Uomo, dolore, eternità

Dalla lezione magistrale tenuta dal filosofo Emanuele Severino all'Istituto universitario Sophia di Loppiano, tanti spunti per una riflessione sull'uomo e sulla fede
Istituto universitario Sophia

«La filosofia non può dipendere da politica, fede, scienza o altro, altrimenti diventa un utile giro di orizzonte che tenta vanamente di mettere insieme i frammenti del sapere». L’autore di un’espressione all’insegna della quale vengono scanditi altissimi passaggi di riflessione è il professor Emanuele Severino, filosofo docente di Ontologia fondamentale all'Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, accademico dei Lincei e Cavaliere di Gran Croce, che qualche giorno fa ha tenuto una lezione magistrale “Sul senso della verità” all’Istituto Universitario Sophia.

A fare da cornice a un centinaio di minuti di relazione totalmente “a braccio”, la sala auditorium di Loppiano, nell’ambito dell’iniziativa culturale intitolata “Le cattedre di Sophia”, che in due occasioni annuali intende offrire ai partecipanti l'opportunità di ascoltare e dialogare con qualificati testimoni del mondo della cultura, della scienza, dell'arte e della fede del nostro tempo. Definito da Massimo Cacciari «un gigante del pensiero, l'unico nel Novecento a potersi mettere a confronto con Heidegger», Severino spazia nell’occasione tra i giganti della filosofia classica e moderna, seguendo un lucidissimo solco tracciato in decenni di ricerca e redazione bibliografica.

Premettendo che «la filosofia è tale solo in quanto non enuncia tesi, poiché intende essere un sapere più radicale di quello scientifico», il professore affronta il carattere a suo dire decisivo della vita dell’uomo, ossia la concezione della Verità come sapienza dell’incontrovertibile. Sophia stessa, parola che compone il concetto di filosofia, è etimologicamente generata da Saphes, in greco ‘chiaro’, per una vocazione che chiama i filosofi a “curarsi di ciò che è in luce”.

«Sebbene Nietzsche abbia fatto di tutto per non farsi capire – afferma ironico – egli porta a mio avviso alla luce il più grande pericolo per l’uomo, di cui il relativismo è solo l’apparenza, che consiste nella fondazione radicale dell’impossibilità di un Dio eterno». Secondo l’argomentazione seguita da Severino, quando non viene posto il limite di Dio in quanto “eternum”, la tecnica può potenzialmente travalicare ogni confine e potenza, andando verso l'illimitato.

«L’uomo si propone da sempre di trovare rimedio all’imprevedibilità del dolore e così della morte, da sempre tenta di forzare i propri limiti rispetto alle inevitabili barriere del dolore» – afferma Severino: così le cose tutte sono credute erroneamente come ‘un diventare altro’ e l’uomo pensa di vivere convinto di potere abbattere l’ineluttabilità del dio, il mito di Prometeo ne è emblema, nel tentativo di rubare il fuoco agli dei.

Non a caso, argomenta Severino, «amici e nemici di Dio hanno in comune la fede, nel senso ontologico, di diventare altro» ed in questo consisterebbe a suo dire il grande errore di fondo del pensiero contemporaneo. «Ricordiamo sempre ciò che non c'è più – spiega – eppure, se ricordiamo, è perché l'immagine c'è: allora ciò che viene ricordato non è l'immagine, bensì ciò che l'immagine indica, ossia il ‘non più’. Per questo si può ricordare soltanto l'eterno, così ciò che si ricorda non è altro che ciò che è necessario che ritorni». Passaggi di altissimo livello filosofico, a tratti non immediatamente comprensibili né sempre del tutto condivisi dagli interlocutori, ma certamente un contributo al dibattito accademico che incrocia sensibilità ed elaborazioni di diversa provenienza culturale.

Mario Agostino

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