Verso la tassazione della speculazione finanziaria
Cresce il numero dei Paesi a favore della Tobin tax. Intervista con Andrea Baranes, rappresentante della campagna di riforma della Banca mondiale
Si può avverare davvero una delle utopie del pensiero “altermondialista” e quindi tassare le speculazione? L’Ecofin, il consiglio che vede riuniti i ministri di economia e finanza dell’Unione europea, ha preferito non toccare l’argomento nella riunione del 4 ottobre, ma sembra matura una presa di posizione autorevole a favore di una tassazione delle transazioni finanziarie (TTF) per colpire la speculazione.
Se ne discuterà a margine del prossimo Consiglio europeo del 17 ottobre. Il cancelliere tedesco, Angela Merkel, e il presidente della Commissione europea, Josè Manuel Barroso, hanno più volte dichiarato l’intenzione di portare la proposta anche sul tavolo dei lavori del G20 di Cannes del 4 novembre, dove peserà lo schieramento favorevole di Paesi emergenti come il Brasile, Sudafrica e, a quanto si dice, addirittura la Corea del Sud.
La misura proposta dall’economista premio Nobel James Tobin negli anni Settanta, sulla base di un’intuizione di Keynes, pare perciò – in una formula ampliata – vicina al traguardo, anche se la strada per togliere (briciole) ai ricchi per dare ai poveri è molto accidentata. Sentiamo il parere di Andrea Baranes, rappresentante della “campagna di riforma della Banca mondiale”, tra i principali protagonisti del movimento per l’introduzione della tassazione delle transazioni finanziarie.
Lo sceriffo di Nottingham non sembra volerla dare per vinta a Robin Hood. Se, a quanto pare, Londra rimarrà contraria alla Tobin tax, non avremo la temuta fuga dei capitali? Gli investitori non si metteranno in coda davanti alla City, alla Borsa britannica?
«Molto dipende da come viene strutturata la tassa. Sia gli studi teorici sia l’esperienza pratica di imposte simili già esistenti sembrano dimostrare che le possibilità di elusione della tassa non dipendono dal numero di Paesi che l’adottano, ma da come viene disegnata. Un caso virtuoso viene proprio dalla Gran Bretagna dove è tutt’ora in vigore la Stamp duty, un’imposta dello 0,5 per cento su ogni transazione di azioni di imprese inglesi.
La legge prevede che non si diventi legalmente proprietario del titolo finché non si dimostra l’avvenuto pagamento dell’imposta. In questo modo una tassa 10 volte superiore a quanto proposto dalla campagna 0,05 ha un’elusione praticamente nulla. Il caso opposto è quello della Svezia, che aveva introdotto una TTF negli scorsi anni, ma che prevedeva che il pagamento fosse a carico degli intermediari. In questo modo era sufficiente per i cittadini svedesi realizzare le loro operazioni tramite banche inglesi o di altri Paesi per non pagare la tassa.
Gli ultimi studi dimostrano e hanno proposto modelli di TTF disegnati in modo da minimizzare le possibilità di elusione, anche se la tassa venisse implementata unicamente in un numero limitato di Paesi o nella zona euro, per superare le reticenze della City».
Resta il fatto che sembra un’operazione di vertice decisa da Francia e Germania con effetto solo dal 2014, più per recuperare fondi necessari ai bilanci statali in dissesto che per solidarietà e cooperazione. Insomma non è il frutto di un movimento di popolo, largamente ignaro della posta in gioco. Non è un difetto tipico dell’Europa la mancanza di adesione convinta a decisioni che calano dall’alto?
«In parte è vero, anche se bisogna sottolineare che la proposta originale della tassazione viene dalle campagne per la Tobin Tax che Attac e diverse altre organizzazioni e reti della società civile hanno promosso in tutta Europa già un decennio fa. In Italia nel 2003 furono raccolte 180 mila firme per una legge di iniziativa popolare che non è mai stata discussa in Parlamento.
La TTF è sicuramente un’idea che nasce dal basso e con una lunga storia di campagne di pressione e sensibilizzazione, anche se alla fine è stato necessario l’attivo sostegno di Francia e Germania per sbloccare la situazione. L’utilizzo dei fondi rimane un punto da chiarire urgentemente. Le campagne chiedono che il 50 per cento del gettito vada per spese interne (welfare e spese sociali) e l’altro 50 per spese internazionali (cooperazione e lotta ai cambiamenti climatici).
Utilizzare il gettito della TTF per "tappare" i buchi creati dalla finanza speculativa sarebbe una sorta di scippo dell’idea originale di chi chiede da anni una simile imposta, ovvero destinare ancora una volta a risolvere i problemi finanziari una proposta pensata per limitarli».
Come si può introdurre una tassazione del genere solo in Europa se si è sicuri che al G20 del 4 novembre gli Usa e i Paesi emergenti si rifiuteranno di fare lo stesso? E, più in generale, come farlo senza colpire i paradisi fiscali, vera ghiandola pineale del sistema finanziario speculativo?
«L a TTF in sé è realizzabile anche in un numero limitato di Paesi. Detto questo, chiaramente non è la panacea dei problemi della finanza internazionale, ma unicamente un tassello da inserire in un insieme di proposte di regolamentazione. Alcune di queste sono effettivamente funzionali, o per lo meno utili, a farla funzionare al meglio: sicuramente una lotta molto più efficace contro i paradisi fiscali, ma anche la tracciabilità di tutti i derivati negoziati al di fuori delle borse valori (over the counter). Le proposte per delle soluzioni in queste direzioni ci sono, anche qui è solo questione di volontà politica».
I critici più radicali contestano il fatto che la misura non offre numeri certi, rifacendosi ad una tassa simile introdotta in Svezia nel 1994, che fece fuggire i capitali con introiti 30 volte inferiori a quelli stimati. Cosa cambierebbe adesso? Come si risponde all’obiezione della portavoce del Congresso statunitense, la democratica Nancy Pelosi, o del governatore uscente della Banca Centrale europea, Jean Claude Trichet, che una tassa del genere funziona solo se tutti i Paesi sono disposti ad applicarla – cioè mai ?
«Mi rifaccio alla risposta precedente sull’esempio (in negativo) della Svezia e sul fatto che sia necessario applicarla in tutto il mondo. Prescindendo dalle possibilità di elusione e dai ragionamenti tecnici, due considerazioni. Primo, se si aspetta di avere un consenso internazionale non si parte mai, anzi, è il migliore alibi per non fare nulla. Se un gruppo di Paesi dimostra che si può fare, poi è molto più semplice allargare.
Secondo, la semplice possibilità di eludere un’imposta non può rappresentare un argomento contro una sua introduzione, ma deve nel caso essere un incentivo per strutturarla meglio e rafforzare i controlli. L’Italia è, purtroppo, un chiaro esempio di come tutte le tasse possano essere eluse dai più "furbi". Questo è un argomento per azzerare qualunque forma di tassazione, o, piuttosto, per rafforzare i controlli e il contrasto all’elusione e all’evasione fiscale?».