Vecchie e nuove generazioni

Il recente concerto all'Accademia Romana di Santa Cecilia, con il direttore Yuri Termikanov e la violinista Julia Fischer, è stato una dimostrazione di come la musica unisca tempi, momenti, età e confini
Termikanov e Fischer (Foto Musacchio & Ianniello - Accademia di Santa Cecilia)

La musica davvero unisce i tempi, i momenti, le età e i confini. Forse più delle altre forme d’arte. Una riprova? Il recente concerto all’Accademia Romana di Santa Cecilia con il decano dei direttori russi Yuri Temirkanov e la 33enne violinista tedesca, bionda sull’abito scintillante, Julia Fischer. In programma l’unico concerto per violino e orchestra scritto da Brahms nel 1878, e giudicato all’epoca “ineseguibile” per le difficoltà tecniche. Non per nulla era stato scritto sotto lo sguardo del grande violinista Joseph Joachim, amico del musicista. La Fischer possiede un suono squisitamente lirico ma anche ardito, potente, pulito. Temirkanov accompagna divinamente, se si può dire, con una orchestra che più flessuosa, tardo romantica non potrebbe essere. Più che un concerto tra solista e orchestra sembra di essere di fronte ad una sinfonia per strumento e orchestra, tanta è reciproca la compenetrazione, non tanto e non solo nel dare e avere, ma nell’intersecarsi e fondersi l’uno nell’altra. Così, se il lirismo del primo tempo, Allegro non troppo,è ammorbidito dai commenti orchestrali, l’Adagio pudico con un pizzico di brahmsiana malinconia è di una rara bellezza sino all’ultimo tempo, stregonesco e zingaresco tra piani e forti come una danza robusta e vorticosa. La Fischer fa cantare lo strumento, ma ne rivela pure le diaboliche sottigliezze specie nelle sonorità più acute, tenute a lungo, luci sul magma denso delle masse orchestrali. Tra direttore e solista l’intesa è bella e si vede, nessuna incertezza in un brano maestoso, ma pure intimo, focoso e nostalgico. Brahms, che si compiace infatti di grandi architetture sonore, lascia imprevisti ed improvvisi spazi del cuore. Risultato? Il regno e la parola alla sola musica.

Nel secondo tempo del concerto, è l’orchestra la protagonista della notissima Sinfonia n. 9 “dal Nuovo Mondo” di Dvoràk. Quante volte l’abbiamo ascoltata, con quante sfumature a seconda del direttore: marziale, decisa, nervosa , lussuosa , epica, patetica. Temirkanov l’affronta con una originale attenzione ai tempi “rubati”: certo melodiare dei violoncelli,la luce indugiante del corno inglese, il suono nebbioso dei corni, l’epos degli ottoni, la carezza dei contrabbassi, la passione dei violini e quelle viole gravide di mormorii. Si sente il trionfo dei grattacieli, l’addio dalla nave alla statua della Libertà da parte del musicista boemo, le notti trepidanti di lumi sui quali si alza i l canto indiano, eco di misteri e di dolori. Luci forti, luci smorzate, mezze ombre e aurore che s’affacciano in quest’affresco dove Temirkanov ama gli indugi, emozionanti, come quel lunghissimo finale dei legni sospesi per aria. Sangue slavo, passione e tenerezza: Temirkanov, grandissimo, bianco e magro, dal sorriso lieve, canta l’America, come fosse un addio del cuore alla vita.

I più letti della settimana

Chiara D’Urbano nella APP di CN

La forte fede degli atei

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons