: il politico parte dall’unità originaria, e deve produrre un’unità nuova, di risultato: alla fine del confronto, infatti, ci sarà una sola decisione, una sola legge, che tutti dovranno accettare. Fare politica, dunque, significa conservare l’unità della comunità, affermandola in una maniera nuova. 

 

 

2. Risorse

Dove attingere le risorse per tale fondazione? Mi sembra di poter indicare due strade.

 

Storia e identità

La prima si ricava dalla storia e dall’identità di questo Paese; esso ha già vissuto un primo, originario periodo di fondazione, legato essenzialmente alla figura e all’opera di Toussaint Louverture. Quando fummo pronti, nel 2002, ad aprire la nostra scuola di formazione politica, intitolata a Toussaint, un giornalista, durante la conferenza stampa, mi chiese: perché Toussaint e non altri, per esempio, Dessalin? Io risposi che due erano i motivi. Il primo: Toussaint aveva un progetto, è riuscito a trasformare una ribellione anarchica di schiavi in una rivoluzione politica; Toussaint custodiva dentro di sé il disegno di un popolo, il suo popolo, che ancora non c’era, e che si è formato durante la lotta. I suoi successori hanno raggiunto l’indipendenza, è vero: ma il capolavoro è stato compiuto da Toussaint, che ha generato un popolo che ha saputo mettersi su un piano di parità con gli antichi padroni; al punto che Toussaint può rivolgersi a Napoleone scrivendo: “il primo dei Neri al primo dei Bianchi”. Il secondo motivo: Toussaint è stato tradito e ucciso. Io ho letto, alle Archives nationales di Parigi, la corrispondenza fra Napoleone e i carcerieri di Toussaint; ho visto le minute degli ordini e delle disposizioni della Prefettura e della polizia che riguardavano il trasporto e la custodia di Toussaint; ho potuto constatare la precisa volontà di Napoleone di far soffrire l’eroe di Haiti e di portarlo alla morte. Napoleone temeva Toussaint; al punto di pensare che egli potesse fuggire e opporsi a lui. Certamente, la preoccupazione di Napoleone non veniva dalla forza materiale di Toussaint: veniva dalla sua forza morale, dall’avere osato farsi suo pari: “il primo dei Neri al primo dei Bianchi”. Toussaint doveva morire perché Napoleone aveva bisogno di schiavi, non di popoli liberi. E’ questo il secondo motivo: Toussaint è stato ucciso; anch’egli aveva ucciso; ma qualunque sia stata la sua responsabilità sul campo di battaglia, egli era in prigione da innocente, egli era disarmato e impotente; il suo dolore è un dolore innocente, e la sua uccisione ne fa una figura sacrificale. Uno di quegli uomini, cioè, che muoiono per il proprio popolo, e il cui sacrificio continua a nutrire questo popolo. Non è retorica: è la logica del sacrificio che ha sempre costruito le realtà nuove della storia.

E a volte la storia ha pietà degli uomini, quando li trasforma in martiri, perché li toglie dal rischio che la loro umana piccolezza arrivi, un giorno, a prevalere facendo di loro dei piccoli, squallidi dittatori, quali molti Paesi hanno conosciuto fino ai nostri giorni.

 Toussaint dunque è un modello del politico-fondatore: ma colui che oggi è chiamato a fondare, è disposto a dare la propria vita come fece Toussaint?

E ancora: la grande intuizione di Toussaint fu quella della fraternità. Nel suo appello da Camp Turel, agli schiavi delle piantagioni del Nord, lo dice con chiarezza: vuole portare la libertà e l’uguaglianza ad Haiti, ma per farlo c’è bisogno della fraternità: e si appella agli schiavi chiamandoli, appunto, “fratelli”. La libertà e l’uguaglianza sono il futuro; la fraternità è il presente, è ciò con cui Toussaint crea il popolo di Haiti. Ecco la chiave: 500 mila schiavi, divisi e appartenenti a etnie diverse, diventano un popolo perché rispondono quando vengono chiamati “fratelli”: la fraternità crea il popolo. 

E’ necessario, io sono convinto, riprendere lo spirito louverturiano se vogliamo affrontare l’opera della nuova fondazione di Haiti; è necessario riprendere la fraternità per creare, oggi, la vera comunità politica, come, 200 anni fa, la fraternità creò il popolo.

 

Una comunità di comunità

 

a)     crisi delle comunità

La seconda strada che può portare a reperire le risorse per la nuova fondazione politica del Paese è quella che ci porta a considerare le comunità già esistenti: comunità non politiche, bensì realtà sociali: famiglie, professioni, aziende, associazioni di carattere culturale, sociale, sindacale, ecclesiale, caritativo. Tutte queste comunità spesso hanno operato senza alcun aiuto dello Stato o in assenza dello Stato; anzi, molte volte si sono dovute assumere compiti di supplenza nei confronti dello Stato assente; si sono assunte il compito del bene comune, che non è il loro compito specifico, ma quello dello Stato. La natura di queste comunità è infatti quella di essere intermedie fra la persona e lo Stato: l’assenza del punto di riferimento costituito dall’Istituzione politica ha appesantito il loro compito.

Non solo: come sempre succede in queste occasioni, come ci testimonia l’esperienza di numerosi Paesi, è facile che queste comunità non riescano a raggiungere i propri obiettivi: pensiamo alle difficoltà delle famiglie, prive di risorse per garantire una crescita sana dei figli, una relazione serena fra i genitori: l’umiliazione dei padri che non riescono a mantenere la propria famiglia diventa l’umiliazione di un intero popolo, fa crescere bambini e giovani nei quali questa umiliazione attende solo l’occasione per diventare violenza; pensiamo alle difficoltà delle imprese, quando non fanno parte del blocco di interessi che sempre, in queste situazioni, il potere riesce a creare, organizzando un’alleanza tra falsi politici e falsi imprenditori.

Altra grave conseguenza, è la degenerazione di tali comunità:

–                    a livello economico: in tali situazioni crescono aziende che, senza il sostegno politico, non riuscirebbero a rimanere nel mercato e che, private di tale sostegno, consegnano i propri lavoratori alla fame;

–                    a livello culturale: associazioni e organizzazioni della società civile rischiano di diventare organi di trasmissione del potere, anziché libere manifestazioni della creatività sociale;

–                    a livello ecclesiale: in particolare con l’impegno diretto di sacerdoti e religiosi in partiti politici; l’impegno pubblico diretto di sacerdoti e religiosi, in particolare in organizzazioni di carattere sindacale, economico, sociale, può a volte essere suggerito dallo Spirito in situazioni eccezionali, quando serve direttamente alla tutela delle persone e dei loro diritti: in questo campo le Chiese cristiane contano molti martiri e santi; ma l’impegno diretto in partiti, oggi, dopo le esperienze storiche che le Chiese hanno compiuto negli ultimi due secoli, è inaccettabile: un prete è un prete senza aggettivi; là dove abbiamo un “prete fascista”, o un “prete comunista”, l’aggettivo toglie il valore al sostantivo: il prete perde la propria autorità di pastore e riferimento per tutti i fedeli, qualunque sia il loro pensiero politico;

–                    a livello politico: i partiti si spartiscono il potere e giungono a identificarsi, in tutto o in parte, con lo Stato: tradiscono, in tal modo, la loro natura: i partiti sono infatti associazioni private che contribuiscono a formare le grandi correnti di opinione politica della popolazione, raccolgono il consenso, sviluppano progetti, concorrono alle decisioni politiche del Paese: e tutto questo in libera competizione fra loro, per assicurare la libertà di scelta dei cittadini. Tutto questo scompare, quando uno o più partiti si impadroniscono dello Stato.

 

b) risorse delle comunità

Eppure, nonostante queste difficoltà, le diverse comunità haitiane hanno cercato di perseguire i propri scopi naturali, impegnando e facendo crescere cittadini intelligenti e laboriosi, che si sono dimostrati capaci di realizzare il bene proprio della loro comunità di appartenenza. In tutti i Paesi del mondo – dunque anche in Haiti – da queste comunità possono venire le risorse umane per costruire una vera comunità politica, in due modi:

–                    il primo: attraverso un contributo di conoscenza, di esperienza, di capacità di analisi, di intervento e di soluzione dei problemi; le comunità intermedie devono accompagnare il lavoro della classe politica, interagendo in maniera chiara, pubblica e trasparente con essa; non devono creare lobbies particolari, ma contribuire al processo decisionale e legislativo; i politici devono scrivere i loro programmi insieme alle comunità; e le comunità non devono limitarsi, dopo il voto, a delegare al politico l’esercizio della sovranità, ma devono continuare a seguirlo col loro sostegno e col loro controllo, come cittadini attivi; su questo punto, il MPU ha molte esperienze;

–                    il secondo: dando alla politica le persone competenti, contribuendo così a formare una nuova classe dirigente politica. I Paesi che vivono svolte storiche, devono saper rinnovare il loro personale politico, ricordando che la politica stessa richiede professionalità, ed è necessario imparare, con pazienza e prudenza, il mestiere. Bisogna che i cittadini imparino a scegliere, all’interno delle proprie comunità, persone con una storia credibile, persone che abbiano dimostrato di saper condurre una famiglia, un lavoro, e dunque capaci, probabilmente, di condurre uno Stato.

In tal modo, la comunità politica è, in effetti, una comunità di comunità; la politica rappresenta l’unità del corpo sociale, è lo strumento che permette ai giovani di amarsi, di sposarsi e di mettere il loro amore anche nel lavoro; permette ai malati di curarsi, agli anziani di trasmettere serenamente la loro saggezza; la politica è al servizio dei mille amori che sbocciano nella società; è, come dice Chiara Lubich, “l’amore degli amori”.

 

3. Scelte

Per arrivare a questa politica, l’unica degna del suo nome, sono necessarie delle scelte.

 

Stile di vita

La prima riguarda lo stile di vita del politico, che deve fare attenzione ai simboli dei quali il potere tende a circondarsi. I segni del potere, esibiti in un Paese forte e ricco, sono arroganti; i segni del potere, in un Paese debole e povero, sono ridicoli. Alcuni segni sono pubblici: riguardano l’ostentazione della ricchezza e l’ostentazione della forza. Altri segni sono tipici del comportamento personale: una certa arroganza, una certa aggressività: ricordiamo che colui che grida è un debole: se si hanno le ragioni, le si dice; se non le si hanno, si alza il volume del proprio niente. Uno stile sobrio, nell’esercizio del potere, è segno di serietà. Non bisogna guardare solo ai miseri, dentro il proprio Paese, che possono venire ammaliati dai segni del potere: bisogna guardare anche al di fuori, all’opinione pubblica internazionale, la cui stima è necessaria per governare in ogni Paese.

 

Confronto con i giovani e con i cittadini attivi

In Haiti si sta formando una generazione che sarà capace, fin dai prossimi anni, di gridare: “Il re è nudo”, che non si farà impressionare dai segni del potere. Una generazione che si sta preparando all’attività politica proprio vivendo la fraternità, pur nella diversità delle scelte; questi giovani imparano a sanare, in se stessi, le ferite del passato, a mettere da parte l’aggressività per acquisire la vera forza. Questi giovani, in ogni politico aggressivo vedranno un debole che non è stato capace di superare gli ostacoli interiori che egli, il giovane, ha invece saputo sconfiggere. Questi semi sono già stati deposti in Haiti, questa generazione si sta già formando, ed è con essa che i politici di Haiti devono fare i conti, prima di lasciarle il posto. La nostra generazione, infatti, lascerà il suo posto a loro, non solo perché noi siamo vecchi, ma anche perché essi sono più forti.

 

Saper prendere, saper lasciare

Davanti a noi, davanti alla generazione di coloro che hanno cinquanta e sessant’anni, coloro che oggi devono agire, sta la scelta: in quale modo vogliamo cedere il potere? Può forse sembrare, questa, una domanda prematura, se posta nel momento in cui il problema più urgente sembra quello opposto, cioè come conquistare e mantenere il potere. Io penso diversamente; penso che le domande su come prendere il potere e su come lasciarlo siano le due facce dello stesso problema. Infatti, colui che si chiede soltanto come prendere il potere, spesso dimentica che il potere è un mezzo, non un fine; la politica ha bisogno del potere per realizzare il bene comune; ma la politica non coincide col potere; essa è, certamente, potere, ma deve sapere anche lo scopo per il quale il potere va usato. Preoccuparsi di come lasciare la politica significa essere consapevoli della differenza fra il mezzo e il fine; significa volere operare per costruire qualche cosa che rimane, indipendentemente e al di là delle nostre persone.

In particolare, coloro che sono investiti di un compito di fondazione, devono essere consapevoli della provvisorietà del loro momento. Devono pensare e agire in funzione di ciò che sarà dopo, avendo una chiara consapevolezza del limite del proprio compito e, insieme, del limite del proprio potere. Attenzione, dunque, a ciò che fate, ma anche ai vostri discorsi, alle vostre lettere, ai vostri scritti: essi saranno studiati dalle future generazioni, costituiranno il patrimonio fondamentale della cultura politica del vostro Paese. 

 Tre anni fa, incontrandomi col presidente Aristide, in seguito ad un discorso con il quale il Nunzio Mons. Bonazzi aveva attirato l’attenzione del presidente su alcuni aspetti problematici e criticabili del suo operato politico, io proposi al presidente l’esempio di Cincinnato, l’antico romano che, chiamato a salvare la Patria in pericolo, si ritirò subito dopo dalla scena, tornando al lavoro dei campi. Proposi ad Arisitide di lavorare per creare le condizioni del “Paese normale”, per portarlo a elezioni politiche e amministrative corrette, e al funzionamento delle istituzioni; se lei lascerà il potere dopo avere fatto questo, gli dissi, interromperà quella che potremmo chiamare la “maledizione haitiana”, quella sorta di sortilegio o incantesimo che colpisce i governanti di questo Paese, che si trasformano in divoratori del proprio popolo, e sarà ricordato per sempre come un eroe e un benefattore: oggi, infatti, ci ricordiamo di Cincinnato, non dei tanti piccoli uomini che si sono tenuti stretto il potere. Un discorso ingenuo, che il presidente ascoltò – un po’ stupito, per la verità – in maniera benevola. Sono convinto che non tutti, in Haiti, hanno le stesse orecchie di Aristide.

 

Un patto di fraternità per Haiti

C’è un’ultima cosa, di capitale importanza, che vorrei sottoporre alla Vostra attenzione. Riguarda un’esperienza che molti Paesi hanno compiuto, alcuni bene altri male, nel corso del Novecento; io l’ho vissuta in Italia; in altri Paesi, quali il Rwanda e il Sud Africa, essa è molto più recente. Riguarda la storia e la memoria.

La storia ci consegna delle ferite; deposita dentro di noi un bagaglio di sofferenze e di odio, per le pene subite, ma anche di rimorsi, per le pene inflitte. Nei momenti di fondazione, un Paese deve saper guardare al proprio passato, e riconoscere nel male che si è subito e in quello che si è fatto un’unica storia comune. Senza cancellare le responsabilità, senza fare torto alla giustizia. Ma bisogna riconoscere se stessi come il frutto dell’insieme di ciò che è avvenuto: tutto ciò che è stato fatto, anche se non da noi, anche se siamo senza colpa, in qualche modo ci appartiene e compone la l’identità di ciascuno e del Paese. La memoria deve saper guardare al male con misericordia, per chiudere le ferite, per evitare che il male, già subito una volta in un certo momento, continui a vivere dentro di noi e a colpirci, a impedirci l’unità di cui oggi c’è bisogno per fondare un Paese nuovo. Dobbiamo unificarci in noi stessi, per unificare i nostri Paesi. Solo così la nostra intelligenza potrà percorrere il passato, e scoprirvi il bene che la storia ci trasmette, e potrà riconoscere un disegno e una unità di popolo.

Quello che sto per proporvi, io credo, non è una cosa superflua, ma la più necessaria esistenzialmente e politicamente in questo momento: un patto di fraternità per Haiti; un patto che impegni i politici e i cittadini di questo Paese a riconoscere sempre che ciò che unisce è più grande di ciò che divide, che li aiuti a conservare la straordinaria esperienza che Haiti ha realizzato attraverso la sua emancipazione, a valorizzarla e a donarla all’umanità. Immaginiamo di ascoltare un nuovo appello da Camp Turel: solo se risponderete alla parola “fratelli”, in questo Paese ci saranno dei leaders, perché solo così ci sarà una comunità politica.

 

Vorrei concludere con due parole, se Voi permettete a un non haitiano, a un italiano, di pronunciarle: Viva Haiti.

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